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Autore: _Eclipse    11/05/2020    1 recensioni
Dal capitolo 8:
-Ci sono venti di tempesta che si avvicinano, ormai salpo molto più di frequente, le esercitazioni sono più durature e in maggior numero. Questo addestramento vuol dire solo una cosa, il conflitto si estenderà, dove non lo so, ma ci sarà qualcuno di potente- Hiroto sospirò.
-Se vi è tempesta, all’orizzonte, non importa quanto forte soffierà il vento, quanta pioggia cadrà a terra, quanta sofferenza e distruzione causerà. Alla fine tornerà a splendere il sole e sarà allora il momento di ricostruire ciò che è caduto e preservare ciò che è rimasto. Imparare dai nostri errori e prevenire un nuovo disastro- rispose Shirou.
****
-Possiamo agire come una piovra e allungare i nostri tentacoli sul continente e sulle isole del Pacifico. Per i primi sei o dodici mesi di guerra potremo conseguire una vittoria dopo l'altra, ma se il conflitto dovesse prolungarsi, non ho fiducia nel successo- parole dure, pronunciate davanti al governo, ai generali, ammiragli e all'imperatore in persona, come se fosse un ultimo tentativo per rigettare un conflitto.
-Allora sarà vostro compito assicurarvi la vittoria assoluta il prima possibile- replicò il primo ministro.
Genere: Guerra, Sentimentale, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Hayden Frost/Atsuya Fubuki, Jordan/Ryuuji, Shawn/Shirou, Xavier/Hiroto
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Capitolo 10: Giorno dell'infamia

 

La battleship row, Ford Island, Wheelers Field e la stessa isola di Oahu, erano flagellate dall'alto.

Le forze armate americane provarono a creare una difesa aerea, ma completamente inefficace.

Le mitragliatrici pesanti potevano fare danni, ma solo agli aerei vicini, i bombardieri erano troppo alti e i velivoli stessi erano troppo numerosi.

La USS Arizona, non era che una carcassa fumante, lo scafo d'acciaio era saltato in aria, l'esplosione fu così potente da distruggere il ponte.

La nafta fluiva nel mare rendendolo una trappola mortale per chiunque tentasse di salvarsi. Il torrione tripode di prua stava inclinato verso il basso mentre le fiamme divoravano gli ultimi rottami ancora a galla.

Tutte le navi del viale erano state colpite, USS Tennesee, da due bombe. West Virgina, due bombe e sette siluri. Pennsylvania, due siluri. Oklahoma, cinque siluri…

Dal suo comando a terra, l'ammiraglio statunitense Husband Kimmel, il comandante della Flotta del Pacifico, dovette assistere impotente al disastro. 

Mentre guardava a bocca aperta e con gli occhi pieni di rabbia e sdegno l'affondamento della flotta, un proiettile di grosso calibro infranse il vetro del suo ufficio.

Il colpo era alla fine della traiettoria, era lento e debole, ma riuscì comunque a strappare la giacca bianca e ferire l'ammiraglio al petto.

Caduto a terra venne raggiunto dal suo staff di ufficiali.

Era ancora vivo e cosciente seppur ferito.

Indicò la ferità e con un filo di voce mormorò, al vicino ufficiale delle comunicazioni:

-Sarebbe stato clemente, se mi avesse ucciso…-

 

****

 

USS Oklahoma, battleship row

Ore 8:00

 

Non erano passati che pochi minuti dall'inizio dell'attacco, la nave era stata silurata più volte.

Erik si muoveva a fatica a causa della caviglia. La nave continuava a fare un forte rumore, un basso scricchiolio, le pareti tremavano e si muovevano, la corazzata si stava capovolgendo.

I siluri avevano fatto breccia e ora lo scafo imbarcava acqua. Più ne entrava e più la nave si inclinava, in modo costante e rapido.

Il ragazzo provò ad aggrapparsi alla cosa più vicina a lui, dei tubi di cui non conosceva la funzione ma che salivano lungo la parete e la percorrevano per tutta la lunghezza. Quell'appiglio gli impediva di perdere l'equilibrio e cadere rovinosamente un'altra volta.

Improvvisamente un tuono, un botto in grado di spaccare i timpani, accompagnato da uno scossone così forte che Erik si trovò a terra nonostante la salda presa sul tubo. L'energia elettrica scomparve e le luci si spensero. Picchiò la testa, per qualche secondo ebbe la vista offuscata, ma si accorse che la nave non si stava muovendo. Si inclinò a tal punto che le sovrastrutture si schiantarono sul fondale impedendo tuttavia il totale capovolgimento della nave. Parte della chiglia emergeva dalle basse acque della baia, come una metallica cresta di scogli.

In lontananza si sentiva l'eco di voci e passi. Erik gridò con tutta la voce in corpo.

-Aiuto! Qualcuno mi aiuti!-

Più volte ripeté la richiesta fino a che non venne raggiunto da un gruppetto di uomini, più anziani di lui, più alti e grossi armati di torce elettriche. Non indossavano la candida divisa da marinaio come Erik, ma una logora canotta ingrigita, probabilmente erano macchinisti della nave.

-Sei ferito?- chiese uno di loro.

-Ho una brutta distorsione, non riesco a muovere il piede- rispose il più giovane indicando la gamba.

-Ragazzi, aiutiamolo-

Il marinaio mise le braccia sopra le spalle di due macchinisti che lo aiutarono a muoversi.

-Presto, dobbiamo andarcene da qui-

-Che è successo alla nave?-

-E' rollata, dobbiamo raggiungere i compartimenti stagni prima che lo faccia l'acqua-

Erik non rispose, in quelle condizioni era soprattutto un peso, ma cercava di darsi da fare per non rallentare il gruppo.

-Avanti da questa parte- disse uno di loro che faceva da guida.

I corridoi iniziavano ad essere sempre più caldi, pochi metri, capirono il perché. Un incendio in uno dei locali sottocoperta, le fiamme e il fumo sbarravano la via.

-Indietro! Indietro!-

Si voltarono rapidamente.

Era una sfida contro il tempo, lentamente il corridoio iniziò a bagnarsi, con qualche centimetro di acqua, Erik l'aveva capito anche se al buio a causa del rumore dei suoi passi.

Il livello si stava alzando sempre di più.

-Avanti più veloci! Verso la la sala macchine!-

Sarebbero andati nel loro regno, il punto più profondo della nave ma allo stesso tempo vicino alla chiglia che emergeva.

Percorsero le ultime decine di metri più faticosamente, l'acqua aveva raggiunto il livello della caviglia e si apprestava ad alzarsi ancora. Quando raggiunsero l'ampia cabina di controllo, appena prima della sala macchine, l'acqua era quasi al ginocchio. Non proseguirono, i motori della nave erano immensi e il locale particolarmente alto. Sarebbe stato faticoso proseguire oltre con la nave rovesciata.

-Chiudete! Chiudete!-

Uno del gruppo chiuse la pesante porta d’acciaio. Tirò una leva per assicurarne la tenuta e la sala si sigillò con un fastidioso clangore metallico. 

L'acqua era alta quasi a metà gamba.

La stanza era buia, con la torce si riusciva a malapena a far luce sui numerosi apparecchi e indicatori dello stato dei motori posti nel locale successivo.

Erik si adagiò su quello che sembrava essere un tavolo, in modo da stare all'asciutto.

Dall'esterno giungevano gli echi delle esplosioni e delle mitragliatrici.

Quella nave era la sua trappola, ma allo stesso tempo la sua unica difesa.

 

****

 

Oahu, clinica del Dr. Williams,

ore 8:10

 

L'auto arrivò a tutta velocità davanti alla bianca facciata dell ospedale.

Decine se non centinaia di persone si erano raccolte davanti alle porte aperte.

Molti militari, marinai e membri dell'equipaggio di tutte le navi, feriti con le uniformi bianche lorde del loro sangue e di quello dei compagni. Gridavano e chiedevano aiuto. Con loro alcune donne, civili in cerca di un rifugio e conforto.

Non fu facile parcheggiare, anzi l'auto venne lasciato nel mezzo della strada e della folla. Nel cielo gli aerei sfrecciavano per continuare l'attacco, alcuni di essi sorvolavano l'isola a bassa quota e mitragliavano chiunque passasse.

Atsuya scese rapidamente dal veicolo seguito a ruota da Mark.

Si fece strada a forza tra la massa.

Molti lo guardarono con sospetto e disgusto.

-Fatemi passare! Sono un medico!- gridava.

-Largo! Fate passare!- gli faceva eco Mark.

Giunti all'interno dell'ospedale, vennero accolti da uno spettacolo orribile. I letti delle corsie non erano sufficienti, i feriti stavano accasciati su dei lenzuoli stesi sul pavimento dalle infermiere che correvano da una parte all'altra dei corridoi.

Atsuya vide Emily che disperata, portava su un carrello tutto il necessario: bende, siringhe, flaconi di vetro scuro e lenzuola.

-Emily!-

-Che ci fate qui!?- domandò con sorpresa.

-Che ci faccio!? Mi sembra ovvio! Dimmi dove posso trovare un camicie!-

-Nel vostro studio… -

Atsuya ancora non aveva ben compreso cosa stesse succedendo, l'attacco era ovvio ma ignorava il nemico e le motivazioni.

Corse in tutta fretta al suo studio, spalancò la porta e indossò in fretta e furia il camicie appeso all'attaccapanni. 

Davanti ai suoi occhi dall'ampia vetrata poteva vedere il porto in fiamme e le colonne di fuoco e fumo delle bombe.

Si lavò le mani e tornò in corsia ancora più rapidamente, tanto da rischiare di cadere più volte dalle scale.

Incrociò il dottor Williams. Con stupore e sospetto questi gli domandò:

-Atsuya, che ci fai qui?-

-Fuori ci stanno attaccando, le navi sono in fiamme, bombe cadono dal cielo e aerei mitragliano la popolazione! Sembra così anomalo che un medico vada in ospedale a prestare cure e soccorso!?- il ragazzo sbottò, tutto d'un tratto, ogni suo collega era sorpreso di vederlo e la cosa lo irritava.

-Lo so… sono solo stupito, perché… è la tua gente che ci sta attaccando- sentenziò il medico.

-Come!?-

-I giapponesi, ci stanno attaccando, i tuoi compatrioti!-

-Io… non so che dire, non è possibile…- Atsuya era sull'orlo delle lacrime, il suo paese stava bombardando a sorpresa l'isola che lo stava ospitando. Si sentiva pieno di vergogna ma allo stesso tempo umiliato dalla sua nazione, l'università imperiale sapeva che era lì, non concepiva il perché era stato abbandonato. Abbassò la testa, respirava in modo affannoso.

-So che per te è dura, i tuoi compatrioti hanno scelto la via della distruzione. Tu sei un medico, non importa la nazione, puoi ancora fare la scelta giusta e salvare delle vite- il dottore sorrise vedendo che il più giovane era venuto ad aiutare, gli diede una paterna pacca sulla spalla e poi si dileguò per tornare ai suoi doveri.

-Atsuya, va tutto bene?- chiese serio, Mark aveva capito la situazione.

Il rosa si asciugò le lacrime. Alzò la testa facendo un respiro profondo e rispose:

-Sì sto bene, devo andare, ci sono molti feriti-

-Vengo con te, avrai bisogno di aiuto-

I due raggiunsero la corsia.

Vennero travolti dalle urla di dolore, dall'odore del sangue e la vista delle ferite. Lacerazioni causate dai proiettili, schegge di bombe e metallo, ustioni.

Emily passava con il carrello a distribuire l'occorrente alle colleghe e ai medici.

-Sono lieta che sia qui dottore- quelle parole furono un sollievo, sia per Atsuya che per l'infermiera stessa.

Il ragazzo cercò di sorridere, ma era ancora scosso dagli eventi.

Si avvicinò ad un uomo steso su uno dei lettini disponibili, era pallido, sudava e tremava. Gli pose una mano sulla fronte si stava raffreddando, con la mano stringeva il lenzuolo in modo quasi convulsivo.

-Sono qui, andrà tutto bene, tutto bene- ripeté più volte il giovane mentre con due dita sul collo tastava il polso carotideo, troppo rapido. Con gli occhi osservava la ferita. Un grosso buco nell'addome, causato forse da una scheggia di bomba.

Non c'era molto che si potesse fare, perdeva sangue, lentamente ma in grande quantità. 

-Mark, passami quei flaconi scuri e una siringa- 

Il ragazzo fece come richiesto.

Il medico afferrò l'ampolla di vetro, l'etichetta riportava "Morphine", morfina. Ne prelevò una piccola quantità. Il primo paziente che gli era capitato aveva una ferita mortale, soffriva, una sofferenza inutile.

Atsuya si morse il labbro, ma sapeva che in certi casi, essere un medico voleva dire anche dover mentire. Non aveva i mezzi né il tempo per un intervento come quello, un conto era suturare una ferita da proiettile, ma quell’uomo aveva un buco di dieci centimetri all’addome che aveva lacerato i principali vasi sanguigni.

-Adesso starai meglio, sentirai solo una piccola puntura…- 

Picchiettando sul braccio trovò una vena e iniettò il farmaco.

-Grazie- balbettò a denti stretti e con un filo di voce l'uomo. Pochi istanti dopo, l'uomo si rilassò, il tremore finì e spirò, senza dover soffrire ulteriormente.

Mark gli chiuse le palpebre.

Sul pavimento vicino giaceva un ragazzo che aveva circa la stessa età di Atsuya, era cosciente, gridava disperatamente aiuto. Stava con la schiena appoggiata al muro, la giacca era stata tagliata e levata. Mostrava una grande ustione lungo il braccio destro fino alla spalla. Probabilmente delle fiamme lo avevano aggredito. La cute era stata divorata dal fuoco, in alcuni punti si poteva vedere il muscolo rosso.

-Aiuto!- gridava.

Atsuya si inginocchiò al suo fianco.

-Tranquillo ci sono io-

Il ragazzo lo fissò con degli occhi vitrei, davanti a sé aveva un medico asiatico.

Con tutta la rabbia che aveva, iniziò a gridare esasperato dimenandosi e facendosi scudo con il braccio sinistro:

-Vattene sporco muso giallo! Non toccarmi!-

Il dottore spaventato indietreggiò.

In suo aiuto venne Mark. Prese per il collo il ferito e lo spinse contro la parete.

-Il dottor Fubuki è giapponese voglio che tu lo sappia, ma anche se giapponese è qui per salvarti la vita e quel braccio! Osa solo dire ancora qualcosa contro di lui e te la vedrai con me!- il biondo gli diede un ultima spinta, poi il paziente abbassò la guardia per farsi curare.

La ferita era sicuramente importante, ma non così grave, muoveva ancora il braccio e le dita, se la sarebbe cavata con una grossa brutta cicatrice.

-Mark, chiedi a Emily il necessario per trattare le ustioni, devi bendargli il braccio, fino alla spalla-

-Non l’ho mai fatto…-

-Lei saprà spiegare, qui ci sono molti altri uomini in condizioni ben peggiori!-

Il medico passò alla persona successiva, un altro ragazzino, forse anche più giovane di lui.

Anch’egli come il primo paziente era pallido e tremava ma era ancora lucido mentalmente. A gran voce implorava aiuto e invocava la mamma.

-Guardami, ci sono io- mormorò Atsuya.

Il marinaio si voltò, vide chiaramente che il medico era asiatico, ma non gli importava la provenienza. Voleva solo essere salvato.

Il dottore dovette strappare la maglia bianca, già lacerata dall’aggressione all’esterno.

Il rosa contò almeno due fori di proiettile al fianco. Aveva già perso un paziente, questo poteva farcela, doveva farcela.

Corse a rifornirsi, una siringa di morfina, pinze emostatiche, bisturi e molte bende. Mise tutto su un vassoio chirurgico e poi tornò dal ragazzo.

 

****

 

Baia di Pearl Harbour

ore 8:55

 

L'attacco stava cessando, i bombardieri e siluranti si stavano ritirando.

Nei cieli rimanevano ancora degli aerei tra cui quello del capitano Fuchida.

Gli americano stavano organizzando le difese e la USS Nevada, una corazzata praticamente intatta, era l’unica che non era affiancata da nessun’altra nave. Scaldò i motori e levò l’ancora in un tentativo disperato di prendere il largo e salvarsi.

In lontananza comparve una nube scura di grosse dimensioni, si avvicinava veloce come il vento. 

Era la seconda ondata.

Come la prima, attaccò con grande furia la baia, ma questa volta gli statunitensi non si erano fatti prendere dalla sorpresa.

La contraerea dell’isola risultò più efficace e il tiro dei cannoni più preciso e organizzato.

Nonostante il pericolo, le squadre volarono verso i loro obiettivi. 

Altri hangar e piste di atterraggio presso Hickam Field, Kaneohe, Bellow Fields. Uno squadrone era diretto verso il porto per finire il lavoro.

Alcune navi, tra cui la corazzata Pennsylvania, poste in un bacino di carenaggio vennero colpite da alcune bombe. Presero fuoco ma i danni furono tutto sommato limitati, in precedenza gli aerosiluranti avevano provato ad aggredirle ma invano.

Per cercare di estinguere l’incendio, i marinai aprirono le porte del bacino per innalzare il livello dell’acqua, ma sottovalutarono le perdite di olio.

Quest’ultimo galleggiava sull’acqua  e a contatto con le fiamme delle navi, aggravò la situazione.

Improvvisamente una pronta risposta dell’aviazione americana fece la sua comparsa.

Due caccia  Curtiss erano decollati, da un campo secondario, poco prima dell’arrivo della seconda ondata e avevano abbattuto qualche bombardiere Aichi prima di tornare in base a far rifornimento.

Tornarono in quota poco dopo, seguiti da uno sparuto gruppetto di quattro “Hawk”. Quest’ultimi dovettero fronteggiare i ben più temibili caccia “Zero” giapponesi, più armati, più veloci ma soprattutto con un’agilità invidiabile. Due giapponesi vennero abbattuti, ma di quei quattro, uno precipitò e gli altri dovettero fare ritorno agli hangar gravemente danneggiati.

Un ultimo gruppo decollò dalla minuscola base di Haleiwa, che non era stata danneggiata. I successi furono molto limitati, un solo aereo nipponico, mentre la squadriglia soffrì una perdita a causa del fuoco amico da terra.

Gli operatori a terra facevano il possibile per armare altri aerei, ma erano poche le basi con dei mezzi intatti.

Le postazioni antiaeree furono molto più efficaci.

La USS Nevada da sola era riuscita ad abbattere, grazie ad un insieme di mitragliere e cannoni di grosso calibro, alcuni aerei.

Era una delle poche navi in condizioni di navigare ed era così grande da diventare un bersaglio ideale.

Un intero gruppo di ventitré Aichi provenienti dalla Kaga si gettarono in picchiata sulla corazzata.

Essa cercò di difendersi al meglio riuscendo a infliggere qualche perdita, ma infine il ponte venne colpito da una dozzina di bombe.

Gli ordigni non erano però abbastanza potenti e la nave si arenò all'imbocco del porto. Imbarcava acqua ed era in fiamme, ma i danni non erano gravi.

La baia era nel caos più assoluto, l'olio e la nafta incendiate, stavano raggiungendo la California, mentre la Maryland cercava di liberarsi dalla morsa dell'Oklahoma rovesciata. Dopo quasi un'ora gli aerei della seconda ondata si ritirarono, accompagnati dal capitano Fuchida per fare rapporto.

 

****

 

Portaerei Kaga, Oceano Pacifico,

Ore 10:05

 

Hiroto volava ancora alto, ma riusciva già a intravedere la formazione di navi sotto di lui.

Riconobbe la propria portaerei e ne distingueva il ponte di legno con quel grande cerchio rosso a prua.

-Siamo a casa Hoshi- disse al navigatore.

-Ce l'abbiamo fatta!-

-E' stato più lungo il viaggio che la missione…-

-Secondo i miei calcoli circa due ore- osservò Hoshi.

-E due ore sono state quelle della partenza. Prepariamoci all'appontaggio(1)-

Il rosso rallentò e prese a volare in circolo sopra la portaerei insieme al resto della sua squadra. Uno ad uno si abbassavano e appontavano. 

Quando fu il suo turno Hiroto, abbassò il muso dell'aereo verso il basso e calò il gancio d'arresto.

Si allineò con la nave e con un piccolo balzo toccò il ponte con il carrello, poi con uno scossone si fermò. Anche questa volta aveva preso il cavo al primo tentativo.

Si tolse la maschera per l'ossigeno, spense il motore e aprì l'abitacolo di vetro. Si alzò in piedi respirando a pieni polmoni e poi aiuto Hoshi ad alzarsi. 

Sulla nave tutti esultavano per la riuscita della missione. I piloti erano eroi, avevano messo in ginocchio la potenza dei grandi Stati Uniti.

-E' stato un onore volare con te Hiroto- disse Hoshi inchinandosi.

-Lo stesso per me, sei stato un ottimo navigatore- gli sorrise.

Si tolse l'hachimaki e il caschetto di cuoio e rimase ad aspettare la squadra aerosiluranti.

Non sapeva il numero dell'aereo di Ryuuji. Molti atterrarono, ma ogni volta che un pilota compariva, non era lui.

Iniziava a temere il peggio fino a quando, l'ultimo aerosilurante, completamente intatto, non si agganciò.

Da lì uscì Midorikawa, i suoi capelli verdi erano impossibili da non notare.

Hiroto corse incontro all'amico.

-Diamine, non pensavo di vedermela così brutta! Quella nave ha iniziato a sparare all'impazzata!- esordì il verde.

-Sei almeno riuscito a colpirla?-

-Certo che sì, ma temevo di non riuscire a togliermi da quella coltre di proiettili!- a quelle parole aggiunse un sorriso amaro, sapeva di esser riuscito a sfuggire per poco.

-Come è andata a te?- continuò.

-Ho colpito la nave, ma è stato un altro a dargli il colpo di grazia. Devo dire che ho avuto un buon navigatore che mi ha guidato-

-Il mio era preso dall'ansia, ma ne siamo usciti indenni- 

-Devo andare a fare rapporto- disse il rosso guardando l'orologio al polso.

-Ci vediamo più tardi, spero solo che il cuoco ci dia qualcosa di meglio per festeggiare!-

Hiroto rise, poi salutò l'amico con un gesto e andò dai suoi superiori.

Si fermò dopo qualche passo e si toccò una delle tasche sul petto. La aprì e tolse il chasaku, il cucchiaio di bambù per il tè, con inciso “Aki no kaze”. Lo rigirò tra le mani per qualche istante. Shirou aveva ragione, gli aveva portato fortuna.

 

****

 

Quando il capitano Fuchida tornò sulla Akagi alle ore 13:00 fece rapporto all'ammiraglio Nagumo.

Il comandante decise di non far decollare la terza ondata e tornare in Giappone. Tutte le navi erano state colpite e affondate, i campi distrutti, la terza ondata avrebbe dovuto passato la spugna ed eliminare le cisterne di carburante e, se fosse riuscita, colpire le porterei nel caso in cui fossero tornate a prestare aiuto. Tutto ciò era troppo rischioso, le difese si stavano organizzando, quelle portaerei disperse nel Pacifico avrebbero potuto intercettare la flotta e poi le navi principali erano state affondate.

Sull'isola venne dichiarato lo stato di emergenza e le trasmissioni radio interrotte.

A Washington, i decodificatori erano riusciti a decriptare dei messaggi per l'ambasciatore Nomura in cui lo si avvertiva di bruciare tutti i documenti importanti e consegnare al segretario di stato Hull la formale dichiarazione di guerra. Questo sarebbe dovuto avvenire con una mezz'ora di anticipo rispetto l'inizio dell'attacco, ma così non fu.

Dal comando della marina arrivò un messaggio in cui si avvertiva Pearl Harbour di un possibile attacco giapponese… con un'ora di ritardo, la flotta era già flagellata. 

Anche il rapporto della USS Ward arrivò troppo tardi, alle 7:57, quattro minuti dopo l’inizio.

 

****

USS Oklahoma, baia

di Pearl Harbour

7 dicembre 1941, 

ore 16:30

 

I marinai erano ancora rinchiusi nello scafo della corazzata. 

Erik era dolorante, non solo alla gamba, ma anche alla testa. Aveva fame, sete, gli mancava l'aria a causa del caldo.

Difficile rimanere all'asciutto con tutta l'acqua che era nella stanza.

Alcuni dei macchinisti urlavano, altri presero dei pezzi di metallo e iniziarono a picchiare sul soffitto arrampicandosi.

Erano da ore che si trovavano là sotto.

Da fuori proveniva un sommesso ronzio.

Sullo scafo decine di uomini cercavano di fare una breccia nella chiglia e salvare i sopravvissuti.

Ognuno si da fare. Battevano con martelli pneumatici, chiavi ed altri attrezzi più sofisticati.

La Oklahoma era una delle navi più danneggiate e quindi una delle ultime ad essere stata soccorsa, per dare maggior speranza ai feriti di altri equipaggi che potevano essere salvati più rapidamente.

Il lavoro era faticoso, il fumo che si stava alzando ancora dalle carcasse d'acciaio rendeva il tutto più difficoltoso.

-Qui! Qui c'è qualcuno!- gridò un soldato che stava con l'orecchio contro lo scafo.

Una piccola squadra arrivò sul posto per tagliare e rimuovere le lastre.

-Ci hanno sentito! Stanno venendo a prenderci!- esultò uno dei marinai all'interno.

Erik iniziò ridere, ma era un riso isterico.

Le porte stagne iniziavano ad avere delle perdite a causa dell'incendio a bordo che aveva dilatato il metallo.

I macchinisti colpirono con più forza il soffitto con tutto ciò che gli capitava a tiro, pezzi di ferro, legno o a mani nude.

Erik stesso provò ad aiutare i compagni.

Il livello dell'acqua lentamente stava per alzarsi nuovamente.

L'Oklahoma non era una nave qualunque, era una corazzata.

Lo scafo era pesante e l'acciaio spesso parecchi centimetri. Era stato progettato per resistere alle mine o ai siluri, anche se quelli nipponici non ebbero pietà.

Fare anche un solo buco si poteva paragonare ad un impresa titanica. Con i mezzi disponibili ci si poteva impiegare anche oltre un'ora.

Il tempo passava e la stanza si allagava sempre di più.

Quando i primi raggi di luce entrarono nella sala di controllo, si alzarono grida di gioia.

Il grosso era fatto, ma bisognava allargare il passaggio.

I marinai si arrampicarono su dei tubi che correvano lungo la parete ad aiutare gli operai.

Facevano leva con ciò che avevano e li incoraggiavano.

Ci vollero parecchi minuti prima che si riuscisse a creare un foro abbastanza largo attraverso la carena e il pavimento della sala controllo.

I sopravvissuti ormai dovevano cercare di galleggiare per non affogare.

-Avanti! Uno alla volta! Chi è il primo?- domandò ad alta voce il caposquadra.

-Il ragazzo, è ferito e non si regge in piedi!- rispose uno dei macchinisti riferendosi ad Erik.

Il moro a malapena stava a galla appoggiandosi alle spalle di uno degli uomini presenti.

-Vi buttiamo una fune-

Una grossa gomena venne gettata all'interno, Erik si aggrappò con tutte le forze e venne tirato all'esterno. Si graffiò la schiena sulle lamiere dello scafo, ma almeno era salvo.

Venne messo supino sulla chiglia in attesa di una barella.

Non vedeva bene, il cielo era grigio, sentiva odore di bruciato e urla dei feriti.

Era stato fortunato, il suo gruppo era stato trovato, ma molti altri nella Oklahoma, non ce la fecero.

Chiuse gli occhi come per isolarsi dal mondo e perse i sensi.

Quando riuscì a risvegliarsi era sul pavimento di una clinica, gamba e testa fasciate.

-Ce l'ha fatta! Sapevo che ce l'avresti fatta!- 

Erik impiegò qualche secondo a riconoscere la voce, era Mark il suo amico.

-Erik sono io! Mark Krueger!-

-Ehi ho capito… sono ferito ad una gamba non sono sordo…- sorrise anche se rispose a fatica.

-Dove sono?- domandò poi.

-In ospedale, Atsuya ti ha medicato personalmente-

-Dov'è ora?-

-Non lo so, ci sono molti feriti-

-E Bobby? Dov'è Bobby?-

-Erik…- la voce di Mark si fece più cupa e profonda.

-Non dirmelo…-

-Bobby era sull'Arizona… lui-

-Lui è vivo! Io lo so!-

-Erik- il biondo non voleva essere in quella situazione, non voleva essere lui a dover dare una brutta notizia, ma purtroppo Erik era un amico, così come Bobby.

-Hanno trovato il suo corpo, stava sparando vicino a dove è esplosa la santabarbara…- Mark pronunciò le ultime parole con un nodo alla gola e prese la mano di Erik stringendola forte a sé.

Il moro si accasciò nuovamente a terra e pianse, le lacrime scorrevano rigandogli il volto mentre singhiozzava.

-Tu eri il suo più grande amico, molto più di me o Dylan… mi dispiace Erik, mi dispiace-

 

****

 

Corazzata Nagato, baia di Hiroshima

8 dicembre 1941,

Ora locale 8:00

 

L'ammiraglio Yamamoto stava nel suo alloggio a bordo della nave. Era seduto allo scrittoio intento a leggere un libro di memorie di qualche ammiraglio famoso.

Qualcuno bussò alla porta ed entrò un giovane marinaio vestito di blu scuro e con un telegramma in mano.

-Congratulazioni il vostro piano è stato un successo, signore-

L'ammiraglio prese il messaggio, era il rapporto dell'ammiraglio Nagumo. Effettivamente l'attacco fu una vittoria, cinque corazzate affondate e tre danneggiate, alcune navi di minore importanza colpite, quasi trecento aerei fuori uso e oltre tremila vittime di cui i due terzi persero la vita, soprattutto sull'Arizona e in misura minore sull'Oklahoma. Le perdite furono minime circa trenta aerei ma anche tutti e cinque i piccoli sommergibili tascabili.

Dopo aver letto il messaggio, stracciò il rapporto che comunicava la vittoria.

-Nagumo ha deciso di non far partire la terza ondata, una mossa stolta. Ha lasciato intatti alcuni campi di aviazione e tutti i depositi di carburante. Se avesse seguito il piano, gli americani avrebbero impiegato oltre un anno a riparare Pearl Harbour. Quell’isola è ancora pericolosa- l’ammiraglio si alzò, ripose il libro nella piccola libreria della cabina e poi con un sospiro aggiunse:

-Questo non è un successo, tutto quello che abbiamo fatto. Temo che abbiamo risvegliato un gigante e lo abbiamo riempito di una grande determinazione-

 

****

 

Congresso degli Stati Uniti, Washington D.C.

8 dicembre 1941

 

Franklin Delano Roosevelt, era al suo terzo mandato come presidente. Mai prima di allora, un uomo era stato eletto per più di due mandati consecutivi.

Durante la sua presidenza aveva affrontato le conseguenza della crisi economica causata dal crollo di Wall Street, ricostruì il paese con il suo New Deal e pose fine al Proibizionismo.

Ora doveva affrontare la sfida più grande, la guerra contro il Giappone e forse le Potenze dell'Asse. 

L'aula del Congresso era gremita di politici e giornalisti. 

Il presidente, nonostante la sua disabilità che lo costringeva alla sedia a rotelle, stava in piedi dietro un podio. La sua condizione fisica era segreta, o meglio la gravità della condizione. 

Riusciva ad alzarsi grazie a dei sostegni in metallo nascosti nei pantaloni, ma difficilmente poteva camminare senza supporti.

Si schiarì la voce, davanti a sé vi era la stampa di una intera nazione.

Pronunciò un lungo discorso riguardo ciò che era accaduto il giorno prima, esordendo con parole dure:

 

"Nella giornata di ieri 7 dicembre 1941, una data che vivrà segnata dall'infamia, 

gli Stati Uniti d'America sono stati intenzionalmente e improvvisamente attaccati da forze aeree e navali, dell'Impero del Giappone"

 

Accusò di infamia la terra del Sol Levante, l’impero nel mentre trattava in modo pacifico la fine dell'embargo, si preparava a colpire a sorpresa e non solo l'America. Il presidente continuò con un elenco di aggressioni che il Giappone aveva sferrato in solo due giorni. 

 

“Ieri il governo giapponese ha attaccato anche la Malesia.

Ieri notte le forze giapponesi hanno attaccato Hong Kong.

Ieri notte le forze giapponesi hanno attaccato Guam.

Ieri notte le forze giapponesi hanno attaccato le Filippine.

Ieri notte le forze giapponesi hanno attaccato l'Isola di Wake.

Questa mattina i giapponesi hanno attaccato l'Isola di Midway."

 

L'esercito non aveva perso tempo. L'Impero britannico fu travolto dalle mire espansionistiche nipponiche con l'attacco alla Malesia e a Hong Kong. Molti possedimenti americani avevano fatto la stessa fine, tra cui il protettorato delle Filippine.

Il discorso si concluse con una richiesta: dichiarare lo stato di guerra con il Giappone.

Il Congresso votò a favore in modo quasi unanime. Solo una senatrice si oppose.

Gli Stati Uniti erano ufficialmente in guerra.


****

 

1) appontaggio: manovra di atterraggio sul ponte di una portaerei.


Piccolo angolo d’autore…

Ecco a voi la seconda parte del capitolo riguardante l’attacco,

decimo capitolo, il titolo è un chiaro riferimento al discorso di Roosevelt.
Direi che con questo si può chiudere il primo

arco narrativo, un arco caratterizzato dal conflitto in Cina 

(che verrà approfondito in seguito), dall’arte dell’intrattenimento

di Shirou, gli studi di Atsuya che si trova ora da giapponese

in un paese nemico e infine le tensioni tra Giappone e Stati Uniti.

L’attacco è stato un evento tragico, questo direi che è risaputo,

ho cercato di dar voce a diversi personaggi in modo da rappresentarlo

al meglio, senza sminuirne la drammaticità.

Come sempre mi auguro che il capitolo sia stato

di vostro gradimento, 

un saluto

 

_Eclipse




 
   
 
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