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Autore: Adeia Di Elferas    16/05/2020    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Le parole che il Borja aveva detto a tavolo, a palazzo Numai, avevano fatto in brevissimo tempo il giro di tutto l'esercito. I soldati, francesi, italiani, svizzeri e tedeschi avevano tutti inteso che il Duca era sicurissimo che la rocca sarebbe caduta e, man mano che la voce veniva tradotta in una lingua o nell'altra, si aggiungevano dettagli e particolari, fino ad arrivare all'iperbole che voleva Ravaldino praticamente già in mano del Valentino.

Quando Cesare arrivò nei pressi della rocca – stando a debita distanza, per non rischiare, nemmeno per sbaglio, di essere coinvolto direttamente nello scontro – si rese conto, però, che tutta l'euforia che aveva provocato, aveva causato anche una grandissima confusione.

I soldati, ben lungi dall'essere adeguatamente armati e compatti, si stavano accalcando sul bordo del fossato, che ancora non era stato riempito in modo sufficiente, e, chi armato di badile, chi brandendo addirittura una panchetta di legno, e – pochi – chi alzando la spada, stavano sbeffeggiando apertamente i loro avversari, accusandoli di essere dei codardi.

Alcuni fanti, notato il Duca nelle retrovie, lo raggiunsero, dicendogli che avevano deciso di dare l'assalto a Ravaldino, sospinti dalla sua sicurezza di vincere. Il Borja non voleva smontarli, non proprio in quel momento, il primo, forse, in cui l'esercito si era dimostrato benevolo nei suoi confronti.

Così, decidendo in fretta, nella speranza di dare una parvenza di ordine alla manovra, fece richiamare a sé un piccolo contingente di mori che facevano parte della sua scorta selezionata e ordinò loro di affiancare i fanti sulla riva del fossato.

“Uscite! Poltroni! Che fate nascosti?!” gridavano i mori del Duca: “Poltroni che non siete altro, uscite! Venite fuori!”

Una sentinella della torre della facciata centrale, vedendo dalla sua postazione avvinarsi un'orda di nemici molto più consistente del previsto, aveva mandato Scipione a cercare la Contessa, e poi, quando vide finalmente arrivare la donna, le si precipitò vicino, esclamando, a voce molto alta: “Su, su, cara Madonna! Col vostro grande ingegno, mettete in punta la vostra gente, che i nemici son venuti a darci battaglia!” e, detto ciò, si mise a correre come un animale impazzito, suonando le campanelle che portava al fianco proprio per dare il segnale di pericolo quando necessario: “Su, brigata! Sorgete brigate! E ponete gran cura! Che oggi, per noi, può esser il giorno della mala ventura!”

Caterina aveva assistito immobile a quella scena. Sapeva che, pur nella sua momentanea follia – di certo dettata dalla paura – la sentinella aveva ragione: dovevano organizzarsi, e in fretta, se volevano resistere all'impatto del nemico. Anche se aveva dubbi sul fatto che il fossato fosse già praticabile, non poteva escluderlo e quindi doveva schierare al meglio le sue difese.

Con uno sguardo ai suoi uomini, la Tigre seppe subito come muoversi. Il cielo era grigio, ma avevano ancora qualche ora di luce. Dovevano smorzare la spinta francese subito, sperando che il buio, poi, li facesse desistere.

“Tutta la fanteria con me, al varco! Lance pronte!” gridò, indicando il punto più aperto della rocca, il più vulnerabile in assoluto, dove, ormai, si intravedevano due ponticelli posticci messi a punto dai loro nemici: “Tu – si rivolse poi a Giovanni da Casale, a voce molto più bassa, mentre i soldati che aveva richiamato a sé si organizzavano – prendi la compagnia scelta e guidala assieme a Francesco Roverscio. Disponila in modo da impedire altri punti d'accesso. E poi lasciala a Roverscio e torna a comandare l'artiglieria.”

Il milanese sembrava come paralizzato. Aveva ascoltato le parole della sua amante, ma le aveva capite solo in parte. Le grida dei francesi, il rumore metallico dei loro uomini che si preparavano alla battaglia, e la voce della sua donna si erano mescolate in una confusa cacofonia che gli rimbombava ancora nelle orecchie.

La Sforza si accorse del suo smarrimento, ma volle deliberatamente fingere di non aver capito la sua difficoltà. Pirovano era giovane, ma aveva una scuola militare di tutto rispetto alle spalle. Alla sua età aveva già avuto impegni importanti e perfino Ludovico il Moro gli aveva concesso fiducia e aveva investito su di lui. Non poteva essere un incapace. Di certo, passato quell'attimo di paura, sarebbe tornato in sé.

“Non deludermi, ti prego.” disse, in un sussurro, Caterina, mettendo una mano sulla guancia ruvida del suo amante e poi dandogli un lungo bacio: “Ti prego.”

A quel punto, Giovanni annuì, la guardò negli occhi e, infilandosi l'elmo, promise: “Non ti deluderò.”

Con un cenno d'intesa, i due si divisero: la Contessa verso la fanteria che stava prendendo le lance e Pirovano verso Roverscio, per riferirgli gli ordini.

 

Cesare aveva organizzato un piccolo sistema di staffette, che gli permetteva di sapere con un'approssimazione di un quarto d'ora cosa stesse accadendo alla rocca. Aveva deciso di starsene ben lontano, per paura di essere coinvolto in uno scontro diretto, ma voleva essere a conoscenza di tutto quanto.

L'ultimo resoconto l'aveva spaventato e non poco. Il soldato che era corso a riferirgli le novità, gli aveva detto che la Leonessa era arrivata a prendere in mano la situazione e che aveva schierato la propria fanteria in modo esemplare, tanto da far vacillare l'intraprendenza dei francesi. Inoltre Giovanni da Casale, che appariva in modo chiaro come il suo secondo in comando, aveva sistemato dei piccoli contingenti di uomini in tutti i possibili spazi di approdo, in particolare sulla lingua di terra che divideva la rocca dal fossato.

“Non è una cosa così spaventosa...” aveva constato Tiberti, arrivato al riparo del Borja solo per bere un po' d'acqua, prima di tornare ai piedi di Ravaldino: “Messi lì così, quegli uomini sono praticamente inutili. Non possono nemmeno muoversi!”

Ben lontano dal sentirsi rassicurato, il Valentino aveva ascoltato la descrizione puntigliosa dell'artiglieria della Tigre. Anche se molte cose le sapeva già, vedersi illustrare tanta precisione e tanta logica strategica lo faceva sudare freddo.

Ciascun torrione, tanto per cominciare, aveva in cima dieci cannoni, di taglia sia grande che piccola. Nel cortile c'era ancora la batteria che era comparsa il giorno prima alla caduta del muro di cinta. Inoltre, appena sotto al rivellino che dava verso la montagna, era posizionata una passavolante enorme, capace da sola di difendere la porta principale e tutto il lato del fossato.

Proprio quella passavolante, avevano riferito al Borja, era quella che aveva ucciso il capo della loro artiglieria, quell'ingegnere tanto caro al re di Francia e per cui morte lui era stato così turpemente accusato di non essere capace di comandare un esercito in battaglia.

Dal lato che guardava il cesenate, poi, era stata messa un'altra passavolante,che difendeva tutto un fianco di rocca e che era a sua volta difeso da un piccolo avamposto di cannoni.

“Non fatevi intimidire.” aveva detto Achille, quando la staffetta se n'era andata di nuovo, per poter poi portare notizie fresche: “Tutta quell'artiglieria sarebbe la nostra fine, se solo fosse nelle mani giuste. Ma la Contessa ha dimostrato anche troppe volte di non ragionare con la testa, quando si parla di uomini, e finché mette alla guida di parte del suo esercito un uomo che è anche il suo amante...”

Cesare avrebbe tanto voluto dare ragione al cesenate e crogiolarsi nella speranza che la Sforza avesse delegato tutto a un idiota, ma conosceva la fama di Giovanni da Casale, era stato uno dei più splendenti protetti del Duca di Milano. Non poteva essere uno sprovveduto. Inoltre, se una donna come la Tigre gli aveva concesso una carica tanta importante...

“Ricordatevi del Barone Feo.” sogghignò Tiberti, finendo di bere e poi riprendendo la spada e infilandosi di nuovo l'elmo: “Quella donna è più cieca di una talpa, quando si tratta dei suoi favoriti...”

Il Valentino non disse altro e lasciò che Achille tornasse sui suoi passi in direzione di Ravaldino. Si morse l'unghia del pollice, scrutando il cielo grigio. C'era ancora chiaro, ma chissà per quanto... Era il momento di dare l'affondo finale, perché, se la notte fosse sopraggiunta prima che loro avessero guadagnato un vantaggio notevole, probabilmente i soldati francesi avrebbero smesso di combattere, troppo presi dalle loro superstizioni per capire che quella era la loro migliore occasione...

 

Caterina stava tenendo d'occhio con attenzione i movimenti lungo la sponda del fossato. I loro cannoni, comandati da Giovanni, erano tirchi e sparavano di rado, colpendo solo di quando in quando qualcuno dei nemici intenti a rafforzare i passaggi sull'acqua.

Tuttavia, lei non poteva interferire, in quel momento, perché stava coordinando già gli arcieri e teneva in formazione la fanteria.

Erano ore che tenevano sotto controllo la situazione, ma ormai gli uomini del Borja avevano reso il passaggio sul fossato anche troppo sicuro. E la Sforza non era l'unica a essersene resa conto.

Incuranti del rischio di essere fatti a pezzi da un colpo di colubrina, molti francesi stavano cercando di passare il fossato. Nel frattempo, gli artiglieri che badavano alla batteria dal lato della montagna, senza attendere ordini precisi dai generali, avevano ripreso a far fuoco, ma, in parte per l'eccitazione del momento e in parte proprio per la mancanza di coordinazione, molte palle non colpivano la rocca, ma la sorvolavano, andando a impattare solo oltre Ravaldino, sulle prime case di Forlì.

Nella foga di attaccare, i nemici provavano a passare anche sopra le fascine galleggianti, quelle che non avevano un reale appiglio, e, resi pesanti da tutto il ferro che avevano addosso, andavano in fretta a fondo e annegavano.

Questo però non li fece demordere, anzi, velocizzò i lavori e in breve Caterina vide i primi che riuscivano a spingersi oltre la metà del fossato senza andare a picco nelle acque scure. Quando si accorse che qualcuno stava raggiungendo la riva, e stava già dando battaglia ai difensori lì presenti, si fece venire un'idea.

Era impossibile pensare, a quel punto, di ricacciarli indietro con i cannoni. Ci voleva qualcosa di grandioso e spaventoso che, come sempre, facesse leva sia sulla reale potenza distruttiva dell'attacco, sia sulla paura, facile da accendere negli armigeri d'Oltralpe.

“Bernardino!” gridò la Leonessa, trovando non lontano da sé il castellano, che, in mezza armatura, cercava di richiamare a sé un manipolo di uomini andare a dar manforte a chi combatteva in primissima linea.

L'uomo si fermò di colpo: “Mia signora..!”

“Salite al torrione che dà verso Porta Cotogni – gli ordinò lei, in fretta, tenendo sempre sotto controllo con la coda dell'occhio l'avanzata nemica – e quando vedrete entrare da quel lato un buon numero di francesi, e non prima, dategli fuoco.”

Il cremonese schiuse la labbra, e poi, dopo una brevissima esitazione, scosse il capo: “Là c'è tutto il nostro salnitro, e il carbone, e il grano... Esploderà tutto quanto...”

“Esatto.” annuì lei: “E li travolgerà. Correte!”

Il castellano non ebbe la forza di ribattere, ma chiamò a sé un paio di soldati che conosceva bene e ordinò loro di seguirlo al torrione.

In parte rincuorata dalla celerità di Bernardino, la donna si rimise subito a dare indicazioni ai suoi e, facendoli spostare dai piedi del torrione che sarebbe andato a fuoco, li portò in un altro punto sensibile del perimetro, cominciando a ricacciare indietro quei pochi che riusciva a nuoto a oltrepassare quella parte di fossato. Era un compito semplice, perché si trattava perlopiù di ragazzini, senza corazze, e spesso armati solo di forconi o mazzette.

Caterina colpiva prima di tutti, spada da una mano e mezza ben in vista, e non si fermò nemmeno quando intese le parole di alcuni dei giovani che tentavano l'assalto in quel modo: si trattava per lo più di forlivesi, o, almeno, di Romagnoli. Tutti ragazzi che avevano forse cercato fortuna al seguito del Borja, o – e la Tigre preferiva non pensarlo nemmeno – che avevano semplicemente preferito il figlio del papa a lei.

 

Bernardino da Cremona era in cima alla torre, aveva fatto prendere una fiaccola a testa ai due che aveva portato con sé e poi ne aveva strappata dal muro una da usare personalmente. Teneva d'occhio dalla finestrella l'avanzare del nemico, ma era teso e non sapeva quando fosse il momento giusto per iniziare ad appiccare l'incendio.

Il salnitro e il carbone erano di certo i materiali più pericolosi, quindi era meglio, secondo lui, cominciare dando fuoco ai sacchi di grano. Aveva le mani che tremavano e la testa completamente vuota. Anche se era un condottiero con una certa esperienza, non si era mai trovato in una situazione simile. Inoltre, erano ormai mesi che svolgeva un lavoro da scrivania... Dover tornare in campo in modo tanto violento era molto più difficile di quanto avesse creduto.

Quando contò una ventina di nemici oltre al ponte di fascine e scale costruito dai francesi, decise che era tempo di agire. Forse era troppo presto, ma non riusciva ad attendere oltre. Diede voce ai due che lo seguivano e, rapidi ed efficienti, tutti e tre si misero ad appiccare l'incendio.

La scelta di partire dal grano, però, si rivelò subito sbagliata. Mentre Bernardino e gli altri correvano giù dalle scale per mettersi in salvo, il fuoco cominciò a dare un gran fumo, e, nel vederlo, molti uomini della Tigre si spaventarono e cominciarono a rompere i ranghi, creando confusione nelle fila. Qualcuno, poi, credendo che fossero stati i nemici a causare quelle fiamme, corse verso il torrione nel folle tentativo di spegnerle. Il risultato fu drammatico: i francesi, accortisi per tempo del fuoco, si tennero a debita distanza, mentre molti partigiani della Leonessa si trovarono nel punto sbagliato quando l'incendio raggiunse le scorte di carbone e salnitro e saltarono in aria.

Vedendo i forlivesi spaventati e disperati, gli uomini del Borja presero ancor più coraggio: “Su, fratelli cari!” gridavano certi: “Entriamo in questa rocca, perché loro l'hanno abbandonata: che oggi sarà il tempo per noi della gran vittoria, di cui rimarrà perpetua memoria!”

Il rombo delle esplosioni, piccole, ma ripetute, delle polveri, le grida dei nemici, l'impattare delle armi e il caos che regnava ovunque stavano togliendo lucidità anche alla Contessa. Aveva capito che qualcosa non aveva funzionato al torrione, ed era certa che si fosse trattato di una questione di tempistica, ma non aveva tempo di pensarci.

Tenere a bada quelli che oltrepassavano il fossato stava diventando sempre più difficile. Erano tanti, troppi, e anche se arrivavano alla spicciolata perché il passaggio era stretto, tener loro testa la stava stremando.

Il suo unico vantaggio era non indossare né elmo né armatura. Anche se portare solo una corazzina sotto l'abito color leonino che portava la rendeva molto vulnerabile, il vederla in mezzo alla battaglia senza paura, con i capelli lunghi e sciolti, vestita da donna e senza nemmeno lo scudo, stava spaventando molti suoi avversari che, arrivandole a tiro di spada, indugiavano quell'attimo di troppo che li portava a finire nel fossato con la gola tagliata o il ventre squarciato.

C'era una cosa che la Tigre non capiva, man mano che infilzava i nemici e schivava i loro colpi: alle sue spalle c'era una batteria di cannoni non indifferente. Sarebbe stato il momento di usarli. Se solo Pirovano avesse dato ordine di colpire, avrebbe spazzato via in fretta molti nemici... Certo, lei e gli altri che l'affiancavano, tra cui i suoi tre fratelli, Scipione e Paolo Riario, sarebbero stati uccisi a loro volta, ma almeno si sarebbe dato un danno notevole al Borja...

 

Giovanni da Casale vedeva benissimo la situazione, dal suo punto d'osservazione, sulla torre maestra in cui si era appollaiato. Era un punto riparato, quasi del tutto fuori dal tiro di fuoco nemico, ma non l'aveva scelto per quello: aveva perso di vista Caterina da un po' e voleva ritrovarla.

Quando l'aveva vista, però, aveva sentito il cuore sprofondare. Era in mezzo ai nemici, quasi da sola, e correrle in soccorso sarebbe stato quasi impossibile.

Da lì il milanese poteva scorgere alla perfezione la linea di tiro ottima dei loro cannoni. Qualche colpo e avrebbero fatto strage dei francesi che stavano passando il corridoio di fascine creatosi sul fossato, ma facendo fuoco avrebbero ucciso anche la Sforza e lui non poteva permetterlo.

Nella torre in cui si trovava c'era una piccola dispensa di polvere da sparo già pronta. Aveva pensato a come usarla, ma non gli era venuto in mente nulla di veramente utile.

Aveva le gambe come fatte di marmo. Appena pensava di tornare di sotto, i suoi piedi si incollavano di più al pavimento di cotto. Voleva restare lì e vedere cosa succedeva alla sua donna.

Era come uno spettacolo magnetico, a cui nemmeno la paura per la propria vita riusciva a togliere importanza. Tutto era incentrato su di lei. Ogni volta che un nemico la sfiorava, Pirovano sentiva il fiato mancargli. Ogni volta che lei uccideva un nuovo, un brivido di tripudio lo investiva. Così, per il momento, capì che non si sarebbe mosso da lì.

 

Un soldato francese era riuscito, passato il fossato, a inerpicarsi fino al rivellino che dava sulla montagna. Dopo pochi minuti, dietro di lui ve n'erano altre sedici, che avevano seguito esattamente i suoi passi.

Da lì, passando veloci e furtivi sui camminamenti, arrivarono fino alla torre centrale, che dava sulla città. Giovanni da Casale si accorse di loro, ma si nascose. Aveva capito che erano in troppi e si era reso conto di non poter far nulla. Così, accucciato dietro i sacchi di polvere da sparo, aveva aspettato. Quando ne aveva visto uno, che portava con sé una scaletta, ingegnarsi per salire sui tetti, era rimasto attonito, ma anche in quel caso non aveva mosso un dito.

Il soldato in questione era uno svizzero, chiamato Cupizer. Era partito all'assalto della rocca con un compito ben preciso in testa. Erano giorni che la bandiera della Sforza lo tormentava. Detestava i serpenti, e non vedeva loro di abbattere quel maledetto stendardo che portava la vipera viscontea dipinta sopra.

Così, armato di scala, aveva raggiunto il tetto della torre principale, in cima al quale garriva la bandiera. Arrivatole vicino, l'abbatté con un colpo di spada e poi la sollevò, sventolandola.

Si voltò verso l'esterno, verso i suoi commilitoni, e gridò in italiano, per farsi capire da più gente possibile: “Venite! Venite! Che noi siamo vittoriosi! Vedete lo stendardo dei nemici!” e detto ciò, lo lanciò via.

Giovanni da Casale, dal suo nascondiglio, aveva sentito tutto. Aveva anche sentito dei passi sulle scale che portavano fino lì, e aveva subito pensato che fossero altri soldati borgiani pronti a prendere possesso della torre.

Così, con un salto improvviso, cogliendo alla sprovvista la dozzina di uomini che stavano ancora nelle vicinanze, arrivò alla torcia a muro, la strappò dal suo appiglio e la lanciò sui sacchi di polvere da sparo, fiondandosi, più veloce di un fulmine, verso la scaletta di servizio che portava giù molto più rapidamente di quella ordinaria.

Come inseguito dalla roboante esplosione che aveva causato lui stesso, Pirovano ruzzolò per gli ultimi ripidissimi gradini, ma riuscì a rialzarsi in fretta. Convinto di aver fatto tutto sommato un buon servizio, non si rese conto che gli uomini che aveva sentito arrivare erano suoi alleati, accorsi per uccidere Cupizer e morti così per colpa del fuoco amico.

Mentre le fiamme salivano alte, assieme a una colonna di fumo mostruosa che sembrava toccare il cielo, Giovanni non pensò minimamente a nulla, nemmeno a cercare ancora la sua amante. Tutto era confusione, tutto era sangue, tutto era paura.

 
   
 
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