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Autore: Adeia Di Elferas    09/05/2020    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Era arrivato, silenzioso e freddo, anche l'11 gennaio. Caterina non avrebbe creduto di poter passare viva e vegeta i primi dieci giorni di gennaio, e invece era in piedi sui camminamenti della sua rocca, la schiena dritta e lo sguardo diretto all'artiglieria nemica, che si era appena concessa una breve pausa.

La notte prima, come previsto, aveva passato tutto il tempo a spostare cannoni e falconetti, sistemando come meglio si poteva anche i ripari per i soldati. Certo, il cortile non era adatto a quel genere di batteria, ma in momenti tanto critici, non era il caso di cercare la perfezione: sarebbe già stato un grande traguardo resistere qualche ora, o, ancor più, qualche giorno.

Verso l'alba, la Contessa aveva controllato che fosse tutto a posto e poi era andata a ritirarsi per un po', nella speranza di riposare un po' i muscoli ammaccati. La tensione, che in quei giorni non le dava tregua, le aveva tolto l'appetito e, in un certo senso, anche il bisogno di dormire. Però sapeva di non essere invincibile e che i consigli che le davano i fratelli e i cerusici erano corretti: doveva prendersi anche fermarsi ogni tanto, se voleva riuscire a tenere il ritmo.

Così, lasciando tutto temporaneamente in mano a Giovanni Testadoro, dato che anche suo fratello Alessandro era andato a recuperare un po' di forze, la Tigre si era diretta in camera sua. E lì aveva trovato Pirovano, mandato a dormire da lei stessa qualche ora prima, per evitare di doverne sopportare i malumori il giorno dopo. Uno dei difetti del suo amante, forse legato alla giovane età, era proprio l'intolleranza alla mancanza di sonno.

Dapprima non aveva voluto svegliarlo. Si era spogliata, gli si era coricata accanto e aveva cercato di tranquillizzarsi. Poi, però, il suo corpo caldo sotto le lenzuola e l'odore della sua pelle l'avevano vinta e l'aveva ridestato con un bacio. Appena lui aveva aperto gli occhi, la Sforza era partita all'attacco e non gli aveva dato tregua per oltre un'ora, quando, sfinito, il ragazzo l'aveva stretta a sé e si era riaddormentato come nulla fosse.

A quel punto anche la donna avrebbe voluto volentieri schiacciato un pisolino, ma appena vi aveva provato, alle prime luci dell'alba, aveva sentito un colpo di cannone dei nemici, e aveva capito che la sua pausa finiva lì.

Si era rivestita in fretta, scegliendo un abito da donna e la corazzina leggera, perché l'armatura sarebbe stata insopportabile con la stanchezza che si sentiva addosso, ed era corsa ai camminamenti lasciando Pirovano ancora mezzo addormentato nel letto, del tutto indifferente al rombo dell'artiglieria nemica.

E così, mentre guardava le file di bocche da fuoco francesi, la Leonessa si sentiva stanca, nel corpo e nell'anima, e faticava a mettere in fila i pensieri in modo corretto.

Il fianco della rocca stava cedendo e restava praticamente solo il pilastro centrale a impedire alla parete di crollare. Ciò che la spaventava di più non era tanto il fatto che il muro sarebbe caduto – perché a quello era già pronta da un po' – quanto il vedere come, fin da subito, molti calcinacci si stessero riversando all'interno della rocca, nel cortile, colpendo non solo i ripari dietro cui erano posti cannoni e falconetti, ma anche i pezzi stessi d'artiglieria.

“Prepariamoci alla difesa anche diretta. Che tutti i soldati vengano armati a dovere, e che anche i servi abbiano di che difendersi.” disse a voce bassa Caterina, passando accanto al castellano che, similmente a lei, stava osservando ovunque, perdendosi in valutazioni sul da farsi.

Bernardino da Cremona annuì e poi, incerto, chiese: “Credete che la rocca cadrà oggi?”

La Tigre lanciò uno sguardo al pilastro e poi scosse la testa: “Oggi almeno no. Anche se dovessero buttar giù il muro, so che sapremo resistere per almeno un giorno ancora.”

Il castellano deglutì e chiese: “Allora, dopo aver fatto armare i soldati e i servi, posso ritirarmi un momento per confessarmi con uno dei frati?”

Caterina si morse il labbro. La richiesta del cremonese era legittima. Eppure il tono incerto con cui l'aveva posta, le aveva dato una brutta impressione: era come se alla fine anche lui ammettesse che non c'era più altro da fare. Si resisteva, perché così si era deciso, ma si trattava ormai di qualche ora e poi sarebbero morti tutti.

“Certo, certo... Che si confessi chiunque ne ha voglia.” annuì la donna e poi, con un sospiro, ritrattò l'ordine dato poco prima: “Anzi, andateci subito, dal frate... Penso io a far armare gli uomini.”

Il castellano tentennò un secondo, ma poi, ringraziando, bisbigliò un 'avete una grande anima, mia signora' e sparì.

La Leonessa lo invidiò. Anche se lo conosceva relativamente poco, aveva capito che quella confessione per lui era importante, anzi, fondamentale, e che, dopo, sarebbe stato pronto a tutto. A lei mancava una simile consolazione. Se ne sarebbe andata, come gli altri, ma l'avrebbe fatto piena di rimorsi e rimpianti. Anche cercando l'assoluzione di un prete o di un frate, sapeva che non sarebbe cambiato nulla, all'interno del suo cuore.

Con un sospiro un po' dolente, la Contessa si schiarì la voce e chiamò a sé un paio di Capitani, e così cominciò a coordinare i lavori di riarmo, sperando che tutti si facessero trovare pronti, quando il momento di alzare le spade fosse arrivato.

 

Cesare fissava la bandiera della sua nemica che sventolava arrogante nel vento freddo di quel primo pomeriggio. Non la sopportava più. Non la tollerava soprattutto perché finché era ritta al suo posto, significava che lui stava fallendo. Suo padre si stava bevendo tutte le sue belle parole, ma per quanto ancora l'avrebbe fatto? Alla fine, anche Alessandro VI, l'uomo più borioso e orgoglioso del mondo, si sarebbe reso conto che suo figlio era un incapace, inabile perfino a battere una donna...

E poi, pensava il Borja, le braccia strette al petto e lo stomaco che gorgogliava perché vuoto da troppe ore, quello stendardo aveva qualcosa di osceno, ai suoi occhi. Sapeva benissimo il perché di quella sensazione: era colpa delle chiacchiere che aveva sentito fare dai suoi soldati. Per molti di loro quella vipera, o biscia che fosse, era solo un simbolo della lussuria della Tigre, l'effige di ciò che pretendeva ogni notte dai suoi soldati.

Anche se era cosciente che non fosse così, perché quello era solo il vessillo che era stato dei Visconti e che poi gli Sforza avevano adottato, ormai il figlio del papa vedeva solo un'allegoria, in quel serpente azzurrognolo, e la cosa lo disgustava e, allo stesso tempo, lo faceva sentire ancor più preso per i fondelli. Era come se quella dannata meretrice gli schiaffeggiasse in faccia la verità: lo stava mettendo in difficoltà, forse l'avrebbe addirittura battuto, e lui non sarebbe mai nemmeno riuscito a sfiorarla con un dito...

Doveva fare qualcosa e doveva sbrigarsi. Non poteva più sopportare quella situazione.

“Mio signore – gli disse Achille Tiberti, che si era preso il disturbo, dall'alto dei suoi millantati importantissimi impegni, di affiancarlo nella coordinazione dell'artiglieria – se continuiamo così, finiremo la polvere e non avremo abbattuto nemmeno un muro...”

Cesare inspirò a fondo, l'aria gelida che gli riempiva i polmoni, scatenandogli quasi un colpo di tosse: “Colpiamo dal lato della cortina, tra i due torrioni danneggiati: insistiamo lì.”

Il cesenate si voltò un momento verso Ravaldino e poi, perplesso, rispose: “Ma quello è il lato in cui il fossato è più profondo... Riempirlo in quel punto sarà molto più difficile che non...”

“Ho detto – lo interruppe il Borja, improvvisamente autoritario come mai era riuscito a essere con Achille – che si attaccherà da quel lato, e così faremo.”

Tiberti non osò contraddirlo e andò subito a gridare l'ordine agli artiglieri, che si stavano prendendo un momento di pausa, come tutti. Nel giro di pochi minuti, la batteria di cannoni nuovi ed enormi che il Valentino aveva fatto sistemare apposta per quell'offensiva cominciarono a cantare.

 

“Tutti quei corpi... Bruciati come se fossero resti di qualche infedele...” stava dicendo, a voce molto bassa, Monsignani, la testa coperta di capelli chiari che si scuoteva abbattuta.

“E che altro avrei dovuto fare?” ribatté piccata Caterina, seduta accanto a lui sulla panchetta di pietra del corridoio: “Lasciarli tra i calcinacci? Seppellirli nel cortile, trasformandolo in un cimitero? Lanciarli ai francesi, come fossero palle di cannone?”

Il frate non rispose, limitandosi a stringere le labbra. Anche la Tigre tacque, tentata di andarsene e lasciarlo al suo destino. L'aveva cercato solo per avere un momento di tranquillità e discutere con lui in modo disteso, cercando quel conforto morale che la semplice vicinanza fisica di un altro amante, come Pirovano, non le avrebbe dato.

E invece Vangelista aveva cominciato a rivangare una questione su cui lei si era già beccata con gli altri francescani presenti alla rocca: i morti bruciati. Finché avevano perso uomini nelle sortite notturne, non avevano avuto il problema di smaltire i cadaveri, perché venivano lasciati sul campo, alla mercé dei francesi. Da quando, però, avevano iniziato ad avere vittime dei bombardamenti nemici tra le mura di Ravaldino, la questione era cambiata.

Volendo evitare epidemie e problemi di qualsiasi tipo, la Contessa aveva ordinato che si eliminassero i resti con il fuoco. Ciò che restava delle piccole pire veniva messo da parte, ma più di quello non avrebbe potuto fare.

“Quindi – riprese, dopo un po', Monsignani – anche se morissi io mi faresti bruciare...”

Caterina si morse il labbro e poi, sollevando le sopracciglia, annuì e ammise: “Non ci sarebbe motivo di trattarti in modo diverso dagli altri.”

Il frate stava per ribettere, probabilmente in tono di protesta, quando il primo colpo di cannone fece vibrare l'intera rocca.

Con una bestemmia, la Sforza lasciò il sedile in pietra e corse verso le finestre che davano sul cortile: dal lato opposto, la parete già danneggiata, stava quasi oscillando.

“Stanno colpendo vicino al pilastro...” soffiò lei, sentendo il cuore battere all'impazzata: “Tutti ai vostri posti! Al riparo e poi subito ai cannoni! Lontani dal muro!” gridò allora, spalancando la finestra e sperando che più uomini possibili la sentissero e facessero quanto chiesto.

Forse per eccesso di spavalderia, o forse perché le parole della Leonessa davvero non avevano raggiunto tutti a dovere, mentre la parete si incrinava sempre di più, perdendo pezzi, una nutrita schiera di soldati si sistemò proprio dietro al pilastro centrale, ritenuto il punto più solido della cortina.

I dieci cannoni che il Borja aveva fatto piantare dal lato della montagna, però, continuavano a far fuoco e dapprima si formarono due grosse brecce, una per lato rispetto al pilastro, e poi, come sabbia, crollò del tutto.

Caterina, dall'alto dei camminamenti del lato frontale della rocca, affiancata dal fratello Alessandro e da Giovanni da Casale, osservava impotente la scena, cercando di far spostare i suoi con ordini gridati a tutto fiato, ma ormai la situazione era più che compromessa.

Michele Marulli, però, che non era sulle merlature, né tra quelli rimasti dietro al pilastro, decise di farsi portavoce delle direttive della Contessa. Attraversò il cortile, per metà della sua ampiezza, e, posizionandosi tra l'artiglieria – in parte danneggiata dai pezzi di cortina caduti – cominciò a ripetere gli ordini, riuscendo, infine, a smuovere i soldati ormai più impauriti che altro.

Dopo pochi minuti, sotto una raffica di colpi di cannone, anche il pilastro cedette, ma praticamente nessuno vi rimase ucciso sotto.

Tutti quelli nel cortile presero posto ai falconetti e ai cannoncini, e quando finalmente la polvere della parete crollata si diradò, i francesi, che già si stavano preparando a riempire il fossato per poi entrare a Ravaldino – trovandosi improvvisamente una porta che andava da un torrione all'altro – si pietrificarono.

La vista di quel cortile trasformato in batteria li spaventò. Quando partirono i primi colpi di controffensiva, poi, la maggior parte degli uomini del Borja si mise a correre, ma per scappare in città, lontano da quello che a tutti sembrava un trucco da strega.

Qualcuno della rocca, non sapendo maneggiare l'artiglieria, si prodigò a usare i calcinacci più grossi come supplemento alle protezioni dei cannoni, e anche se le bocche da fuoco francesi stavano tirando ancora qualche timido colpo, ormai era chiaro che, per quel giorno, gli uomini del Valentino non avrebbero affondato di più l'offensiva.

“Le pietre sono finite in gran parte nel fosso – soppesò Caterina, per nulla sollevata dalla momentanea ritirata del nemico – così faranno meno fatica a riempirlo... Ci metteranno meno tempo di quel che speravo...”

Pirovano, che era accanto a lei, si trovò d'accordo con la valutazione e propose, incerto: “E se provassimo a ricostruire in parte il muro?”

“Allora vedresti che ci riattaccherebbero subito.” lo liquidò lei, per poi rivolgersi al fratello: “Si devono organizzare dei turni precisi. Voglio che l'artiglieria sia sempre pronta. Appena qualcuno prova ad avvicinarsi, bisogna colpire.”

Alessandro annuì e poi, dopo aver chiesto qualche dettaglio riguardo al piano, lasciò la sorella e Giovanni da Casale e, chiamando a sé i Capitani, si apprestò a mettere in pratica quanto deciso.

“I francesi si stanno ritirando dietro le loro linee.” fece a voce bassa la donna, mentre gli occhi verdi inseguivano il profilo del sole che stava già sparendo oltre l'orizzonte: “Non ci riattaccheranno prima dell'alba, puoi starne certo. Li abbiamo spaventati e il figlio del papa avrà il suo bel da fare a convincerli che non sono una strega e che i nostri cannoni non sono comparsi per magia.”

“Quindi?” chiese il milanese, temendo, come sempre, di aver capito solo in parte il discorso della sua amante.

“E quindi possiamo andare al riparo per qualche ora.” spiegò lei: “Ti va di mangiare qualcosa e poi andare in camera?”

Pirovano pareva perplesso, come se non si aspettasse da lei un simile comportamento. Si era già figurato che la sua donna sarebbe rimasta, granitica, sui camminamenti fino al mattino dopo, incurante della stanchezza, della sete e della fame. E, invece, il modo in cui lo guardava, racchiudeva tutti quei bisogno, assieme a un altro, molto più intimo e delicato: Caterina voleva la sua compagnia, la sua vicinanza, insomma, non voleva sentirsi sola.

Tendendo la mano che la Contessa cercava, l'uomo annuì e sospirò: “Va bene, andiamo subito, allora, prima che succeda qualcosa e ti richiamino all'azione...”

 

La notte era ormai scesa su Forlì e Cesare non era ancora riuscito a convincere tutti i suoi graduati della validità della sua decisione. Alla fine, stremato, aveva lasciato perdere, convinto che, all'indomani, avrebbero cambiato tutti idea e lo avrebbero appoggiato.

Ancora una volta ciò contro cui si stava scontrando non aveva nulla a che fare con la forza di fuoco nemica o la politica: era la superstizione dei soldati francesi a frenarlo. Quando avevano visto i cannoni della Sforza, apparsi come dal nulla dietro alla parete caduta, non avevano minimamente pensato che fossero lì già da prima e che, semplicemente, il crollo li avesse messi a nudo. Per loro era stato più logico credere che la Tigre li avesse fatti comparire dal nulla.

Forse altri, magari perfino suo padre il papa, avrebbero saputo sfruttare quella convinzione a proprio favore, usando la comparsa improvvisa delle bocche da fuoco come capo d'imputazione per un processo alla Leonessa di Romagna, accusandola di stregoneria. In realtà anche il Duca di Valentinois ci aveva pensato, ma poi aveva desistito. Temeva che facendo così i soldati si sarebbero convinti che quella donna fosse realmente una strega e a quel punto nessuno più avrebbe avuto il coraggio di combattervi contro. E Cesare non poteva permettersi una diserzione di massa in un momento tanto critico.

L'unica cosa che poteva fare era accelerare i lavori per riempire i fiumi e trovare il modo di utilizzare al meglio le due barche che gli erano state consegnate giusto quel giorno, appena giunte da Ravenna.

Così, rimuginando su quanto l'aspettava il giorno dopo, il figlio del papa mangiò in fretta qualcosa in stanza e poi, capendo che sarebbe comunque rimasto insonne, chiese a Luffo Numai di riportargli la serva che gli aveva dato le notti precedenti.

Il forlivese tentennò, insospettendo il Valentino che, nervoso, gli chiese: “C'è qualche problema, vecchio?”

Luffo, ormai avvezzo alla mancanza di rispetto crescente da parte del suo ospite, non se la prese per quell'epiteto, ma rispose nel modo più semplice possibile, sperando di non venir punito per qualcosa che non dipendeva da lui: “Mio signore, la mia serva non sta bene e...”

“Sai quanto me ne importa.” borbottò il Borja, gettando un pezzo di legno nel camino acceso: “Ti ho detto di farla venire qui.”

“Ha la febbre alta e non può fare proprio nulla, per voi, stanotte.” si impuntò Numai, che, in effetti, aveva dovuto chiamare il proprio medico per aiutarla, dato che non erano bastati nemmeno gli impacchi freddi e quel poco di pozione per la febbre che la Contessa gli aveva lasciato tempo addietro.

Cesare parve scocciato, ma risolse in fretta la questione dicendo: “E allora portamene un'altra.”

Luffo ci mise qualche secondo a recepire la richiesta, ma poi lasciò la stanza borbottando che l'avrebbe fatto. Il Valentino, sbuffando si mise ad aggirarsi per la stanza, la cortina crollata della rocca che continuava a balenargli davanti agli occhi, ossessionandolo.

Se solo l'esercito l'avesse seguito più facilmente, avrebbe fatto dare l'attacco quella sera stessa, e Ravaldino sarebbe stata sua prima dell'alba.

Guardò sconsolato il letto, ornato dalle spesse coperte che, a detta della moglie di Numai, erano le più morbide e le meglio ricamate che si potessero trovare in Romagna, e si trovò a pensare che, se le cose fossero andate come diceva lui, probabilmente ora tra quelle lenzuola ci sarebbe stata la Tigre di Forlì. Alla sua mercé, sconfitta nel corpo e nell'anima, senza più volontà e senza più voglia di farlo passare per l'ultimo pivello a cui fosse stata messa in mano una spada.

Quando Luffo tornò, Cesare stava ancora pensando alla Sforza. Se gliel'avessero portata viva, sapeva ben lui cosa farle passare. Mentre, se gliel'avessero consegnata già morta, aveva già deciso come prendersi ugualmente la sua rivincita su di lei: le avrebbe staccato la testa dal corpo e l'avrebbe inchiodata alla porta del bordello più squallido della città, ovvero l'unico posto che le si addicesse.

“E questa chi è?” chiese il Borja, quando intravide la donna che il padrone di casa gli aveva portato.

Numai, che aveva parecchie conoscenze in città, anche nei bassifondi, aveva recuperato velocemente quella giovane, nota per essersi affrancata da poco da un postribolo che stava appena fuori città. Le aveva promesso più soldi di quanto fosse lecito e lei, in parte allettata dal denaro e in parte forviata dal titolo nobiliare del Duca di Valentinois, aveva accettato subito di seguirlo fino a palazzo.

“Una mia serva.” mentì Luffo, scambiando uno sguardo con la donna, con cui aveva concordato tutto quanto.

“Non l'ho mai vista, qui...” ribatté il Borja, guardingo.

“Lavora nelle cucine.” spiegò il forlivese, sforzandosi di apparire sincero: “Fa la sguattera, non esce mai dai locali della servitù.”

“Non è vestita da sguattera.” notò Cesare, passando in rassegna l'abito un po' pacchiano, ma comunque non da lavoro, della giovane.

“Non potevo portarvela vestita di stracci.” ribatté prontamente Luffo.

Apparendo convinto, il Valentino annuì e, prendendo in consegna la donna, congedò il forlivese con un secco: “State tranquillo, se c'è sotto qualche imbroglio, me ne accorgerò e sarete in due a pagarla.”

Sapendo che la giovane che aveva reclutato avrebbe fatto tutto quello che le veniva chiesto, senza opporsi a nulla, Numai se ne andò moderatamente sicuro che il suo ospite non avrebbe avuto nulla da ridire, il mattino dopo.

“Tutto a posto?” chiese Caterina Paolucci, sua moglie, quando la raggiunse in camera.

“Per quanto possa essere a posto...” soffiò Luffo, prendendosi la testa tra le mani: “Sono così stanco...”

La donna gli si avvicinò e gli diede un abbraccio: “Lo so. Ma ne usciremo. Come sempre. Abbiamo passato anche di peggio.”

“Lo credi davvero?” fece lui, guardandola con gli occhi colmi di tristezza e rammarico: “Io un diavolo simile non l'ho mai conosciuto.”

 

“Cos'hai da guardarmi a quel modo?” chiese Caterina, rivolta a Pirovano che la fissava con insistenza.

Avevano mangiato in fretta e poi si erano ritirati in stanza. La Sforza aveva preso con sé una piccola brocca di vino, e, arrivata in camera, si era spogliata con cura, aveva indossato una vestaglia da notte e, dopo essersi sciacquata le mani e la faccia per togliersi di dosso un po' di polvere.

Dopodiché si era messa alla scrivania e aveva bevuto qualche sorso, aspettando che il suo amante riattizzasse il fuoco nel camino. Poi, quando Giovanni si era seduto sul letto, si era messa a fissare le fiamme e aveva sorbito ancora un po' di vino, con calma, come se non ci fosse fretta di nulla.

“Mi chiedevo solo come fai a essere così tranquilla.” rispose Pirovano, allargando appena le braccia.

“Te l'ho detto: stanotte non attaccheranno.” disse lei, finendo il calice che aveva tra le mani.

“Stanotte no, ma domattina sì.” l'incalzò lui.

“E agitarmi ora che cosa cambierebbe? Nulla.” nella voce della Sforza c'era più stanchezza di quanta il milanese fosse abituato a sentire, ma fece finta di non essersene accorto.

“Non hai delle reazioni normali.” buttò lì.

La Tigre, allora, fece una mezza risata secca: “Lo dici tu, che, dopo esserti vantato di essere un gran soldato e un grand'uomo, hai abbandonato la cittadella al primo colpo di cannone... Quella era una reazione normale, da parte di un comandante?”

Giovanni sospirò e mise in chiaro: “Non voglio litigare con te. Non stanotte.”

“E allora smettila di irritarmi.” rimbeccò lei, appoggiando il calice vuoto sulla scrivania e raggiungendo il letto.

Si sedette accanto al suo amante e poi, con un sospiro pesante, gli prese una mano, stringendola con forza. Aveva paura, eccome, di quello che sarebbe successo il giorno dopo. Nel suo animo si agitavano i timori per il breve futuro che vedeva dinnanzi a sé e i ricordi di un passato per gran parte doloroso e che non l'abbandonava mai del tutto. Sentiva di aver fallito come madre, come moglie, come capo dello Stato, come figlia, come amante e come donna. Ma cosa poteva dire, di tutto quello che le si agitava nel petto, a un ragazzo come Pirovano? Cosa avrebbe capito lui? Cosa avrebbe potuto fare per aiutarla?

Nulla: questa era la risposta a tutte le sue domande.

Così, fingendo che davvero non le importasse di essere vicina alla fine, posò la testa contro la spalla di lui e sussurrò: “Questa potrebbe essere davvero la nostra ultima notte.”

Giovanni le diede un breve bacio in fronte e poi, accorgendosi che lei già stava cercando di più, non si fece altre domande e prese quello che gli veniva offerto, cercando di non pensare che quella potesse essere davvero l'ultima volta.

Mentre ancora la Tigre avviluppava le sue spire attorno a lui, il milanese, quasi senza fiato, le bisbigliò all'orecchio: “Ti amo, Caterina. Non mi importa di nient'altro.”

Ma lei, che avrebbe tanto voluto dirgli la verità e sapergli spiegare che ruolo importante avesse avuto lui nella sua vita, non riuscì a dire altro se non un roco: “Lo so.”

 

 
   
 
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