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Autore: Adeia Di Elferas    12/05/2020    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Cesare si era svegliato molto presto. Aveva scacciato la donna che Numai gli aveva procurato la sera prima, e poi si era messo alla scrivania.

Mentre era in dormiveglia gli era venuto in mente cosa scrivere di preciso nell'editto che avrebbe pubblicato quel giorno e, nel momento stesso in cui aveva cominciato a vergare le prime parole, si era sentito potente come un Dio. Era certo che quel giorno la rocca sarebbe caduta e che, finalmente, tutta Italia avrebbe saputo di cosa era capace.

Finito di redigere il documento, il ventiquattrenne andò un momento alla finestra e guardò fuori. Il sole era ancora pallidissimo e lontano. Faceva freddo, lo si poteva intuire dal profilo ghiacciato della strada in ombra. C'era quasi una leggera foschia, come se a breve dovesse sollevarsi la nebbia.

Ma al Borja tutto ciò non interessava: per lui quella era la domenica più bella mai esistita, perché era certo che avrebbe vinto.

Fece chiamare Numai e, quando se lo trovò davanti gli ordinò: “Fate venire qui i miei generali, devo conferire con loro. E poi ordinate un'adunata cittadina e leggete questo mio bando, ma fatelo entro al massimo un'ora, intesi?”

Luffo prese il foglio che il Valentino gli stava porgendo e, annuendo, commentò: “Volete essere presenta anche voi o..?”

“No, lascio al vostro governo – fece il Duca, con un sogghigno denigratorio proprio arrivato al termine 'governo' – il compito di divulgare quest'ordine e di farlo rispettare, soprattutto.”

Il forlivese deglutì e poi, dopo aver chiesto se vi fosse altro ed essersi sentito rispondere di no, fece un inchino e andò verso la porta.

Solo a quel punto Cesare, che era ancora in brachette e con la vestaglia aperta, a mettere in mostra il petto coperto da radi peli scuri, lo fermò: “Guardate che ho capito che quella che mi avete portato questa notte non era una sguattera di cucina.” gli disse, con un tono così imperscrutabile che Numai sentì il sangue gelarsi nelle vene: “Ma per questa volta vi perdono. Tanto stanotte avrò ben altro con cui divertirmi...”

Dato che il Valentino sembrava non aver altro da dire, Luffo guadagnò una volta per tutte la porta e fece quanto gli era stato ordinato di fare.

Una volta radunata, come meglio si era potuto, la cittadinanza, sotto i primi stentati raggi di sole di quel 12 gennaio, in veste ufficiale di Capo Gonfaloniere per San Mercuriale, Numai declamò gli ordini del Borja: “Chiunque ama il Duca, porti fascine, almeno una a capo, alla rocca, ai ripari costruiti dai guastatori.” e con la mano indicò il punto approssimativo in cui stavano i cosiddetti 'ripari', ovvero i bivacchi degli artiglieri francesi impegnati in prima linea: “E al simile, chi ha una qualunque scala, tutte le deve portare alla suddetta rocca, perché è ordinata presto battaglia!”

 

Di quando in quando Caterina faceva sparare un colpo di cannone contro i francesi, ma sapeva, ormai, di avere pochissime munizioni, e voleva tenerle per quando avessero avuto davanti un maggior numero di bersagli.

Di fatto, per il momento la situazione era anche troppo tranquilla. Era evidente che i nemici stavano architettando qualcosa, probabilmente uno sfondamento passando sul fossato ormai reso inutile, ma la Tigre non sapeva cos'altro fare se non attendere. I momenti per contrattare erano finiti da tempo, quelli di attaccare lei stessa pure. Era arrivata infine al nocciolo di tutta la questione: portare avanti il suo primo intento, quello di resistere fino alla fine, salvando, almeno, l'onore del nome che portava.

L'unica cosa che la confortava – a parte immaginare i figli relativamente al sicuro a Firenze – era sapere con assoluta certezza che tutti gli uomini che l'avevano seguita fino a quel punto credevano in lei e offrivano la loro vita per quella causa. Forse certi, come anche suo zio Ludovico o il papa, avrebbero trovato quel modo di ragionare anacronistico, degno di una vecchia favola o dei racconti dei grandi cavalieri di due secoli addietro o più. Per la Sforza, invece, era ormai l'unica ragione per continuare a lottare.

“Per ora li teniamo lontani – le disse piano Scipione, pensando che lo sguardo torvo della donna fosse esclusivamente rivolto ai francesi che continuavano a colmare il fossato – se provano ad avvicinarsi più di così, li mandiamo all'altro mondo.”

La donna, che in realtà era più persa nei suoi pensieri che non in ragionamenti strategici, annuì e poi, dando una piccola pacca alla spalla protetta dal ferro dell'armatura del Riario, borbottò: “Per ora, ma chissà per quanto... Comunque ho bisogno di un punto migliore per vedere cosa fanno. Da qui, possiamo tenere d'occhio solo il fossato. Voglio avere una visione più ampia.”

“Il rivellino.” propose Scipione: “Li sareste anche al sicuro.”

“Sì, ma io non voglio essere al sicuro. Io devo combattere come tutti gli altri.” ribatté lei.

“Lo so.” fece allora il giovane, più cauto: “Ma se volete coordinare l'azione, non potete morire alla prima freccia che ci arriverà...”

Caterina gli diede ragione e poi, con un sospiro, intravedendo Giovanni da Casale che stava arrivando dall'angolo dei camminamenti, sospirò: “Ci penseremo. Ma non adesso. Abbiamo ancora qualche ora, prima che si scateni l'inferno.”

Il ragazzo si accigliò, ma poi, vedendo cosa, o meglio, chi avesse catturato lo sguardo della Contessa, capì: “Per ora è tutto sotto controllo – disse, quasi in un'eco – state tranquilla. Per qualsiasi cosa importante, vi manderò a chiamare.”

“C'è mio fratello Alessandro, là.” fece presente la Leonessa, indicando il torrione più distante da loro: “E nel cortile ci sono Marulli e Testadoro.”

Scipione annuì: “Lo so.” e avrebbe anche aggiunto qualcosa, ma la Tigre, ormai, era concentrata su Pirovano.

“Per il momento è tutto tranquillo.” disse piano Caterina, avvicinandosi all'amante e prendendogli istintivamente una mano: “Stiamo un po' assieme?”

Il milanese parve sorpreso, ma era chiaro come non volesse lasciarsi scappare quell'opportunità: “E possiamo?” le chiese, speranzoso.

Caterina lanciò uno sguardo alle merlature, dietro le quali il Riario aveva già assunto un atteggiamento di controllo che le piaceva molto, e poi il cortile, dove Michele e il Capitano delle Murate stavano facendo un ottimo lavoro di tamponamento: “Sì, possiamo.” soffiò.

Senza aspettare altro, l'uomo ringraziò la propria buona stella e, stringendo di più la mano che la stessa Sforza gli aveva offerto, esclamò: “Allora andiamo!”

I due scesero in fretta la scaletta a chiocciola e imboccarono senza indugio la strada più breve per la loro camera. Nel tragitto, la Leonessa intravide Baccino, intento a discutere animatamente con Laziosi e Paolo Bezzi riguardo le loro divergenti opinioni circa il modo migliore per sventrare un francese, e poi notò anche Vangelista, come di consueto intento a confessare qualche soldato. In entrambi i casi, la Contessa non si sentì minimamente in difetto, nel passare loro accanto mano nella mano con Giovanni da Casale. E, di contro, nemmeno il cremonese e il frate parvero particolarmente scossi, nello scorgerla in quel modo.

Paradossalmente, in quella domenica in qui il Borja sembrava a un passo dal vincerla, Caterina poteva assaporare per la prima volta da tempo immemorabile una parvenza di equilibrio. Forse era qualcosa di estremamente precario e illusorio, ma sapere di poter avere quei tre uomini come e quanto voleva, senza che tra loro si scatenassero chissà quali battaglie, le alleggeriva l'animo.

Arrivati quasi alla porta, la Leonessa si accorse che Argentina era appena uscita proprio dalla loro stanza e stava andando, flemmatica, verso l'alloggio successivo per dare una sistemata, come suo consueto. Era quasi commovente, vederla tanto ligia al dovere anche in un momento simile.

“Aspetta un attimo.” sussurrò la Sforza a Giovanni, rincorrendo la domestica e fermandola: “Devo dirti una cosa...”

La donna smise subito di camminare e guardò la sua signora con reverenza, come a dirle di parlare pure.

Poiché in corridoio c'era una certa confusione, per essere certa di farsi sentire e, soprattutto, capire, la milanese le fece segno di avvicinarsi e poi, quasi dicendoglielo nell'orecchio, chiese: “Sai quello che sta per accadere?”

“Temo di sì, mia signora.” rispose la serva, greve.

“Bene.” fece lei, felice di poter saltare almeno la prima parte di discorso e passare subito alla seconda: “Ascoltami bene: se tu dovessi sopravvivere, e dovessero catturarti, fai presente ai più alti in grado che tu ti dichiari prigioniera francese, perché sono i francesi a essere ufficialmente in guerra con noi.”

Argentina fece segno di sì, ma poi, mordendosi il labbro, indagò: “Perché, mia signora?”

“Perché i francesi, per la loro legge marziale, non possono prendere come prigioniere di guerra le donne.” il tono della Tigre era pragmatico, ma la serva percepì comunque una tensione superiore alla norma, nelle sue parole.

“Non possono, ma il più delle volte lo fanno...” disse la domestica, stringendo gli occhi: “Come a Mordano o...”

“Lo so.” tagliò corto Caterina: “Ma tentare potrebbe servire. E non costa nulla, non credi?”

L'altra annuì e poi chiese: “Lo devo dire anche a Madonna Dianora e alle altre..?”

La Sforza sospirò e convenne: “Direi di sì.”

“Grazie, mia signora.” concluse Argentina, avvertendo un nodo spiacevole alla gola, mentre capiva che quella poteva essere l'ultima volta in cui avrebbero potuto parlarsi: “Per tutto, non solo per questo.”

La Contessa scosse il capo e poi borbottò, cupa: “Non dirlo. Se non fosse stato per me, che ti ho presa a servizio, ora non saresti qui e non saresti in pericolo.”

“Non sarei qui e basta, probabilmente.” ribatté la serva: “Mi avete dato una possibilità, quando il mondo me la negava.”

Seguendo l'impeto del momento, pur sapendo che quello che stava facendo andava contro non solo le etichette, ma anche contro il tipo di rapporto che la Leonessa aveva instaurato con lei – ovvero molto amichevole, ma comunque molto distaccato – Argentina si protese in avanti e l'abbracciò.

Poco abituata a quel genere di slanci da parte di un'altra donna nei suoi confronti, la Sforza ricambiò appena e disse: “Non c'è bisogno.”

“Sì, invece.” insistette l'altra e, dopo qualche secondo, si staccò, con gli occhi un po' lucidi e la voce incrinata, nel dire: “Allora lo spiego anche alle altre, quella questione della prigionia...”

La milanese annuì e poi la guardò allontanarsi, prima di tornare da Pirovano. Questi, nel vedere quello strano siparietto tra la propria amante e Argentina, aveva pensato di tutto e di più, non potendo sentire cosa si stessero dicendo.

Era arrivato perfino a pensare che, per quanto abbastanza impossibile dal lato pratico, la sua Caterina avesse ricevuto in stanza un uomo, quella mattina, e che avesse chiesto alla sua serva di rimettere in ordine e che avesse voluto accertarsi che tutto fosse a posto, prima di... Certo, a quel punto l'abbraccio tra le due non avrebbe avuto molto senso, ma...

“Allora? Passiamo quest'ora qui impalati a fissare il vuoto o in un modo un po' più divertente?” gli chiese la Tigre, dandogli uno scossone: “Cos'hai?”

Giovanni sbatté le palpebre un paio di volte: “Nulla, nulla... Senti, ma... Che dovevi dire alla tua serva, prima?”

“Lascia perdere.” sbuffò lei, tirandoselo dietro mentre entrava in stanza e, chiusa la porta, iniziando a spogliarlo, senza farsi troppi problemi: “Goditi quest'ora e taci.”

Pirovano deglutì, indeciso se continuare o meno il discorso, ma poi, sentendo le mani della sua amante su di sé, mosse da una fame che ormai aveva imparato a riconoscere, e vedendo il letto, appena rifatto, fresco a invitante, mise a tacere tutto, dalla gelosia alla paura, e fece quello che la sua donna gli aveva chiesto di fare: godersi quell'ultima ora – perché dentro di sé sentiva che tale sarebbe stata – di passione con lei.

 

Quando l'avevano chiamato per pranzare, Cesare era stato tentato di declinare. Poi, però, rendendosi conto che i lavori di riempimento del fossato erano ancora lontani dall'essere ultimati, e che la posizione, bene o male, era salda, il giovane aveva cambiato idea, dicendosi che sarebbe stato meglio affrontare la vittoria a stomaco pieno.

In più, come la maggior parte dei pasti che di solito saltava, sarebbero stati presenti pressoché tutti i notabili del suo seguito, dai comandanti ai prelati: era un'occasione eccellente per far presa su di loro e far capire a tutti chi fosse lui realmente. Era stanco di essere considerato un ragazzino, diventato importante solo perché figlio dell'uomo giusto. Avrebbe fatto sì che tutti si rendessero conto di chi era Cesare Borja.

Quando si trovò attorno alla tavolata imbandita, nel salone da pranzo del palazzo di Luffo Numai, il Duca di Valentinois chiese un momento di silenzio. Si alzò in piedi, guardò con calma prima alla propria destra e poi alla sinistra, sorprendendosi come sempre di quanto quei boriosi francesi, spagnoli e italiani che lo seguivano sapessero godersi quei ricchi convivi come se la guerra fosse qualcosa di lontano, qualcosa che non li toccasse.

Poi, schiaritosi la voce, disse: “Il mio popolo di Forlì è stato molto obbediente, perché ha portato una gran massa di fascine, come io avevo chiesto.”

Tutti i presenti avevano sentito bene il modo in cui il Borja aveva sottolineato quel 'mio'. In fondo non avrebbero dovuto stupirsene, dato che era obiettivo dichiarato di quella campagna, il dare la Romagna al figlio del papa. Tuttavia molti, tra cui Achille Tiberti, che essendo cesenate si sentiva uno dei più coinvolti, si lasciarono scappare qualche mezzo sbuffo e qualche occhiata di scetticismo.

Nessuno, però, aveva osato fermare Cesare, mentre continuava a elencare i pregi del 'suo popolo di Forlì', spiegando come, del tutto liberamente e con grande amore nei suoi confronti, avesse rispettato le sue leggi e avesse accolto le sue richieste, anche quelle più difficili. Nessuno ebbe nemmeno il coraggio di contraddirlo, quando il ventiquattrenne si lanciò in una sperticata lode ai forlivesi che erano stati in grado di convivere in modo completamente pacifico con i francesi e gli altri mercenari.

“Perché è così – concluse, secco, con il sorriso che spariva e gli occhi che si scurivano, man mano che si fissano sui volti di ciascuno dei suoi sottoposti – che ci si ricorderà di queste settimane. E tutti noi testimonieremo in questo modo.”

Queste ultime frasi suonarono – non proprio a torto – come un avvertimento, se non addirittura come una minaccia. A tutti fu chiaro che chi avesse parlato con altri toni di quella loro campagna militare, sarebbe incorso in qualche guaio.

Detto ciò, il figlio del pontefice si sedette e diede inizio al pranzo. Fu solo dopo le prime due portate che chiese di nuovo l'attenzione di tutti e, sollevando un calice colmo fino all'orlo, fece un altro annuncio.

“Oggi è domenica – dichiarò, con un sorriso felino – voi vedrete che martedì, Madonna Caterina sarà nelle mie mani.”

“Impossibile.” ribatté, senza riuscire a trattenersi, Yves d'Alégre: “Il termine che indicate è troppo vicino.”
“E invece io vi dico – insistette il Duca – che martedì prossimo la bella Contessa sarà mia prigioniera.”

Cesare rimase basito nel vedere l'arroganza e l'aggressività con cui la maggior parte dei presenti si scagliò all'improvviso contro la sua dichiarazione. Perfino uomini come Zitolo da Perugia od Onorio Savelli, che era soliti tacere, si erano messi a far gran voce, dandogli del pazzo, se credeva di poter prendere tanto in fretta la Tigre di Forlì, benché le avesse già aperto in due la rocca.

“E va bene!” sbottò, dopo quasi un quarto d'ora il Valentino: “Scommettiamo, se proprio non mi credete!”

Ci fu un breve momento di silenzio e poi la tavolata rispose in modo entusiasta, credendo, con l'accettare, di potersi guadagnare facilmente qualche soldo, oltre a scornare il Borja una volta che avesse perso.

“E sia.” concluse il Valentino, alzandosi e risollevando il calice pieno, la mano che tremava appena, abbastanza da far strabordare qualche goccia rossa: “Trecento ducati per parte.”

Nel dire ciò, con tanta veemenza e sicurezza, il figlio del papa aizzò, involontariamente, alcuni fanti che erano attorno al tavolo come guardie. Sentendolo così sicuro della vittoria, infatti, gli uomini si erano convinti che dovesse avere un motivo valido per dare per sconfitta la Leonessa. E siccome la Sforza era il terrore dei francesi, che vedevano in lei una sorta di mostro mitologico, sapere che sarebbe presto morta era un sollievo inaudito.

“Vossignoria – disse uno dei soldati, gonfiando il petto e sorridendo trionfale – vincerà la scommessa, perché, a noi basta bene l'animo di prendere quella rocca in brevità di tempo!”

Un po' sorpreso da quella reazione, il Duca ringraziò con un cenno del capo e, riappoggiando il calice al tavolo, disse: “Ne sono certo.”

E poi, sentendo uno strano nodo allo stomaco, in parte dovuto alla sensazione, mai così tangibile, di poter essere davvero prossimo al risolvere quell'assedio, e in parte causato dagli sguardi ancora perplessi dei suoi commensali, il Borja si scusò e disse che la fame gli era passata, e che la guerra lo chiamava.

“La guerra lo chiama...” borbottò Achille Tiberti, seduto accanto al Balì di Digione, che stava andando avanti a mangiare come nulla fosse: “La guerra, a uno come lui, può al massimo chiedere di non impicciarsi...”

Antonio di Baissay rise, quasi ingozzandosi con il polletto che stava divorando, e poi, deglutendo a fatica, ribatté: “Caro il mio Tiberti, state attento a parlare così di chi non è presente. Il Duca non sarà un gran condottiero, ma ha molte orecchie, in giro, e, anche se non sa fare molte cose, vi assicuro che una lingua la sa strappare pure lui...”

 

Caterina e Giovanni da Casale si erano presi con dolcezza, con una calma inaudita, che quasi stonava con la realtà che stavano vivendo. Si erano riaccesi solo sul finale, abbandonando i sospiri e i baci lenti, per passare ai ritmi più feroci e ai gesti più bruschi imposti dalla Tigre.

Pirovano non si era opposto, aveva ubbidito a tutto quanto, aveva perfino digerito bene un episodio, che, in altri momenti, non avrebbe sopportato. Era successo poco prima che la sua amante cambiasse atteggiamento, pretendendo di lui di più. Era sopra di lui e, fermandosi di colpo, l'aveva scrutato in volto con un'espressione strana. Lui le aveva accarezzato il fianco, risalendo lentamente fino al seno e da lì le aveva sfiorato le labbra. La donna aveva scosso la testa, ma non per negare qualcosa a lui. Era come se stesse facendo fatica ad accettare che su quel letto ci fosse lui e non qualcun altro.

Poi, come se fosse giunta alla dolorosa conclusione che quella era la realtà dei fatti e che non poteva cambiarla, gli aveva afferrato i capelli, facendogli reclinare un po' indietro la testa, gli aveva dato un bacio dal sapore selvaggio e poi, riprendendo a muoversi, gli aveva morso la spalla. Il milanese non era proprio nuovo a quel genere di approcci, ma era da così tanto tempo che la sua amante non mostrava i denti con lui – in senso letterale – che per un secondo era rimasto spiazzato.

Aveva recuperato in fretta, e da lì in poi non si era più fatto domande. Non si era nemmeno chiesto chi fosse davvero l'uomo che lei avrebbe preferito avere tra le cosce. La risposta più ovvia, che tutti avrebbero dato, sarebbe stata Giacomo Feo. Pirovano, però, chissà come mai, sentiva che in quel caso la risposta giusta fosse un altra: Ottaviano Manfredi, il suo grande rivale.

“C'è solo una cosa che mi conforta davvero – disse Caterina, mentre se ne stavano stesi, l'uno accanto all'altra, riprendendosi un momento dall'impegnativa battaglia amorosa che si erano appena dati – ovvero che il mio corpo resterà qui. Assieme a quello del mio Giacomo. E a quello di Manfredi.”

Giovanni da Casale sentì un brivido freddo lungo la schiena. Quella frase andava implicitamente a confermare i suoi timori.

Stava per dire qualcosa, quando, però, la Sforza spostò la prospettiva del suo discorso su un piano che gli impedì di fare la parte dell'amante geloso.

“Assieme, anche, a quello del mio povero Livio.” sussurrò la Tigre: “Quando era vivo, gli sono stata troppo lontana...”

Con gentilezza, l'uomo le prese la mano, stringendola nella propria e, pur facendo fatica ad archiviare la questione precedente, cercò di incoraggiarla: “Non potevi sapere che sarebbe morto così piccolo...”

“Proprio per questo avrei dovuto stargli accanto di più.” si incaponì lei: “Così come avrei dovuto fare con tutti gli altri. Ma non ne sono stata capace.”

“Non è il caso di fare discorsi del genere proprio adesso...” tentò Pirovano, che sinceramente credeva fosse controproducente abbattersi tanto, mentre si aspettava una battaglia in campo aperto.

“Adesso è tempo che andiamo.” sospirò la Leonessa, mettendosi seduta, dando la schiena all'amante: “Avevo detto che sarei stata via solo un'ora, e invece abbiamo fatto tardi...”

“Ti aiuto a indossare l'armatura.” si propose prontamente Giovanni, che pure avrebbe preferito restare con lei ancora, anche quando la rocca si fosse sbriciolata attorno a loro, tutto, pur di restarle accanto fino all'ultimo respiro.

“Va bene.” annuì lei, lasciando il letto caldo e sentendo la pelle accapponarsi, a contatto con l'aria fredda della stanza: “E poi devi fare un'altra cosa...”

“Cosa?” domandò lui.

Caterina lo guardò per un lungo istante. Era ancora nudo e steso vicino a lei. Avrebbe tanto voluto potergli ordinare di restare lì dov'era e tornare tra le sue braccia, ignorando il mondo e i suoi problemi, aspettando che la rocca venisse fatta in mille pezzi dai cannoni francesi, travolgendoli, tenendoli chiusi tra i suoi calcinacci per sempre... E invece sapeva di aver un compito ben preciso.

“Devi giurarmi che non ci arrenderemo. Per nessun motivo.” gli disse, a voce bassissima.

Pirovano deglutì e la guardò con attenzione. Voleva capire dove iniziasse l'ostinazione e finisse il senso d'orgoglio.

La Leonessa avrebbe voluto essere capace di spiegargli che ostinazione e orgoglio, ormai, non c'entravano più molto. Si era resa conto che, se fosse stata catturata viva, probabilmente le sarebbe toccata una sorte peggiore della morte. L'aveva capito mentre parlava con Argentina. Se le altre avrebbero potuto in qualche modo cavarsela, su di lei di certo il Borja avrebbe riversato ogni genere di violenza. E lei non voleva per nessun motivo che succedesse.

“Se ci vedremo persi – specificò la donna – combatteremo ugualmente. Non è ammesso nemmeno provare a pensare alla resa.”

Giovanni annuì appena e poi, grattandosi la nuca, mentre lasciava finalmente il letto, per avvicinarsi a lei, promise: “Non dichiareremo mai la resa.”

I due si scambiarono un lungo bacio, con il quale entrambi stavano dichiarando tutto ciò che a parole non erano mai stati capaci di esprimere.

“Avanti...” soffiò lei, quando riuscì a scansarlo un po', fermandolo, prima che nessuno dei due riuscisse a fermarsi.

L'uomo stava per raccogliere da terra le proprie brache, in modo da infilarle, prima di dedicarsi all'armatura della sua donna, quando l'attenzione di entrambi venne catturata da un grido di guerra che arrivava da un punto relativamente vicino.

Caterina non ebbe il tempo di chiedersi che stesse accadendo, che alla porta qualcuno si mise a bussare furiosamente. Immaginando che fosse Scipione, la Contessa aprì, senza badare al fatto di essere svestita, pensando che tanto già troppi uomini l'avevano vista a quel modo, per doversene preoccupare proprio in quel momento.

“Stanno prendendo le scale! Vogliono attraversare il fossato!” esclamò il ragazzo, che, in effetti, era così agitato che quasi non si era accorto che la Tigre fosse senza veli.

“Arrivo!” fece eco lei: “Sali sui camminamenti! Schiera la difesa! Arcieri e sassi!”

E poi, voltandosi verso Pirovano, che si era infilato brache e camicione, veloce come il vento, gli disse di aiutarla con la corazzina e con l'abito color leonino, da infilarvi sopra, che aveva sulla cassapanca. Non aveva il tempo di indossare un'armatura completa. Tanto valeva giocare sulla paura e sulla superstizione dei suoi nemici: si sarebbe presentata vestita da donna, ma con almeno il torace e il ventre protetti, anche se nessuno l'avrebbe notato.

“Non preoccuparti.” gli sussurrò, mentre l'uomo, celere e abile come mai si era dimostrato nel vestirla: “Andrà tutto bene.”

Pirovano, rosso in viso e con le dita che si muovevano sui lacci più in fretta di quanto la sua mente riuscisse a muoversi tra i pensieri, annuì e poi ribatté: “Però sali sul rivellino.”

Avevano discusso di quello che aveva proposto Scipione, poche ore prima. Caterina aveva ammesso che sul rivellino sarebbe stata più al sicuro, ma che non intendeva passare tutta la battaglia in seconda linea.

Per non fare questioni, sapendo che altrimenti il suo amante sarebbe stato anche capace di provare a trattenerla, la Contessa accettò: “Va bene, per ora vado sul rivellino. E tu coordinerai l'artiglieria del cortile.”

L'uomo era paralizzato dalla paura, non tanto per la responsabilità che gli era stata accordata, quanto perché avrebbe preferito poter restarle accanto.

Tuttavia, finendo di annodarle anche l'ultimo laccio, deglutì e promise: “Farò tutto quello che mi chiesi, fino alla fine.”

 
   
 
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