CAPITOLO
12: SI PARTE PER IL CAMPO ESTIVO
Alan
si lavò la faccia nell’acqua gelida.
Era
mattina presto, ma il cielo era chiaro e si stava bene. Si
sciacquò il viso,
per poi guardarsi allo specchio sopra al lavabo. I capelli erano
arruffati;
doveva tagliarli di nuovo. Gli occhi erano scavati e aveva i capillari
in
evidenza. Aveva dormito poco, o forse poteva dire che era sveglio da
parecchio;
entrambe le versioni andavano bene. Non riusciva mai a dormire prima
dei
viaggi, anche in occasione di quelli “stupidi”.
Aveva
ricontrollato mille volte di aver messo tutto nella sua valigia da
viaggio, e
mille volte aveva pensato di star dimenticando qualcosa. Persino ora,
mentre si
asciugava la faccia con l’asciugamano blu che aveva appena in
bagno, pensava di
star tralasciando un dettaglio fondamentale. In realtà, non
aveva dimenticato
nulla di indispensabile per quella breve trasferta. A turbare
così tanto il suo
animo era il fatto di aver finalmente riconsegnato il deck ai ragazzi
del
Campo. Un patto era un patto: dopo aver vinto – con estrema
difficoltà – il suo
duello con Mera, Alan aveva ridato agli altri il deck, e stavolta
Barney non
avrebbe potuto tirarlo fuori dalla tasca o da un cappello. Ma proprio
ora che
si sarebbe dovuto finalmente rilassare, il suo animo soffriva per la
mancanza
di quel mazzo di carte. Lui non se ne rendeva conto, ma
l’emozione di stringere
nuovamente in mano uno strumento al quale era tanto abituato anni
prima, aveva
influito potentemente su di lui. Il suo cuore di duellante si stava
ribellando
con tutte le sue forze.
Ma
Alan, incapace di ascoltarlo, e pensando solo al peso delle piastrine
che aveva
al collo, continuava a chiedersi se stesse dimenticando qualcosa.
Lo
strombazzare di un clacson appena fuori la finestra lo
richiamò all’ordine
delle cose. – Merda! – esclamò, subito
prima di saltare fuori dal bagno. Era
ancora in pantaloncini. Si cambiò di corsa, mentre fuori
continuavano a
strombazzare.
-
Arrivo, arrivo! – esclamò, e a quel punto non
c’era più tempo per protestare.
Si era cambiato, e ora indossava una maglietta bianca a mezze maniche.
Sopra
c’era una scritta in inchiostro blu che sembrava una
pennellata:
CAMPO
ESTIVO
DI
LILYCOVE
CITY!
Alan
corse fuori, la valigia in una mano e una giacca estiva
nell’altra.
Fuori,
sulla strada davanti casa sua, in una Subaru blu e il braccio
abbronzato fuori
dal finestrino, c’era Barney. Portava gli occhiali da sole e
aveva la stessa
maglia.
Se
li calò con un dito.
-
Salta a bordo, schiappa – lo esortò. –
Si va a duellare.
-
Non ci credo che non vuoi venire! – Serena era quasi
sull’orlo delle lacrime.
Suo fratello non aveva mai saltato un campo estivo, neanche uno da
quando erano
piccoli, prima come partecipante e poi come educatore. Ma ora, mentre
lui le
dava le spalle e stava infilando il proprio deck e altri oggetti
personali in
un borsone con il quale andava in palestra, sembrava proprio che quel
giorno
fosse arrivato.
Era
come la fine di un’era.
-
Scusami, sorellina – le disse, un po’ brusco
– ma ho di meglio da fare ora che
badare a qualche marmocchio.
Fece
per uscire dalla sua camera, ma lei gli sbarrò il passo.
-
Questo non sei tu, Lance – gli disse, guardandolo
intensamente negli occhi. Un
guizzo a lato della bocca del rosso, ma nulla più.
-
Spostati, dai – la pregò.
-
Dove stai andando?
-
Non sono affari tuoi, Serena. – L’inflessione della
sua voce era diventata
dura, non conservava quasi nulla dell’abituale calore che
aveva di solito.
Serena ne fu quasi spaventata.
-
Perché non vuoi dirmi cos’è successo
tra te e Alan?? – Era disperata. Aveva
notato che il cambiamento in suo fratello era cominciato da quella
volta che
Alan era stato ricoverato in ospedale dopo quel brutto colpo di sole.
Ma
ignorava cosa potesse essere successo tra di loro. E Lance non aveva
voluto parlare,
specialmente dopo il duello tra Alan e Mera. Non era proprio da lui
comportarsi
così.
-
Se ci tieni tanto a saperlo, puoi chiederlo a lui visto che siete
così amici –
le rispose lui, e poi la scostò, non troppo delicatamente.
– Devo andare.
Serena
lo guardò andare via impotente. Poi lo vide fermarsi sulla
soglia, come per un
ripensamento, e nel suo cuore si accese una flebile speranza. Ma
durò poco,
perché lui si voltò e le disse: - Io lo
sconfiggerò, Serena.
-
Cosa?
Lui
la guardò con i suoi occhi penetranti. – Lo
batterò, è chiaro?
Poi
aprì la porta, travolgendo per poco Winona, che stava per
suonare al
campanello.
-
Oh, Lance, stavo giusto venendo a chiamar… - Si interruppe
quando lui le passò
accanto, senza nemmeno degnarla di uno sguardo. Salì in
macchina e partì
spedito.
-
Ma che diavolo – borbottò la ragazza dai capelli
lilla, poi si introdusse in
casa dopo aver mormorato un “permesso”. Indossava
anche lei la maglietta bianca
del campo di Lilycove.
-
Che gli è preso a tuo fratello? –
domandò, indicando col pollice la porta
aperta.
Serena
ricadde a sedere sul letto dell’altro, abbattuta.
-
Vorrei tanto saperlo anch’io…
-
“Si va a duellare” – Alan fece il verso a
Barney. – Difficilmente ne ho
conosciuti di più coglioni di te.
Il
sorriso del biondo gli illuminò il volto quasi quanto il
sole che si rifletteva
sul parabrezza. – Lo so, per questo siamo amici.
Alan
dovette concordare. Poi si diede una rapida occhiata intorno,
c’era qualcosa
che non gli tornava.
-
Ma… questa macchina è nuova?
-
Eggià – annuì l’altro, senza
staccare gli occhi dalla strada.
-
Come puoi permetterti tutta questa roba??
Risatina.
– Non chiedere.
Arrivarono
ad un semaforo. – Sì, questo è il nuovo
modello della Subaru, la Subaru SW.
-
SW? – Alan non l’aveva mai sentita.
-
Oh sì. È super innovativa, ti faccio vedere: qui
c’ha le frecce…
-
Come tutte le auto, Barney.
Il
biondo sogghignò, poi fece ruotare la levetta delle frecce,
che si spostò a
destra del volante. – E qua le marce!
Alan,
le braccia incrociate sul petto, si piegò in avanti, gli
occhi che ora si
riempivano di meraviglia. – Spettacolo… -
mormorò. Barney annuiva soddisfatto.
-
Se poi faccio così – proseguì, e
stavolta la levetta si fermò al centro, sopra
il volante – prende tutte le frequenze!
-
AM, FM…? – Alan le stava contando sulle dita.
-
CQC, certo – annuì soddisfatto.
-
Bestiale. E com’è messa a sistemi di sicurezza?
-
Te lo mostro al prossimo semaforo. – Ripartirono non appena
scattò il verde.
Arrivati al nuovo semaforo, in coda con altre due auto, Barney
afferrò il
volante. Alan non capì cosa volesse fare fino a che lui non
disse: - Metti che
fai un incidente grave…
L’intero
impianto del volante si spostò di lato. – Sposti
il piantone e ti salvi la
vita!
Alan
era a bocca aperta e con gli occhi grandi come bocce. –
Guarda che i giapponesi
sono avanti – e fece un gesto con la mano, come se avesse
appena dato un pugno
e si fosse fatto male.
-
I giapponesi ne sanno a pacchi. Be’, dopotutto
l’hanno inventato loro il Duel
Monsters.
Alan
ridacchiò. – Vero.
Ripartiti,
Barney gli fece un cenno con la testa. – Comunque, telefona a
Shaun, che
dobbiamo andarlo a prendere e quello non è mai pronto se no.
Alan
tirò fuori il cellulare e represse uno sbadiglio.
Cercò
il numero di Shaun in rubrica, e premette il tasto. Attese qualche
secondo,
finché qualcuno non rispose.
-
Ehi Shaun, siamo n…
Barney
sentì Alan arrestarsi. Spostò rapidamente lo
sguardo dalla strada a lui, e poi
di nuovo alla strada. Inarcò un sopracciglio; Alan sembrava
contrariato. Alla
fine, il moro chiuse la telefonata.
-
Che… ti ha detto? – Barney aveva stranamente paura
a chiederlo.
Alan
guardava il cellulare come se fosse un oggetto alieno, la bocca
contratta in
una smorfia. – Ansimava – disse alla fine.
Barney
lo guardò per un attimo. – Eh?
Alan
continuava a fissare il cellulare, ed era tornato alla rubrica ora.
– Non ho
capito se fosse un maniaco, o sua sorella.
-
O magari un maniaco con sua sorella – suggerì il
biondo.
Alan
lo guardò, sgranando gli occhi. – E se…
il maniaco con sua sorella fosse
proprio lui?
Indicò
il telefono. – Cioè, era il suo numero dopotutto!
In
quel momento, alla radio partì Sweet
Home
Alabama, di quella band di cui nessuno aveva mai imparato a
pronunciare il
nome. – Meglio se lo richiami – suggerì
Barney.
-
Ma io ho paura. – Alan era seriamente inquietato.
-
Metti in vivavoce – gli disse il biondo. Poi
abbozzò un sorrisino: - Se ci sono
dei gemiti, voglio sentirli anch’io.
Indicò
la presa per il cellulare. Alan lo infilò lì e
compose il numero, per poi
metterlo in vivavoce. Gli squilli riempirono l’abitacolo.
-
Allora? Che fa, non risponde? – Barney cominciava a farsi
ansioso.
-
Eh no, se sta scopando con sua sorella no che non risponde!!
– e Alan aveva
ancora quella scena in mente.
Poi
qualcuno rispose. I due non fecero in tempo a fare un verso che
sentirono
rumori di botte e urla.
-
Oh, ci va giù pesante il ragazzo – disse Barney.
-
No, io credo che sia una cosa seria – e Alan era seriamente
preoccupato. –
Shaun? Shaun, ci senti?
-
Chi cazzo è quello là?! – sentirono
urlare una voce, che forò i loro timpani. –
Da dove ha parlato??
Alan
chiuse d’impulso la conversazione. I due si guardarono ancora.
-
Senti, forse è meglio se non chiamiamo più e ci
facciamo trovare direttamente
sotto casa sua – propose.
-
Potrebbe essere una buona idea – concordò il
biondo.
Imboccarono
la strada per la via di Shaun, dopo che Barney ebbe passato due minuti
buoni a
strombazzare un tipo che gli ostruiva la strada, e dopo una curva a S
nella
quale Alan ringraziò di non aver ancora fatto colazione.
Alla
fine, arrivarono in un complesso residenziale che sembrava uno dei
quartieri
malfamati di Scampia. Si guardarono intorno.
-
E ora che facciamo? – domandò il moro.
-
Facile, lo chiamiamo a voce. Come facevano gli strilloni per vendere i
giornali.
Alan
non era molto convinto, ma si sporse comunque verso il finestrino.
Prima che
Barney potesse avvisarlo, lui si mise a urlare il nome
dell’altro.
-
SHAUN?! SH-
-
MA SEI SCEMO?! – Barney aveva le orecchie che gli
fischiavano. – Gridi in
macchina senza abbassare il finestrino? Così diventiamo
sordi!
Alan
fece un gesto col dito che voleva indicare tutto l’abitacolo.
– Ma non è
insonorizzata?
Barney
lo guardò con una faccia da triglia. –
Sì, ma da dentro per fuori, non da
dentro per dentro!
Alan
fece una smorfia. – Finché compri il modello base.
Altro che innovazione.
E
smontò direttamente. – Modello base –
gli fece il verso Barney, smontando a sua
volta. Si misero a gridare per il viale, finché una delle
finestre non si aprì
e ne uscì fuori l’altro ragazzo, con i capelli che
non avevano mai conosciuto
il pettine e gli occhiali da vista calati per sbilenco.
-
Oh ma che urlate? Qua la gente mi conosce, poi mi viene a chiedere che
amici
ho! – protestò. – E scusate, non potete
urlare un po’ più piano?
I
due lo guardarono a metà tra l’interrogativo e il
seccato. – Scusa, non abitavi
di là? – gli domandò il biondo,
indicando col pollice oltre la sua spalla la
palazzina lì di fianco.
-
Se vieni di qua abito di qua, se vieni di là abito di
là. – I due non sapevano
come replicare. Alan lo esortò: - Dai, vieni giù
o rischiamo di far tardi.
-
Finisco il competitivo in Mortal Kombat X e scendo – e dopo
quell’avviso, il
ragazzo si ritirò chiudendo di nuovo le persiane. I due si
scambiarono uno
sguardo confuso.
-
Competitivo in Mortal Kombat X a quest’ora del mattino?
– fece Alan. – A
mezzogiorno che facciamo, World Championship di Duel Monsters con un
deck di
mostri normali?
Barney
fece spallucce. – Io ho giocato solo a Mortal Kombat
Armaggedon.
E
così dicendo rientrarono entrambi in macchina, tenendo
stavolta i finestrini
abbassati per non soffocare.
Serena
fissava pensierosa il paesaggio che le scorreva accanto senza guardarlo
davvero. Alla radio, Wynona aveva messo su la musica pop che tanto le
piaceva.
-
Non pensarci – le disse, e lei si riebbe.
-
Come?
Sbatté
un paio di volte le palpebre.
Wynona
le lanciò un colpo d’occhio e poi torno a
concentrarsi sulla strada.
-
Qualunque cosa sia presa a tuo fratello, gli passerà.
È inutile che ti
preoccupi.
Serena
si tenne il volto con una mano. – Non è da lui
comportarsi così – sospirò. E
poi aggiunse: - Non riesco a fare a meno di pensare che dipenda tutto
da Alan.
Wynona
le rivolse uno sguardo, più lungo di quello precedente, e
poi tornò a guardare
la strada.
-
Perché lo pensi?
-
Perché tutto è cambiato quando loro due si sono
parlati – sputò fuori la
bionda, sistemandosi meglio sul sedile. – Qualunque cosa gli
abbia detto… ha
turbato Lance più di quanto abbia fatto persino la morte del
nonno.
Serena
si ricordava bene quel giorno. Entrambi erano molto legati al nonno,
perché era
quello che aveva insegnato loro come giocare a Duel Monsters. Ma Lance,
anche
per il tipo di deck che poi aveva scelto di adottare, ci era legato in
una maniera
più profonda di quanto lo fosse Serena. Perso suo nonno, ci
aveva messo del
tempo a riprendersi.
-
Ricordo che Lance fece una promessa…
Guardò
la strada che si estendeva davanti a loro, mentre piano piano
lasciavano la
città e si immettevano per la super strada.
-
Promise al nonno che sarebbe diventato un campione di Duel Monsters
– proseguì,
giocando con una ciocca di capelli. – E che avrebbe onorato
la sua memoria.
La
ragazza dai capelli lilla fece un sorriso. – Una cosa molto
bella – osservò.
-
Certo… - Ma Serena era cupa. – Solo che ora mi
chiedo cosa volesse dire
davvero…
-
Chiedo scusa, ma perché dovrei stare io dietro?
La
domanda di Alan era alquanto legittima. Shaun, appena montato in
macchina, si
mise la cintura e disse: - Sto male nelle curve.
-
Finché giochi a Mortal Kombat a quest’ora per
forza che stai male nelle curve!
– osservò Barney, piccato. – Non fanno
altro che squartarsi a vicenda!
-
Quello che fanno i nostri mostri tutti i giorni, solo con meno budella
– gli
rispose Shaun, e tirò fuori dal suo zaino una bottiglietta
d’acqua frizzante.
-
Bevi acqua frizzante? – Intanto Barney aveva fatto manovra.
Il
moro rischiò quasi di strozzarsi con l’acqua per
la brusca sterzata del biondo.
Si pulì col dorso della mano e rimise l’acqua a
posto.
-
Finché posso scegliere tra l’acqua normale e
quella coi DLC perché dovrei bere
quella normale? – gli chiese.
Alan
guardò fuori dal finestrino come sperando che qualcuno gli
rispondesse.
Dopo
che anche loro si furono immessi lungo la super strada, Barney
dichiarò con un
sorriso: - Be’ dai, tra un paio d’ore saremo a
Lilycove!
-
Che bello – convenne Shaun, e poi indicò un punto
a destra col dito. – Puoi
fermarti là? Devo fare pipì.
Barney
e Alan si scambiarono uno sguardo, dopodiché il biondo fece
un risolino
nervoso. – Vuoi scherzare, vero? Siamo appena partiti.
Il
moro lo guardò in modo quasi trasognato, come se non fosse
veramente lì. – Sì,
ma a me scappa.
-
Potevi farla a casa tua – gli fece notare Alan, sporgendosi
tra i due sedili.
-
Prima non mi scappava – si difese l’altro.
Barney
cercò di essere ragionevole. – Va be’
dai, alla prossima stazione di servizio
che incontriamo…
-
Ti faccio il pieno – finì per lui Shaun, anche se
era sicuro che non fosse
quello che voleva dire l’altro. – Se ti dico che mi
scappa, mi scappa.
-
Non puoi reggere? – gli domandò Alan.
-
Tu non hai idea. – Shaun si sporse verso di lui. –
La mia vescica rompe le
leggi della logica. Piscio ogni mattina appena sveglio. Se per caso
vedo un
corso d’acqua ho l’improvviso impulso di correre in
bagno. Una volta mia
sorella ha osato bere davanti a me…
Si
strinse nelle spalle. – Non è finita bene
– concluse.
Barney,
che era leggermente inquietato, se ne uscì con: -
Sì, ma se fai così ci tocca
fermarci ogni mezzo chilometro, e arriviamo dopodomani. Non possiamo!
E
sbatté le mani sul volante, rafforzando la presa. Shaun,
dopo qualche attimo di
silenzio, asserì: - Benissimo.
Alan
e Barney sorrisero, rinfrancati.
Poi
l’altro afferrò la zip dei bermuda e
dichiarò: - Ti piscio in macchina!
Intanto,
Lance era arrivato a Saffron City.
Odiava
il modo in cui si era congedato da sua sorella, tuttavia, per quanto
brutale
potesse suonare, aveva altro di che preoccuparsi ora. Serena non era
più una
bambina, avrebbe capito. Dal canto suo, il viaggio in macchina che
aveva
affrontato fin lì, quasi due ore, non lo aveva aiutato a
schiarirsi le idee
come pensava.
Anzi,
se possibile aveva ancora più domande.
Seguì
il navigatore fino ad arrivare presso la zona residenziale.
Là, in mezzo ai
vari edifici, svettava l’imponente profilo della Devon. A
guardarlo, faceva una
certa impressione, con i suoi sessanta e passa piani tutti in vetro che
brillavano incandescenti alla luce del sole.
Dovette
districarsi un po’ tra sensi vietati e zone a traffico
limitato, sbagliò strada
un paio di volte perché il navigatore non considerava le
zone dove non poteva
andare, e alla fine parcheggiò in una viuzza laterale. Mise
i soldi nella
macchinetta e ottenne un biglietto per due ore. Contava che bastassero.
S’incamminò
a piedi. La città si era svegliata da poco, e il profumo del
pane e delle
brioche appena sfornate gli ricordò che non aveva fatto
colazione, era partito
di getto. Si sedette a un bar e ordinò un caffè
d’orzo e una brioche vuota.
Scoprì di non avere molta fame. Pagato il conto, si diresse
alla volta della
Devon.
Il
suo appuntamento era alle nove, e secondo il suo orologio digitale
aveva cinque
minuti per presentarsi in orario. Nonostante non fosse un impiegato che
doveva
timbrare il cartellino, avvertì comunque una certa tensione.
Arrivato nella
piazza che precedeva la Devon, che cominciava a riflettere i raggi del
sole
sulle sue vetrate, Lance vide Gary Oak che lo aspettava fuori
dall’edificio,
intento a soffocare uno sbadiglio con una mano mentre con
l’altra teneva il
cellulare, scorrendo il suo Instagram.
Lance
aveva deciso che Gary non gli piaceva. Era più giovane di
lui, e aveva l’aria
di quello che alle medie doveva essere il bullo della classe, solo in
versione
più figa. Aveva i capelli ricoperti di gel e indossava una
polo blu a mezze
maniche. Quando lo vide, la sua espressione mutò in un
sorrisino soddisfatto.
-
Ma guarda, addirittura con qualche minuto d’anticipo
– constatò sul suo
telefono.
Lance
salì le gradinate. – Sono partito presto per non
incontrare traffico – rispose.
Gary
rimise in tasca il cellulare. – Scusa per l’orario,
neanch’io sono abituato. Ma
non dipende da me.
Lance
alzò gli occhi al profilo del grattacielo. –
Cos’è, vuoi dirmi che tu lavori
qui?
Gary
scoprì i denti. – Non esattamente. Non sono un
impiegato, se è quello che
intendi. Ma ho firmato un contratto con la Devon.
-
Per cui sei comunque un loro impiegato – constatò
il rosso.
Il
sorriso di Gary si smorzò, per poi riaccendersi subito dopo.
-
Seguimi.
Lo
condusse dentro attraverso le porte automatiche. Lance
osservò l’atrio con la
fontana senza fare commenti, limitandosi a chiedersi che bisogno ci
fosse di
avere una fontana lì dentro. Gary pigiò
sull’ascensore, e quando furono entrati
prenotò la corsa per il quarantesimo piano.
L’ascensore
salì con una velocità quasi vertiginosa. A Lance
parve che avessero percorso
quella tratta in una manciata di secondi. Quando le porte si aprirono,
Lance si
trovò di fronte a uno spettacolo ben diverso da quello che
si sarebbe aspettato:
era all’entrata di un’enorme palestra, con
macchinari di qualunque tipo, e
scaloni laterali sia a destra che a sinistra che ospitavano numerosi
attrezzi
per il corpo libero e conducevano alla zona cardio, costruita sullo
stesso
piano ma nella parte alta. La zona davanti a lui era divisa in tre ali:
a
sinistra c’erano le macchine da cross fit e pesi di diversa
misura, con tanto
di bilancieri e ketter bell. Al centro
c’erano diverse macchine per il
potenziamento di gambe e braccia, come la leg press
o la vertical
traction. A destra, invece, c’erano le panche per i
crunch, una
macchina easy chin dip e altre attrezzature.
Il
ragazzo era leggermente disorientato. – Non capisco,
perché mi hai portato qui?
Gary
avanzò con le mani in tasca, dirigendosi verso gli scaloni
laterali senza dire
una parola. Lance lo seguì. La palestra era deserta, ma il
Muzak diffondeva
musica da allenamento, e di sopra si sentiva il rumore di una macchina
in
funzione. Quando furono saliti, Lance vide che una delle cyclette era
occupata
da un ragazzo dagli insoliti capelli blu e grondante di sudore.
Indossava un
completo nero traspirante da palestra, e aveva un asciugamano attorno
al collo
mentre pedalava come un ossesso.
Gary
si rivolse a lui. – Ecco qua Lance, come mi hai chiesto.
Lance
non capiva. Quel tipo aveva richiesto la sua presenza?
Il
ragazzo doveva avere più o meno la sua età, e gli
sorrise non appena i loro
sguardi si incrociarono; aveva gli occhi ambrati.
-
Oh, il famoso Lance, che piacere – disse, smettendo di
pedalare e smontando
dalla cyclette. Si tamponò il viso con
l’asciugamano e si tirò all’indietro i
capelli impregnati di sudore.
-
Perdona il mio aspetto un po’ sfatto, non sono abituato a
ricevere ospiti a
queste ore, ma ho detto a Gary di farti venire il prima possibile.
– Gli tese
una mano; portava dei guanti da palestra senza dita.
Lance
ricambiò la stretta senza farsi troppi problemi. –
Con chi ho il piacere di
parlare? – domandò, senza addolcire la propria
espressione.
L’altro
continuava a sorridere, ma quel sorriso non trasmetteva nulla di
allegro,
neanche un po’. – Zachary Devon – si
presentò. Lance venne come fulminato sul
posto. L’altro lo notò subito.
-
Dalla tua reazione, deduco che tu abbia sentito parlare di me.
Il
rosso annuì. – Erede della Devon Spa, laurea in
economia ad Harvard con
distinzione di lode in soli undici mesi e detentore del record di
vittorie in
rappresentanza della Devon: cento cinquantuno vittorie e zero sconfitte.
Lo
ripeté come se lo sapesse a memoria. Zachary sorrise
soddisfatto. – Non si può
dire che tu non abbia fatto i compiti.
Afferrò
la sua borraccia, contenente una qualche bevanda energetica, e
tracannò un
lungo sorso. Quand’ebbe finito, si ripulì col
dorso del braccio.
-
Seguitemi – li esortò, e li condusse nuovamente
verso l’ascensore. Stavolta
salirono al cinquantesimo piano, dove c’era l’ala
relax. Disse loro di
accomodarsi sulle poltroncine, e di attenderlo. Un quarto
d’ora dopo, che passò
in un silenzio alquanto sentito da parte di Lance, Zachary riapparve
docciato,
pulito e profumato, e vestito in maniche di camicia. –
Immagino tu ti stia
chiedendo perché ti ho fatto venire qui, Lance –
gli disse, mentre si
arrotolava i polsini.
Il
rosso lo seguì con lo sguardo. – Mi sembra il
minimo.
Zachary
sprofondò nella sua poltrona ad acqua, emettendo un sospiro
sollevato. Aveva un
buon profumo ora, balsamo o qualche altra roba iper costosa
dall’Egitto,
sicuro.
-
Salterò i convenevoli, dal momento che mi sembri una persona
franca – dichiarò.
– Vorrei proporti un contratto con la Devon.
Lance
strabuzzò gli occhi. – Perché?
-
Perché ho sentito dire che sei un duellante niente male, e
io odio quando il
potenziale rimane inutilizzato.
Si
aggiustò anche il colletto della camicia, e poi
affondò le mani nei braccioli
della poltrona. – Da quanto so sei un medico tirocinante;
professione lodevole,
ma ben misera per sbarcare il lunario.
Lance
aguzzò lo sguardo.
-
Ha indagato su di me?
-
Ovviamente – rispose pronto l’altro. – Mi
piace sapere con chi ho a che fare.
Lance
avvertì una fitta di fastidio per essere stato praticamente
spiato. – Che
bisogno avrebbe uno come Zachary Devon del mio aiuto?
L’altro
sorrise, e la cosa mise alquanto a disagio il rosso.
-
Non ragionare in termini di aiuto, Lance, ma in termini di appalto
– gli
suggerì.
-
Appalto?
-
Dimmi una cosa: chi possiede l’atto di proprietà
del vostro amato Parco dei
Duelli?
Lance
si irrigidì come se fosse stato trafitto dallo sguardo di
Medusa. Dunque si
ritornava sempre e comunque a battere lì, eh? Ci mise un
attimo a fare due più
due, e smise anche di dargli del lei: - Tu… -
sibilò – hai mandato tu il
Pinguino.
Zachary
alzò le mani. – Colpevole.
Poi
tornò composto e il suo sguardo si fece serio. –
Io sono molto interessato a
quella fetta di terreno che chiamate Parco dei Duelli. E se non viene
fuori un
atto di proprietà, temo proprio che qui ci troviamo di
fronte ad un caso di
abusivismo edilizio.
-
Cosa?! – Lance balzò in piedi. – Mi stai
minacciando?
Zachary
si alzò a sua volta, lisciandosi la camicia. – Non
io – precisò. – Ma gli USA.
Questa è la legge, Lance. Tuttavia, comprendo
l’importanza affettiva che ha per
voi quel lotto di terreno.
Il
suo tono si addolcì un po’. – Non vi
trascinerei mai in tribunale, puoi starne
certo.
-
No, ovvio che no – gli rispose aspro – non dopo che
hai mandato più e più volte
un malavitoso a chiederci il pizzo!
-
Cobblepot? – Zachary sembrò quasi cadere dalle
nuvole, poi fece un risolino. –
Oh, lui è solo la punta dell’iceberg. Se
l’avessi voluto, i miei avvocati vi
avrebbero già fatti a pezzi.
Si
afferrò le mani. – Il fatto
è… che io credo che quel contratto esista eccome.
Solo, non in forma cartacea.
Lance
sbiancò. – Bingo! – Zachary
puntò il dito su di lui.
-
È come immaginavo. L’atto di proprietà
consiste in un lascito testamentario a
una persona. E quella persona scommetto che sei tu, Lance.
Il
rosso strinse i denti, una goccia di sudore che gli
attraversò il volto e si
insinuò nella camicia. – Già
– ammise – e con questo?
Zachary
lo guardò con un sorriso che non lasciava trasparire nulla.
Lance trovava
incredibile il fatto che quell’uomo fosse illeggibile. Era
come un libro
scritto in una lingua che non conosceva.
Alla
fine disse: - Come ho detto, sono molto interessato al vostro piccolo
lotto…
-
Perché? – lo interruppe bruscamente
l’altro. Un guizzo delle sopracciglia di
Zachary gli fece capire che non aveva gradito né
l’interruzione né la domanda.
-
Motivi personali – rispose semplicemente. – Quel
che conta è che sto per farti
un’offerta. Mi sembri una persona ragionevole,
perciò vorrei contrattare con
te.
-
Contrattare?
Zachary
andò alla sua scrivania e tirò fuori un libretto
degli assegni. Prese la sua
penna da scrivania e scarabocchiò qualcosa sopra al
foglietto, poi lo strappò e
lo porse a Lance. Il rosso sbiancò nel vedere la cifra
scritta sopra, in
un’elegante calligrafia ondulata.
-
Co-cos’è questo? – mormorò.
-
La cifra che ti offro per la cessione del vostro Parco –
spiegò il ragazzo dai
capelli blu. Attese pazientemente la risposta dell’altro.
Dopo
quelli che sembrarono attimi interminabili, Lance riacquistò
la compostezza. E
fu con calma glaciale che strappò in due l’assegno.
FRRRRRR!
Gary
Oak balzò in piedi. – Ma che stai facendo?!
Lance
lasciò cadere i riccioli di carta. Zachary lo
fissò con un sorrisino, come se
se lo aspettasse.
-
Il Parco dei Duelli non è in vendita – disse con
fermezza. – E ho sbagliato a
venire qui.
Fece
per andarsene, ma Zachary lo richiamò. – Sei
davvero sicuro di volertene andare
così, Lance?
Il
rosso tese la mano verso la maniglia, senza però toccarla.
Si volse e socchiuse
gli occhi. – Che intendi?
Zachary
si appoggiò alla scrivania. – Hai il mio rispetto,
se devo essere sincero. Uno
che straccia un assegno del genere con una certa disinvoltura lo merita
senz’altro.
Lance
fece per aprire bocca, ma lui lo fermò con un gesto della
mano. – Tuttavia,
dubito che tu riesca a immaginare le possibilità che sono in
grado di offrirti.
-
Non mi interessa affatto.
-
Oh davvero? – Zachary non sembrava convinto. La sua aria di
superiorità
cominciava a dare sui nervi a Lance. Strinse i pugni.
-
Stammi bene a sentire – gli disse, avanzando con fare
minaccioso nuovamente
verso di lui – non mi importa assolutamente di chi tu sia.
Che tu sia Zachary
Devon, o qualsiasi altro ragazzino montato…
Si
fermò vicino a lui. – Non cederò il
Parco e non mi farò comprare. Quel posto
rappresenta un’isola felice, e non solo per me, ma per tutti
noi.
E
con un gesto, andò ad abbracciare immaginariamente tutti i
ragazzi, compresa
sua sorella, che passavano i pomeriggi e le serate lì, in
quella piccola radura
lontana dalla civiltà, dal rumore e
dall’inquietudine.
-
E non sarai tu, né nessun altro, a portarcela via
– concluse. Come unico
risultato, il sorriso di Zachary non fece altro che allargarsi.
-
La tua dedizione è ammirevole, Lance –
commentò. Si scostò dalla scrivania e si
rimise eretto; era poco più basso del rosso.
-
Ma forse non hai capito – e il suo tono si fece
più deciso. – Io non ti sto
dando la possibilità di scegliere. Io voglio
quel parco.
Il
fuoco si accese negli occhi dell’altro ragazzo.
-
Dovrai passare sul mio cadavere, per averlo.
Zachary
scoprì i denti. – Spero di non dover ricorrere a
tanto – e a quelle parole
Lance non poté impedire a un brivido di attraversarlo.
-
A dire il vero – disse l’altro – stavo
pensando ad un altro modo, molto meno
violento, per risolvere la nostra questione.
I
due si compresero senza bisogno di parole.
Parlavano
entrambi la stessa lingua, del resto.
Quella
dei duellanti.
Era
pomeriggio inoltrato, quando Alan, Barney e Shaun arrivarono finalmente
a
Lylicove City, una graziosa cittadina sul mare.
Il
viaggio era stato orribile.
Dopo
la brusca frenata per impedire che Shaun la mollasse
nell’auto, Barney era
ripartito sgasando perché l’altro aveva fatto
cadere qualche goccia sulle
scarpe, e la macchina era nuova. Recuperato uno Shaun in procinto
d’infarto per
la corsa, avevano lasciato la superstrada per immergersi nel verde
delle
campagne.
Speravano
di godersi una tratta più tranquilla, immersi nel verde,
anche perché subito
dopo Shaun aveva vomitato una colazione alquanto pesante.
Be’,
del resto l’aveva detto che stava male nelle curve.
Sfortunatamente,
il vomito non era stata la cosa peggiore della tratta,
perché su una sterrata
strada di campagna, dove il navigatore li aveva fatti finire, Barney
aveva
investito un’intera famiglia di ricci selvatici. E nel fare
retro per
controllare se se ne fosse salvato qualcuno, aveva investito anche
l’ultimo.
Così,
l’ultima tratta se l’erano fatta in cupo silenzio,
e quando erano finalmente
arrivati a Lilycove volevano solo farsi una doccia e scendere. Alan
cominciava
addirittura a soffrire un po’ di cinetosi.
-
Dov’è che dobbiamo andare di preciso? –
chiese Barney, che stava trafficando col
navigatore.
Alan
diede un colpetto al sedile. – Hai tu l’indirizzo,
Shaun.
-
Ah giusto. – Il moro si infilò le mani in uno dei
calzini e ne tirò fuori un
foglietto spiegazzato. Alan non aveva nemmeno più la forza
per essere allibito.
Barney, invece, gli chiese: - Lo tieni in un calzino?
-
Nelle mutande pizzicava – si giustificò lui.
Lesse
sul foglio. – Skylab, Via Washington, 24.
Alan
ridacchiò. – Skylab, Via Washington? –
Il nome lo faceva ridere per qualche
motivo. Forse gli ricordava quello di un vecchio sketch
dov’era assolutamente
fuori luogo.
-
E il proprietario chi sarebbe? Mr. Jones?
Mr.
Jones era un nero dalla pettinatura afro e gli occhiali da sole.
Li
accolse con il calore e l’entusiasmo di chi deve
assolutamente vendere la
propria merce al mercato di Abu Dabi.
-
Benvenuti duellanti! – esclamò. – E
grazie per aver scelto il mio Skylab per
soggiornare!
Strinse
loro le mani con forza.
-
Ma porca… - mormorò Alan.
L’albergo
aveva diversi piani, e sembrava fin troppo di lusso perché
potessero permetterselo,
ma a quanto pare era così. Si trovava su una collinetta,
rialzato rispetto alla
cittadina sotto di loro, e da lì si poteva ammirare il mare.
Tutto intorno
c’erano boschetti e percorsi che portavano sulle montagne.
Era una zona
veramente caratteristica.
Le
porte a scorrimento dell’albergo si aprirono e ne uscirono,
trafelate, Winona e
Serena.
-
Alla buon’ora – commentò la ragazza dai
capelli lilla.
-
Cominciavamo a pensare che vi foste persi – disse Serena.
Indossavano entrambe
le magliette del campo estivo. Da dentro veniva un vociare
confusionario di
voci di bambini.
Alan
cominciò a scaricare le valigie dal bagagliaio della
macchina di Barney. –
Abbiamo avuto un viaggio… interessante – e non
volle aggiungere altro.
-
Siamo gli ultimi? – domandò il biondo.
-
Direi – gli rispose Winona a braccia conserte – noi
siamo arrivati ore fa.
I
due ragazzi guardarono Shaun, che era davanti al telefono.
Rialzò lo sguardo e
domandò: - Cosa?
-
Stai condividendo meme sul gruppo? – insinuò Alan.
-
No – e mise via il cellulare. Subito dopo, quelli di Alan e
Barney squillarono.
Lo guardarono con un forte istinto omicida. Il moro cominciò
a fischiettare.
-
Voglio morire – dichiarò Barney, una volta entrati
nell’albergo. Mr. Jones nel
frattempo si era volatilizzato.
-
Non mi sento più le gambe – gli venne dietro Alan.
Stavano arrancando con le
valigie verso l’ascensore; così tante ore di
macchina li avevano provati.
Barney aveva lasciato l’auto nel parcheggio
dell’hotel, e ora volevano solo
mettersi a letto, nonostante il sole non fosse ancora tramontato.
Shaun,
intanto, era sparito chissà dove.
-
Alan. – Quella voce lo richiamò da in fondo alle
scale. Serena lo fissava, e
non sembrava molto contenta.
-
Serena – fece lui, abbastanza sorpreso – qualcosa
non va?
-
Dopo cena – e non aggiunse altro, voltandosi e lasciando il
corridoio con i
capelli che le svolazzavano dietro. Alan e Barney si guardavano
interrogativi.
-
Ho fatto qualcosa di male, dici? – chiese il moro.
-
A me sembrava quasi un invito a… - e le sopracciglia del
biondo furono più che
eloquenti.
-
Oh… OH!
Le
porte dell’ascensore si chiusero. Dopo un altro attimo di
attenta riflessione,
Alan disse: - Penso sia per colpa di Lance, invece.
-
Che c’entra ora il nostro incazzoso amico?
Alan
non rispose. Fissava la propria immagine nel vetro. Era fiacco, sudato
e
stanco; avrebbe voluto buttarsi a letto, ma decise che si sarebbe fatto
una
doccia e poi sarebbe sceso a cenare. Doveva risolvere la questione con
Serena
il prima possibile; quella ragazza era adorabile, e odiava farla star
male. Ed
era molto sicuro che c’entrasse il fatto che Lance non si
vedeva lì in giro da
nessuna parte.
Quando
l’ascensore si aprì e si ritrovarono al terzo
piano, Alan disse: - Allora ci
vediamo a cena, Barney.
Il
biondo parve disorientato. – Cosa? Ma… non stiamo
in camera insieme?
Alan
mostrò la propria chiave, alla quale era appesa una pesante
palla di rame con
il numero 308. – No. Tu hai la 306, a quanto pare.
E
si avviò verso la sua stanza, salutandolo con la mano.
-
Aspetta… ma se Alan è nella 308… chi
c’è con me??
Corse
subito alla sua stanza. Non appena aprì, sentì
tirare lo sciacquone e vide la
porta del bagno spalancarsi.
-
Bene, bene. – Shaun, in mutande e con un asciugamano davanti
alla faccia,
sembrava alquanto compiaciuto. – Indovina chi si
farà una run su Pokemon Spada
“only Croagunk” questa sera con me?
-
NOOOOOOOOOOOOOO!!!!!!
Alan
aveva preso una singola.
Non
era stato un problema, gli animatori erano dispari, e lui era
abbastanza maturo
da non destare troppe preoccupazioni se avesse dormito da solo. Voleva
bene a
Barney, ma aveva bisogno di stare da solo. Perché la sera
era sempre il momento
più difficile, quel momento in cui le ombre si allungano e
il sole non riesce
più a tenerle a bada.
Quel
momento in cui i demoni vengono fuori.
La
sua stanza era molto minimale, un letto all’angolo, una
scrivania piccola e in
legno consumato, sotto ad uno specchio a parete. C’era il
bagno con doccia e
sanitari, nulla di più che un minuscolo spazio ricavato in
una già piccola
camera, con una luce che sapeva di ospedale.
Ora
capiva perché avevano potuto permettersi quel posto
là; sembrava super stiloso
visto da fuori, ma ero uno specchietto per le allodole. Era come uno di
quei
cartonati con dietro niente che si vedevano sui set dei vecchi film
western.
Nell’armadio
aperto c’era una piccola cassaforte, dove Alan ripose il
portafoglio e chiuse a
chiave, non perché temesse di essere veramente derubato. Era
più un gesto…
simbolico, diciamo.
Mi
dispiace, amico mio,
pensò.
Nel
suo portafoglio c’era quella carta, l’immancabile
Drago da Richiamo; l’unica
carta che aveva conservato, perché era la sua. La portava
sempre con sé, in una
bustina plastificata per non farla rovinare. L’aveva protetta
dal tempo, e dal
destino riservato al resto del suo deck. Quel pensiero gli faceva
salire
emozioni contrastanti dalla bocca dello stomaco. Provava rabbia e
disgusto nei
confronti di sé stesso, ma anche amara accettazione e un
distorto senso di
pace.
Aveva
vinto, l’aveva spuntata. Aveva rinunciato per la seconda
volta al Duel
Monsters, e stavolta definitivamente. Aveva vinto in maniera legittima
e
firmato quel contratto, anche se non c’era nessun foglio di
carta ad
attestarlo. C’erano però dei testimoni, diversi
testimoni. Aveva battuto Mera,
e dio se non era stato il duello più difficile della sua
vita; e tutt’ora
sentiva di aver vinto per pura fortuna, non per abilità.
Mera
aveva seriamente rischiato di batterlo.
E
lui aveva seriamente rischiato di dover confessare.
Ma
ci sono segreti che non possono essere confessati, cose che bisogna
portarsi
dentro, di cui bisogna accettare il peso.
L’eredità di Lucius era una di quelle
cose. E anche se sapeva che quella minuscola cassaforte non avrebbe
bloccato i
suoi pensieri, che quelle quattro mura in cui avrebbe dormito da solo
per
qualche giorno non sarebbero bastate a impedire ai fantasmi di uscire,
preferiva affrontare tutto questo da solo.
C’era
una porta finestra che dava sul balcone, così vi si
affacciò. Il panorama, che
dava sulla città sottostante, era bellissimo. Il lungomare
cominciava a
risplendere delle luci dei lampioni. La gente passeggiava e andava a
fare
aperitivo. Dall’altra parte, le montagne guardavano nella sua
direzione, i
profili neri dove il sole era già scomparso, e le chiome
degli alberi si
confondevano diventando macchie scure contro il cielo notturno.
Il
mondo, in quel momento là, sembrava perfetto.
Una
leggera brezza gli scompigliò i capelli. Per la seconda
volta quel giorno
ricordò a sé stesso che doveva tagliarli.
Gli
affiorò l’ombra di un sorriso. Quante cose doveva
ancora fare.
La
sala mensa era straripante di marmocchi.
Alan
ne aveva contati almeno un centinaio, e altri ancora dovevano arrivare.
-
Non so se riuscirò a resistere –
confessò, più a sé stesso che a
Winona, che in
quel momento si era avvicinata. La ragazza dai capelli lilla gli
rispose con
una risatina.
-
È il tuo primo campo?
-
In tutti i sensi – gli rispose l’altro. –
Non ho mai partecipato a cose del
genere.
-
Troppo impegnato a vincere campionati già da piccolo?
Nonostante
l’avesse detto in modo ironico, Alan si irrigidì.
Winona se ne accorse subito.
Stava per dirgli qualcosa, ma in quel momento arrivarono gli altri
educatori,
capeggiati da Serena. Lei e Alan si scambiarono una strana occhiata; il
moro si
sentiva sempre più a disagio.
Con
lei c’erano delle facce nuove.
-
Ragazzi, voglio presentarvi dei miei amici che si sono offerti per fare
da
educatori per il campo estivo – spiegò la sorella
di Lance, introducendoli con
un gesto della mano. C’era un ragazzo dai capelli neri legati
in una coda e gli
occhi marroni, che tese la mano con un mezzo sorriso: - Sono Shun
Kazami – si
presentò, tendendo la mano ad Alan.
-
Io sono Marucho Marukura – disse un ragazzino biondo dai
capelli a caschetto,
gli occhi azzurri e due spessi occhiali dalla montatura rossa. Sembrava
strano
che avesse la loro età o giù di lì.
Mio
dio, ha un nome impronunciabile…,
pensò Shaun mentre
ricambiava la stretta.
-
Io sono Gardenia! – fece allegra una ragazza dai capelli
arancioni con delle
mesh nere e la frangia, alta e magra.
Carissima,
pensò Barney, che doveva coordinare mente ed espressione
facciale per mantenere
la propria farsa.
-
Non siete frequentatori del Parco, mi sembra –
notò Alan. Fu Gardenia a rispondergli:
- Oh, ogni tanto ci veniamo, ma abitiamo piuttosto distanti da dove si
trova. E
poi…
Shun
la scavalcò. – Ci siamo offerti quando abbiamo
saputo che si stava organizzando
un campo estivo!
Strinse
i pugni. Marucho sembrava eccitato quando lui: - Avere la
possibilità di
passare quattro giorni a batterci a Duel Monster è troppo
eccitante!
Saltellava
qua e là come una rana.
-
C’è una cosa che mi domando – se ne
uscì all’improvviso Barney. – Chi
è che ha
portato qua i marmocchi?
Improvvisamente
alle loro spalle echeggiò una risata. – Bwahahah!!
Quando
si voltarono, tutti sgranarono gli occhi. Davanti a loro
c’erano Dan, Rob e…
Mera!
-
Pensavate davvero di liberarvi di noi? – fece la rossa.
Alan
iniziò improvvisamente a sudare. I miei peggiori
incubi tutti assieme,
pensò. Si sentiva circondato: da una parte c’era
Serena, che probabilmente lo
odiava per le tensioni con Lance; e ora, dall’altra, era
spuntata Mera, con la
quale non aveva più parlato dopo il loro duello.
Poi
c’erano Rob, il barista tatuato del Parco, e Dan, il vecchio
che aveva l’aria
da galeotto e che si sedeva sempre a bere.
-
Ci siamo offerti volontari per portare noi i marmocchi –
spiegò Dan, la voce
arrocchita dal fumo.
-
Del resto uno solo di noi non sarebbe bastato –
spiegò Rob.
-
Ma… e che ne è del Parco? – chiese
Winona, che a quanto pare era sorpresa
quanto gli altri. Mera le rispose: - Non preoccuparti. I ragazzi sono
rispettosi, non manderanno tutto a monte. E poi, ho lasciato Sapphire a
fare la
guardia.
Meno
male…,
pensarono all’unisono Alan e Barney. Almeno una se
l’erano evitata; avevano entrambi i flashback del Vietnam
quando si faceva il
nome di Sapphire.
-
Be’ allora, vogliamo sederci? – propose Rob.
– Non so voi, ma io sto morendo di
fame.
Si
trovarono tutti d’accordo.
La
parte più difficile fu convincere i bambini a sedersi.
È veramente complicato
avere a che fare con una torma di un centinaio di mocciosi da tenere
d’occhio,
specialmente mocciosi che andavano dalla prima alla terza media. Una
delle età
peggiori, almeno secondo Alan.
-
Alan, tu com’eri alla loro età? – gli
domandò Barney, quando finalmente si
furono seduti a tavola. C’era un tavolo riservato apposta per
gli educatori,
mentre i bambini erano stati distribuiti in altre tavolate, dalle quali
proveniva un baccano infernale. Alan era in mezzo a Barney e Winona,
mentre
davanti a loro c’erano i tre nuovi
“acquisti” appena conosciuti. Mera si era
seduta lontana dai due ragazzi, e aveva vicino Serena e Shaun. A
capotavola
c’erano Rob e Dan, che avevano già riempito di
vino le proprie brocche e
stavano brindando con le gote in fiamme.
-
Mm – ci pensò il moro – ero un ragazzino
abbastanza impertinente.
A
quella confessione, Barney sgranò gli occhi. –
Davvero?? Sai, non ti ci vedo
proprio.
Alan
fece un sorrisetto, prima di tracannare un lungo sorso
d’acqua, e poi afferrare
un pezzo di pane. – Sì, be’…
diciamo che non vado proprio fiero del mio
passato.
Winona
gli lanciò un’occhiata, ma decise di non fare
commenti.
Barney
incrociò le braccia. – Mm…
be’, io ero un bambino bellissimo –
affermò, e a
quel punto Gardenia davanti a loro sputò l’acqua
che stava bevendo per il
ridere.
-
Cosa c’è? – domandò il biondo.
-
Mi è piaciuto il tono in cui l’hai detto
– ammise lei, candidamente. Barney
arrossì leggermente: - Oh… grazie.
Alan
gli diede un colpo di gomito e gli fece un sorriso furbo. –
Potresti evitare di
fare il marpione anche a tavola? – gli sussurrò.
Barney
si mise un fazzoletto davanti la bocca. – Io non ho fatto
niente – si schermì.
Tutti
presero a ridere tra loro. Quasi tutti, almeno.
-
Che hai, Serena? – domandò Mera, morsicando un
pezzo di pane.
-
Mm… nulla di che – la liquidò
l’altra, anche se guardava il piatto vuoto come
se in esso fosse contenuta la verità della vita. La rossa
socchiuse i suoi
occhi di bronzo: Dev’essere per via di Lance.
E
dopo aver fatto quel pensiero, rivolse subito la propria attenzione ad
Alan,
che stava ridendo con Barney e Gardenia.
Qualunque
sia il segreto che Alan si porta dentro… deve riguardare
anche Lance, ormai.
L’aveva
capito anche lei che c’era qualcosa che non andava,
l’avevano capito tutti, a
dire la verità. Ormai, il peso del segreto di Alan sembrava
aleggiare su tutti
loro. E più guardava le piastrine che il ragazzo portava al
collo, più Mera non
poteva fare a meno di chiedersi cos’avesse a che fare tutto
quello con lui.
Poi
le porte della cucina, che davano sulla sala da pranzo, si
spalancarono, e ne
uscì la cuoca Aloé: un’enorme donnone
di colore con una fascia per capelli e il
sorriso da mamma affettuosa, seguita da uno stormo di cuochi e cuoche.
Trasportava un’enorme pentolone fumante pieno di riso, che fu
adagiato su un
carrello. Il personale passò poi a servirlo in mezzo ai
tavoli, causando urli
di gioia nei marmocchi.
-
Ahhh, il risotto con le erbette! – commentò Barney
non appena anche loro furono
serviti. – È il mio piatto preferito.
-
Ma non è una citazione ad Alex l’Ariete?
– domandò Shaun.
-
Ohh, andiamo – lo riprese bonario Alan – se
spoileri gli rovini la caccia,
stasera.
Aveva
un sorrisetto furbo sul viso. – Quale caccia?? – si
impose Shaun. – Stasera
Pokemon Spada Only Croakung, SONO STATO CHIARO?!
-
Amo la gioventù – commentò Rob. Dan,
vicino a lui, scosse la testa
ridacchiando, il bicchiere costantemente pieno di vino.
-
Se ci penso che abbiamo avuto anche noi la loro età
– fece il vecchio. Poi il
suo occhio furbo colse qualcosa, un confabulare in uno dei tavoli
vicino al
loro.
E
non aveva torto, il vecchio Dan, perché ad uno dei tavoli
c’era un gruppo di
marmocchi che stava pianificando qualcosa.
-
Sei veramente sicuro di volerlo fare? – domandò
Liam, un ragazzino mingherlino
e di media altezza, dai capelli nero chiaro. Vicino a lui, verso dove
si era
sporto, sedeva un ragazzino suo coetaneo, dagli occhi vispi e i capelli
castani
con la riga di lato. – Voglio dare una lezione a quello
sbruffone – mormorò,
ingoiando poi una grossa forchettata di riso, salvo quasi strozzarsi e
farsi
venire le lacrime agli occhi perché era bollente.
-
Ma se non riesci neanche a mangiare senza scottarti – lo
riprese Mickey, che
sedeva dall’altro lato della tavolata. Andava in prima media,
era più basso
degli altri due, che erano ragazzini di seconda, e aveva i capelli che
sembravano un ciuffolo castano di prezzemolo sulla testa.
Accanto
a lui sedeva un ragazzo magrolino, e talmente pallido che sembrava
dover
svenire da un momento all’altro. Aveva i capelli verdi e gli
occhi chiari, e un
inalatore poggiato sul tavolo accanto al piatto. – Non devi
farlo per me, Nick!
– lo stava pregando il ragazzino.
-
Stai scherzando vero? – aveva replicato il bambino chiamato
Nick, che aveva
ancora le lacrime agli occhi e la faccia in fiamme. – Tuo
cugino è un
grandissimo stro…
-
No Nick, ti sentiranno!! – aveva urlato spaventato Mickey.
-
Puzzone, allora – aveva replicato stizzito, incrociando le
braccia.
Tutti
si misero a guardare nella stessa direzione. In fondo al tavolo
c’era un
ragazzino che se ne stava per i fatti suoi: anche lui aveva i capelli
verdi, e
sembrava più grande di loro, infatti andava in terza media.
Aveva lo sguardo
perso fuori dalla finestra, e non sembrava molto interessato al proprio
piatto.
-
Quel gradasso – fece rabbioso Nick – si
dà tante arie, ma io dico che posso
batterlo.
-
No, Nick! – aveva ripreso allarmato a dirgli il ragazzino dai
capelli verdi. –
Mio cugino Vito è troppo forte per te. Non voglio che ti
umili per causa mia.
Sembrava
davvero preoccupato. Nick gli rispose con un risolino sprezzante: -
Tranquillo,
Lino. Se c’è qualcuno qui che finirà
umiliato sarà lui.
E
così dicendo guardo di nuovo in direzione del verde, che non
si accorse di lui
neanche stavolta.
La
sera si era alzata una brezza leggera, ma anche leggermente fredda.
Serena
si strinse nella propria giacca di jeans, mentre si dirigeva verso la
terrazza.
I bambini erano stati mandati nelle loro camere, in quanto stanchi per
il
viaggio, e anche lei cominciava a sentire la stanchezza affossarla.
Quasi
quasi me ne vado a letto…,
le venne da pensare. Sono troppo
stanca adesso per poter avere un confronto con…
-
Serena?
La
voce alle sue spalle la fece sussultare. Si volse e vide Alan che le
veniva
incontro. Si scurì in volto; qualunque cosa avesse pensato
di dirgli, le morì
sulle labbra. Il ragazzo l’aveva colta alla sprovvista;
pensava che sarebbe
toccato a lei braccarlo, che avrebbe provato lui a evitare
l’incontro. E invece
era lì, e l’aveva addirittura chiamata per nome.
Aveva le mani in tasca, e non
sembrava patire per nulla il freddo. Il vento creava delle onde sulla
maglietta
che indossava.
-
Non sei scappato – osservò la ragazza,
stringendosi nelle spalle, e un po’
pentendosi per quella sua asprezza. Alan fece una smorfia.
-
Pare che l’acidità stia diventando una
caratteristica di famiglia – le rispose
a tono. Lei si indispettì, e tagliò corto: - Che
cos’ha Lance? Dimmelo.
Alan
distolse lo sguardo. Al di sotto di loro, il boschetto si muoveva a
ritmo del
vento, e le scure chiome accarezzavano il profilo della terrazza, come
sollevandosi a sbirciare ed ascoltare la loro conversazione.
-
Se potessi lo farei – le rispose alla fine. – Ma
è qualcosa di cui preferisco
non parlare.
-
Però ha cambiato Lance! – osservò lei.
– Se ha avuto questo effetto su di lui,
io devo sapere cos’è.
-
No – replicò pacatamente il ragazzo. –
Lance non…
Abbassò
lo sguardo. Lance non sta soffrendo per il mio segreto, in
realtà… Lance non
riesce ad accettare il fatto che non potrò riscattare la
memoria di suo nonno.
Tornò
a guardare la ragazza. E se lo sapesse anche lei, come
reagirebbe? Non ha la
stessa indole di Lance, ma non posso far soffrire così anche
lei…
Strinse
i pugni, e una fitta di dolore lo attraversò alla punta
dello stomaco. Quante
diavolo di vite ho rovinato??
Fece
per dire qualcos’altro, quando qualcosa catturò la
sua attenzione. – Serena,
guarda!
-
Non cambiare discorso – protestò lei, le braccia
incrociate.
-
No, no, guarda. Sul serio!
Stava
indicando oltre l’inferriata, verso il boschetto. Serena
decise di sporsi e
guardare in quella direzione, e sussultò. C’erano
delle luci nel bosco, che
procedevano in fila, quasi trotterellando. Erano luci di cellulare, in
mano ad
alcuni dei bambini del campo. Erano in sei, e si dirigevano nel folto
del
bosco.
-
Ma dove diavolo vanno? – protestò Serena, e fece
per urlare. Alan la bloccò
tempestivamente. – Non urlare! Altrimenti ce li perdiamo.
La
ragazza lo guardò, scettica. – Che vuoi dire?
Alan
sorrise, e l’altra non poté fare a meno di
detestare un po’ quel sorriso in
quel momento.
-
Non sei mai stata bambina? – le domandò.
– Se urli a un bambino di fare
qualcosa, lui farà esattamente l’opposto. Se
adesso fai sapere loro che li
abbiamo sgamati, e gli urli di tornare qui, non lo faranno mai. Anzi,
scapperanno e dovremo mobilitare tutti.
-
Allora cosa proponi? Di urlare loro di non tornare qui e sperare che ci
caschino?
-
No, chi mai sarebbe così idiota da fare una cosa simile?
– protestò Alan,
offeso, e Serena arrossì un pochino.
Poi
lui la tirò per una manica della giacca. – E ora
che vuoi fare?? – protestò
lei, mentre il ragazzo la trascinava nella sua direzione.
-
Tu che dici? – le chiese, voltandosi e mostrandole uno strano
sorriso. – Li
seguiamo.
ANGOLO
DELL’AUTORE
Hola,
popolo di EFP!
Non
mi sono ancora ritirato, eh no!
Basta lasciare cose in sospeso, non importa quanto tempo ci
vorrà. Se anche
dovessi finire con un lettore, questa serie si finisce. Ebbene gente,
come
state? Io sono qui per voi, e mi siete mancati. Nuovo capitolo, nuovo
arco
narrativo. E anche ultimo, per questa prima stagione. Ci avviciniamo
sempre di
più al finale, ma abbiamo messo parecchia carne al fuoco.
Abbiamo
il campo estivo, dove i nostri
amici vorrebbero rilassarsi e godersi una breve vacanza; ma puoi
davvero
rilassarti con un esercito di marmocchi al seguito? La risposta
l’avete già da
voi.
Poi
abbiamo la side story di Lance, che
sta combinando un bel casino, a quanto pare, mischiandosi con gente non
proprio
raccomandabile. Zachary Devon è tornato in scena, e ha
iniziato a tirare i fili
che ci porteranno al finale di stagione e alla prossima. Lance
accetterà
davvero di cedere il Parco? E come andrà il loro duello?
Ci
sono un sacco di domande che devono
ancora trovare risposta, e non è detto che non dovremo
aspettare. Intanto spero
vi siate goduti questo capitolo, visto tutto il tempo che avete atteso.
Ho voluto
giocare un po’ con lo sketch della “Subaru
Baracca” di Aldo, Giovanni e
Giacomo, ma immagino che fosse impossibile non notarlo. Non mi resta
che parlare
un po’ dei personaggi che ho introdotto, e poi lasciarvi
– non voglio
dilungarmi troppo – in attesa del prossimo capitolo.
Non
faccio promesse, ho tesi, esami e
roba da gestire, ma ce la metto tutta. Sto cercando di regolarizzarmi
con la
scrittura.
Perciò
via, vediamo un po’ chi abbiamo
qui. Le new entry Shun e Marucho sono personaggi di
“Bakugan”, anime che io ho
amato alla follia, almeno per le prime stagioni.
Gardenia
e Aloé vengono direttamente
dall’universo Pokemon, dal quale provengono la maggior parte
dei personaggi di
questa fan fiction. Gardenia è la capopalestra di Evopoli in
Diamante, Perla e
Platino, mentre Aloé è la capopalestra di
Zefiropoli in Bianco e Nero, giochi
che sto recuperando solo ora e che sto amando alla follia. Anche Lino e
Vito
provengono dall’universo Pokemon: Lino è uno dei
rivali nei giochi di terza
generazione Rubino, Zaffiro e Smeraldo. Vito è un
fantallenatore, ed è il
quinto membro della famiglia Vinci, dagli stessi giochi. I due non sono
realmente
imparentati, è un legame che ho creato io appositamente per
la fic.
Nick,
Mickey e Liam sono invece
duellanti che si possono affrontare in Duel Links, esattamente come
Zachary.
Mr.
Jones, che ha fatto un cameo per la
gag, è un personaggio di “Rage of the
Dragons”, dall’universo SNK.
Bene,
detto questo, ci vediamo al
prossimo capitolo!!
Nel
prossimo capitolo: “Il prodigio”
Nick
sfida Vito per difendere il suo
amico Lino. Ma il ragazzo è un vero e proprio prodigio del
Duel Monster; ciò che
gli manca è l’umiltà. Alan, rivedendo
il sé stesso del passato, decide di farsi
avanti.
Ciao
ciao da UlquiorraSegundaEtapa!!