2.
San
Josè –
Luglio 2022
Il profumo di salvia
pervadeva l’intera stanza in cui Alekos si trovava e, quando
nonna Anita mise
nel braciere già fumante anche dei rametti secchi di
lavanda, l’aroma divenne
più forte, più aromatico e avvolgente.
Il primo tentativo di
mettersi in contatto con Astrea era stato fallimentare per
più di un motivo.
Pur se Alekos era riuscito a penetrare nel suo sogno –
rimanendo sconvolto
dalle terribili immagini di Nagasaki, distrutta da Fat
Man – il giovane non era riuscito a scorgere Astrea
in quel
mare di fuoco.
Nell’uscire
dall’ambiente onirico, inoltre, aveva riportato diverse
abrasioni e scottature,
in gran parte causate dagli incendi perpetrati dalla bomba e che, nel
sogno di
Astrea, divenivano reali. Esculapio aveva dovuto curarlo sotto gli
occhi
turbati di Anita che, per tutta la durata del sonno indotto del nipote,
aveva
scorto con i suoi occhi le ripercussioni di quella prima missione.
Di comune accordo con
Athena ed Érebos, Alekos aveva quindi deciso di approcciare
il suo nuovo
compito in maniera leggermente diversa, affrontando il problema con un
occhio
del tutto nuovo. Quello umano e, nello specifico, quello di Anita.
Astrea aveva avuto a che
fare per decenni con persone del suo stesso pantheon, finendo con
l’abituarsi
alle loro presenze e al loro spettro energetico di origine divina.
Forse,
avvicinarsi a lei in modo diverso l’avrebbe spiazzata,
mettendo Alekos maggiormente
al sicuro dalle ripercussioni di quel mondo onirico così
pericoloso.
Era possibile che,
appoggiandosi a un credo differente, questo l’avrebbe aiutato
a sfiorare la sua
mente in modo tale da non irritarla, o spaventarla. Dopotutto, lui era
stato
battezzato – una volta uscito dall’Oltretomba, sua
madre aveva accondisceso per
rendere felice Anita – perciò aveva su di
sé anche il marchio di un altro dio.
Dio che, nella stanza in
cui sua nonna lo aveva condotto, era presente in modo chiaro e forte.
Quella stanza, ricavata
nella piccola dependance che i coniugi Rodriguez avevano nella loro
proprietà, solitamente
ospitava i numerosi parenti in visita. In quel frangente,
però, sarebbe servito
come punto di partenza per il suo viaggio onirico nel mondo di Astrea.
Curiosando con lo
sguardo, Alekos intravide la figura della Vergine di Guadalupe,
poggiata su un
altarino al pari di diversi fiori freschi, alcuni ceri al profumo di
limone e a
un piccolo crocifisso in legno e avorio.
Le pareti, in stucco
veneziano color salmone, sembravano emanare calore e senso di
protezione, forse
anche grazie ai raggi di luce solare che penetravano dalle ampie
finestre che
si aprivano sulla stanza.
«Non avevo mai visto
questa parte della dependance, prima d’ora»
dichiarò Alekos, incuriosito da
quel luogo così mistico e, al tempo stesso, così
semplice.
Anita gli sorrise con
aria vagamente ironica, replicando: «Capirai bene che, con un
parentado come il
nostro, questa stanza avrebbe potuto apparire… assurda. E’ per questo che, di
solito, ci vengo solo io durante il día
de los muertos.»
Alekos sorrise
comprensivo, ammettendo senza remore che avere per parenti una buona
parte del
pantheon greco, poteva creare qualche problema a livello di fede
personale.
«Se continui a
prendertene cura, però, significa che qui trovi ancora
sollievo e serenità»
dichiarò il giovane, sfiorando con mano leggera un teschio
di cristallo molato
della grandezza di una mela.
Annuendo, Anita tirò le
tende di batista per attenuare la luce presente nella stanza e,
indicandogli un
materassino steso sul pavimento di legno, ammise: «Posso
credere nella divinità
di tua madre e, al tempo stesso, pregare per il mio dio. Una cosa non
esclude
l’altra. Come voi stessi mi avete detto più volte,
il pantheon greco non è
l’unico presente su questo mondo.»
Nell’accomodarsi sul
materassino, Alekos annuì tra sé. Sapeva della
presenza di altre divinità
appartenenti a pantheon diversi dal suo, perciò comprendeva
appieno le parole
di sua nonna. In un paio di occasioni, inoltre, aveva anche avuto modo
di
parlare con un esemplare appartenente a diversi pantheon, grazie alla
sua
peculiare unicità1.
Se esistevano loro,
potevano tranquillamente esistere anche gli altri. Dipendeva soltanto
dalla volontà
della singola divinità, rendersi o meno visibile agli esseri
umani.
Personalmente, non si
era mai posto il problema relativo alla fede, né aveva mai
pensato
approfonditamente ai vari Credi religiosi terrestri. Avendo una
famiglia come
la sua, il limite era solo l’universo, perciò non
faticava a credere
nell’immateriale.
Se si aveva la forza
sufficiente per aver fiducia al proprio dogma, non importava il
pantheon a cui
si faceva affidamento.
Sdraiatosi lentamente
sul materassino mentre i profumi della stanza contribuivano a
rilassarne le
membra, Alekos mormorò: «Io credo in te, nonna. Su
questo non ci piove.»
Anita sorrise al nipote
e, nell’inginocchiarsi accanto a lui, dipinse due croci sulle
sue mani con un
impasto di verbena e salvia, asserendo: «Protegge dagli
influssi maligni. Visti
i precedenti…»
Alekos sorrise nel
chiudere gli occhi e, con un sospiro, disse: «Io
vado.»
La donna gli carezzò la
fronte e, nel sistemargli alcune ciocche dei lunghi capelli,
sussurrò: «Ormai
devi tagliarli un po’, o comincerai ad assomigliare a Jared
Leto.»
Il giovane scoppiò a
ridere, tornando in sé per esalare divertito:
«Nonna! Come faccio a
concentrarmi se tu mi dici una cosa del genere?!»
Lei rise a sua volta,
gli diede una pacca sulla spalla con la promessa di rimanere in
silenzio ma,
con una strizzatina d’occhio, sussurrò:
«Però ho ragione.»
Alekos lasciò perdere,
ridacchiando nel rimettersi disteso e, con un profondo sospiro,
tornò a
concentrarsi sulla propria mente e sul modo più veloce per
distaccarsi dal
proprio corpo.
Nel farlo, i ricordi lo
riportarono come sempre a quei giorni passati nel ventre di Chaos e,
pur
sapendo che un evento simile non si sarebbe più ripetuto,
interiormente
rabbrividì.
Aveva rischiato
l’annientamento suo e di Érebos, a causa della sua
parte divina e, pur se ora
ne aveva il pieno controllo, era difficile cancellare la paura provata
al
pensiero di aver fatto del male al proprio patrigno.
Ugualmente, non doveva
lasciarsi andare a quei pensieri luttuosi o alla paura, ma concentrarsi
unicamente sul suo compito.
“Non
allarmarti, se ogni tanto pensi a Mister Sbruffone. Lo tengo a bada io,
se ti
fa paura”
intervenne a sorpresa Eris, comparendo accanto a lui nel suo personale
spettro
mentale.
La condivisione di un
unico filo le permetteva intrusioni simili e Alekos, non poche volte,
l’aveva
cercata col pensiero per essere certo che tutto andasse bene, per lei.
Vederla proprio in quel
momento, quando per un istante aveva ceduto al dubbio, gli
ridonò sicurezza ed
Eris, dandogli un pizzicotto sul naso, aggiunse: “Sai
benissimo che non si potrà più ripetere quel
casino, perciò
occupati di questa missione e non pensare ad altro.
Io…”
Interrompendosi, Eris
sbuffò contrariata e borbottò: “Me
ne
vado… devo pensare a uno scocciatore.”
Ciò detto,
svanì dal suo
spettro mentale mentre Alekos, estendendosi verso l’alto alla
ricerca di
Astrea, ghignò divertito, immaginando senza problemi chi
fosse lo scocciatore di Eris.
***
Il vento la sferzava con
il suo calore malsano, strappandole gli abiti di dosso e riducendo la
sua pelle
a una superficie raggrinzita e piagata, ricoperta di sangue purulento e
impuro.
Arrancando alla ricerca
di un riparo, Astrea venne più volte scacciata da persone
indignate e ferite,
che la additavano come la causa prima di quello sfacelo.
Ormai non ricordava
neppure più quante volte avesse ascoltato quelle parole
cariche di fiele,
eppure ancora non aveva trovato il modo per scusarsi con ognuna delle
persone a
cui aveva cagionato dolore.
Era davvero una ben
misera dea, e non meritava neppure l’amore e la compassione
che i suoi genitori
o Esculapio volevano condividere con lei.
Persino Érebos il sommo
e i suoi figli si erano scomodati per lei, per la miserevole dea quale
era, e
anche per questo si era sentita immonda e immeritevole.
Il suo scopo nella vita
sarebbe stato sempre e solo il dolore, come giusta punizione per non
aver
saputo guidare gli uomini e le loro deboli menti.
Se Giustizia non
riusciva a portare a termine il proprio compito, quale altra ammenda da
pagare poteva
esservi, per lei, se non il rimpianto eterno?
Un soldato nipponico la
scacciò di colpo, puntandole contro un fucile a baionetta e
strappandola così
ai suoi lugubri pensieri. Subito, Astrea si allontanò, non
riuscendo ancora una
volta a entrare nel campo di raccolta dei feriti.
Le era preclusa anche
quella piccola concessione. Non poteva aiutare i feriti in alcun modo,
poteva
solo scorgerli da lontano e piangere per loro.
Arrancando lungo una
salita che conduceva alle colline, raggiunse infine la pianta ove era
solita
sedersi per osservare lo scempio compiuto dalla sua inettitudine.
Da quel colle solitario,
la baia di Hiroshima si scorgeva senza problemi e, da quella posizione
privilegiata, lei poteva piangere e disperarsi, lasciando che il
dolente pianto
della terra martoriata penetrasse in lei.
Quel giorno, però, non
trovò solo una pianta, ad attenderla, ma un giovane.
Appariva di
bell’aspetto, lindo e pulito e dal viso solcato da un sorriso
tenue, quasi non
fosse sicuro di se stesso o delle proprie azioni.
Non lo conosceva, ma
sapeva trattarsi di una creatura di origine divina. Nessun altro poteva
attraversare il passaggio lasciato aperto da Hypnos tanti decenni
addietro.
Interrompendo il suo
incedere arrancante, Astrea mormorò roca: «Ti
chiedo requie, viandante dei
sogni. Non desidero parlare con te, né approcciarmi a te per
ricevere una tua
personale morale sul mio modo di vivere.»
Il giovane non le
rispose, sedendosi a terra a gambe raccolte contro il torace e, col
mento
poggiato sulle braccia intrecciate, disse soltanto: «Il mare
brilla ancora.»
Astrea si volse a mezzo,
osservando quella distesa scintillante e pacifica che si estendeva in
lontananza. Sì, le sue acque non recavano segno alcuno della
distruzione
perpetrata dall’uomo, né davano l’idea
di racchiudere i sé i primi morti
nucleari della storia.
Esso era immoto,
tranquillo, baciato da un sole inclemente che non teneva conto
dell’arsura
provocata sulle ustioni purulente, o sulla pelle scarnificata dal fuoco
e dalla
radioattività.
Sì, il mare brillava
ancora, ma era solo un’effimera pantomima di un mondo che non
era più lo
stesso, né mai lo sarebbe stato.
Terminata la sua salita
con passo stanco e piedi piagati dalle pietre del sentiero, Astrea
ristette
dinanzi al giovane e, accigliandosi, disse nuovamente: «Non
desidero parlare
con te.»
«Va bene»
mormorò il
giovane, poggiando la schiena contro la pianta sotto cui si trovava, e
che
estendeva la sua ombra ben oltre le loro figure.
Adombrandosi
ulteriormente, Astrea borbottò con tono più
fermo: «E’ la mia pianta.»
Il giovane la squadrò
con un solo occhio – l’altro era chiuso, il corpo
rilassato in una posa di
totale tranquillità – e replicò:
«La mia prozia non sarebbe d’accordo.»
«Prozia?
Che intendi dire?» esalò Astrea, ora fissandolo
con aria
confusa.
Alekos continuò a
fingere disinteresse, anche se era ansioso che lei si accomodasse
accanto a lui
e non fuggisse dal suo tentativo di approccio.
Nonna Anita, però, era
stata chiara. Per avvicinare una creatura inselvatichita come Astrea,
doveva
agire con cautela e non spingerla a tutti i costi a parlare.
Proprio per questo,
nelle sue ultime incursioni, ne aveva solo studiato i movimenti,
venendo così a
scoprire quel luogo segreto in cui si rifugiava per sfuggire al dolore.
Il fatto che ogni tanto
volesse discostarsi da quel mare di fuoco e morte era stato, per
Alekos, un
chiaro segno di speranza. Nonostante la decisione di soffrire per
coloro che
erano morti, anche Astrea aveva bisogno di rifuggire
quell’ansia perenne,
almeno per alcuni istanti.
Dopotutto, non
voleva stare lì. Forse, più
semplicemente, non sapeva più come fermare quel processo.
L’aria aggrottata di
Astrea,
così come il suo sbuffo irritato, lo riportarono al
presente. Era chiaro
quanto, in quel momento, avrebbe voluto gettarlo fuori dal suo sogno,
pur non
potendo.
Il condotto di Hypnos
impediva il pieno controllo di Astrea su quel mondo, permettendo ai
viandanti
onirici come Alekos di andare e venire a loro piacimento. Questo, di
certo, non
significava che potessero variare qualcosa di quel regno; in questo,
Astrea
aveva ancora potere assoluto.
Il fatto di non poter
essere tagliati fuori, comunque, era già un buon risultato.
Levando il viso a
scrutarla, Alekos notò come la fronte della dea fosse
solcata da profonde rughe
d’ansietà. Rughe che, andando a incidere una pelle
già piagata e debole, formarono
sottili ulcerazioni rossastre e pronte a sanguinare.
Alekos se ne spiacque,
ma non demorse. Ristette immobile e sorridente a guardarla, pronto a
restare in
silenzio anche per ore, pur di metterla a proprio agio.
Astrea, allora,
bofonchiò
nervosa: «Se ti manda mia madre, puoi dirle che le voglio
bene, ma che non
intendo interrompere ciò che sto facendo.»
«Non credo che tua madre
mi vedrebbe volentieri. Pensò di uccidere mio zio, qualche
anno fa e, per poco,
non si arrivò a uno scontro tra lei e mia zia»
gettò lì casualmente Alekos,
chiudendo entrambi gli occhi e intrecciando le braccia dietro la nuca,
mentre
le lunghe gambe si stendevano sul terreno secco.
«Come?!»
esclamò a quel
punto Astrea, facendo tanto d’occhi.
Gettandosi in ginocchio
accanto ad Alekos quando quest’ultimo non diede adito di
voler concederle
ulteriori spiegazioni in merito, la dea proseguì dicendo:
«Spiegati meglio!
Cosa fece, mia madre?!»
Grattandosi pensosamente
una guancia, l’aria del tutto rilassata e per nulla in ansia
– pur se dentro di
sé fremeva d’impazienza – Alekos
aggiunse: «Volle prendersi una vendetta nei
confronti di mia zia Artemide, così pensò di
ferirla uccidendo il suo attuale
marito… mio zio, per l’appunto. Ma non lo fece,
alla fine, se questo può consolarti.»
Portandosi le mani
screpolate alle labbra per soffocare un grido inorridito, Astrea
esalò
sconfortata: «Ma perché tutto questo?!»
«Per via di Orione. La
sai, no, la storia?» chiosò Alekos guardandola con
aria serafica.
Astrea a quel punto
tornò ad accigliarsi, si sistemò meglio accanto
ad Alekos e borbottò: «Senti un
po’, tu… chi saresti, per vantare tutte queste
parentele così altisonanti?!»
«Sono Alekos, figlio di
Athena. E tu?» disse con semplicità il giovane.
«Sai benissimo
chi sono, o non saresti qui!»
sbottò Astrea, già pronta a rialzarsi per
andarsene.
«Mia madre mi ha
insegnato a presentarmi sempre e comunque,
con le persone che non conosco, e mia nonna si infurierebbe molto, se
non lo
facessi nel modo più corretto possibile»
sottolineò Alekos con tono
assolutamente sereno.
«Tua… nonna? Athena non ha genitori, a parte
Zeus!» sbottò Astrea. «E anche lui, a
dir la verità, è stato ben poco presente,
per lei, durante la sua crescita.»
«Parlo della madre di
mio padre. Anita. E’ un’umana»
precisò a quel punto Alekos, sorprendendola.
«Athena… e un mortale?» esalò
Astrea, bloccando
la propria fuga per tornare a sedersi e conoscere altro. «Ma
non è possibile!»
«Se vuoi, puoi
assaggiare il mio sangue. Funziona meglio di qualsiasi carta
d’identità» chiosò
Alekos, facendo spallucce.
Astrea si accigliò, a
quell’accenno e, indicando dabbasso verso la città
in fiamme, borbottò: «Ho
visto fin troppo sangue, per i miei gusti. Sei pregato di non parlarne
con
tanta superficialità.»
«Non intendevo mancarti
di rispetto, ma so che è l’unico modo per essere
riconosciuto da un’altra
divinità» ci tenne a dire Alekos, tentato di
afferrarle una mano perché non
fuggisse.
Si trattenne solo a
stento dal toccarla, pur se desiderava essere certo che non scappasse
alla
prima parola travisata e, con tono dolente, aggiunse: «Non
era mia intenzione
ferirti. Volevo solo presentarmi. Ma forse ho sbagliato.»
Astrea allora sospirò,
si
sistemò meglio a terra e domandò:
«Quanti anni hai, Alekos?»
«Ventidue. Passai i miei
primi anni di vita nell’Oltretomba finché mia
madre non mi liberò, grazie ai
buoni consigli di Érebos, conducendomi sulla
Terra» le spiegò lui,
sorprendendola ulteriormente.
Sbattendo le palpebre
con aria confusa, Astrea esalò: «Ma… se
eri morto, come hai potuto…?»
«E’ una storia
piuttosto
lunga e complicata. Se hai tempo, te la
racconterò» disse a quel punto Alekos,
lappandosi nervosamente le labbra in attesa di una sua risposta.
«Non ho dove altro
andare» sbuffò Astrea, e al giovane spiacque che
la dea la pensasse a quel
modo.
Davvero credeva che il
mondo non la rivolesse più? Che quel luogo di dolore potesse
– e dovesse –
essere la sua unica casa?
Cercando di non mettere
a parole il proprio sconforto, Alekos iniziò quindi col
dire: «Mio padre amava
il mare e il surf. Conobbe mia madre in un parco acquatico nei pressi
di Los
Angeles.»
«Sapevo che Athena aveva
lasciato l’Olimpo, ma non pensavo che volesse accoppiarsi con
gli umani…»
dichiarò con una certa acredine Astrea prima di rendersi
conto della propria
indelicatezza.
Alekos, però, non diede
adito di essersi offeso e la dea, ora spiacente, mormorò:
«Intendevo dire che
non sapevo che Athena desiderasse concepire un figlio. Si è
sempre tenuta a
distanza dalla maternità. Immaginavo che il suo
allontanamento dall’Olimpo
fosse dipeso da un litigio con Zeus, non dal suo desiderio di
maternità.»
Il giovane scrollò le
spalle e replicò: «Non ti so dire da cosa dipese.
Non ne parlo mai, con mamma,
e neppure con il nonno. Del suo passato sulla Terra so soltanto che
vagò senza
meta per molto tempo, visitò un sacco di posti e conobbe
molte persone, ma fu
con mio padre che decise di vivere come una donna, e non come una
dea.»
«Immagino si
addolorò
molto per la tua morte…» ipotizzò
Astrea.
Alekos storse appena il
naso e asserì: «Morimmo lo stesso giorno. Lui, in
mare, e io nel ventre di
mamma.»
Astrea sgranò gli occhi
per la sorpresa, a quella notizia e, sempre più contrita,
esalò: «Oh… non
sapevo che tu…»
Lui scrollò le spalle,
limitandosi a dire: «Mamma ebbe una crisi, quando seppe della
sorte di mio
padre. All’epoca era sola, non aveva più contatti
con la sua famiglia, perciò
Demetra non poté aiutarla con me e Thanatos giunse subito,
al richiamo del filo
della mia vita che si spezzava. Fu a quel punto che intervenne
Érebos.»
Sbattendo le palpebre
con aria ora totalmente sconcertata, Astrea mormorò turbata:
«Il… il Sommo
Érebos intervenne per aiutare
Athena… e te? Per quale motivo tentò di bloccare
l’agire del figlio?»
Alekos sorrise in
risposta, mormorando: «E’ il mio secondo padre da
quel giorno. Amava da molto
tempo mia madre e, quando Thanatos gli disse quello che stava
succedendo - e
ciò che lui avrebbe dovuto fare - intervenne per salvare il
salvabile. Il
tutto, però, richiese diverso tempo, tempo che Thanatos
impiegò per portarmi
nell’Oltretomba come era suo compito. A giochi fatti, io ero
vivo, legato
all’anima di mia madre, ma non assieme a lei.»
Basita, Astrea esalò:
«Un
battesimo alla vita davvero incredibile. Mi spiace, comunque, che tuo
padre non
abbia potuto conoscerti.»
«Oh, ma lui mi
conobbe»
dichiarò lui, sorprendendola ulteriormente. «La
sua anima rimase aggrappata ai
ricordi e divenne senziente, perciò potei conoscerlo nel
regno di Ade, e lui
poté conoscere me. Impiegò diverso tempo prima di
comprendere che ero suo
figlio, ma alla fine potemmo stare insieme per un po’. In
quei primi anni, mia
madre venne tenuta all’oscuro del mio reale destino
– nessuno osò avvicinarla,
perché stava soffrendo moltissimo –
così, a turno, tutti gli dèi si presero
cura di me, finché il prozio Poseidone non decise di dirle
la verità.»
«Immagino che per tua
madre debba essere stato davvero straziante… soprattutto se
si considera il
rapporto assai conflittuale che esiste tra Athena e
Poseidone» convenne Astrea,
ascoltando rapita il racconto del giovane.
Alekos annuì e ammise:
«Érebos non volle dirle nulla perché
riteneva di non essere riuscito a compiere
un gesto risolutivo. Si sentiva così in colpa nei suoi
confronti! Gli altri
dèi, invece, avevano paura delle sue reazioni.»
A quell’accenno, Astrea
asserì con un certo divertimento: «Dalla dea della
guerra, puoi aspettarti di
tutto.»
«Già»
ammiccò complice Alekos.
«Comunque, Érebos passò quei miei primi
anni nel regno di Ade immerso nello
studio, sicuro di poter trovare il modo di liberarmi
dall’Oltretomba. Poseidone,
nel frattempo, decise di spezzare il silenzio che circondava mia madre,
conscio
che altrimenti sarebbe incorsa in un pericolo più grande del
dolore.»
«L’autodistruzione»
annuì recisamente Astrea. «Beh, se sei qui per
questo, posso rassicurarti fin
d’ora. Io non mi autodistruggerò di
sicuro.»
«Oh, ne sono consapevole,
altrimenti non avresti vissuto qui per così tanti
decenni» dichiarò lui,
sorprendendola un poco. «Ma sei l’unica che non ho
mai conosciuto, e così ho
pensato di venire, visto che era l’unico modo per
vederti.»
«In che senso,
scusa?»
borbottò Astrea.
«Semplice. Io desidero
conoscere tutti i membri del Pantheon greco perché sono
parte della mia
famiglia, e tu restavi l’ultima della lista. Ho conosciuto
anche Chaos, e
onestamente è stato più semplice che incontrare
te» sottolineò Alekos,
sorprendendola non poco.
«Chaos?
Ma… sei certo di quel che dici? O mi stai prendendo in
giro?» esalò la dea, fissandolo con aria confusa.
«Vesto semplicemente la
verità con l’abito che più le si addice2.
Dovresti prendermi in
parola quando dico; ho davvero conosciuto Chaos»
motteggiò Alekos, vedendola
accigliarsi per diretta conseguenza.
Il giovane allora
ridacchiò, si scusò con la dea e
replicò a mo’ di spiegazione: «Scusa.
E’ la
battuta di un’Anime giapponese che ho visto in Italia qualche
anno addietro,
con il doppiaggio in italiano. Mi sembrava che si addicesse al
momento.»
«Un… Anime? Parli in modo davvero
strano»
storse il naso Astrea.
«Si tratta di un cartone
animato. Come quelli di Walt Disney, che immagino avrai conosciuto, a
suo
tempo, ma questo in particolare parla di dèi e di
cavalieri… anche se forse
rimarresti sconvolta da alcune trasposizioni fatte. Mia madre
è la dea che
guida i giusti cavalieri di bronzo in ogni battaglia, per
esempio» le spiegò
Alekos, con un sorriso sempre presente in volto.
«D’accordo, ora
mi stai
prendendo davvero in giro! Tua
madre
in un cartone animato?» gracchiò Astrea,
incredula. Gli occhi azzurro cielo
erano sgranati e pieni di meraviglia frammista e incomprensione.
Alekos, allora, scoppiò
in un’allegra risata e replicò: «Non le
hanno chiesto di certo il permesso!
Hanno inserito un personaggio come guida spirituale di questi
cavalieri, e
hanno deciso che dovesse trattarsi di Athena.»
«E tua madre come
l’ha
presa, quando l’ha saputo?» si interessò
a quel punto Astrea, levando un
sopracciglio con interesse.
«Ha una sua action figure in camera da
letto» ammise
Alekos, prima di spiegarsi meglio. «Una raffigurazione, una
sorta di statuina.
Gliela regalò zio Hermes alcuni anni addietro.»
Astrea si passò le mani
sul volto, chiaramente frastornata da quel mare di novità,
ed esalò: «Sento
che non mi stai mentendo, ma è
tutto così assurdo!»
«Beh, in effetti, fin
qui la mia vita è stata davvero assurda» ammise il
giovane, volgendo lo sguardo
quando avvertì una presenza estranea nei pressi
dell’altura.
A sua volta, Astrea si
accigliò e, nel levarsi in piedi, borbottò:
«Arrivederci, Alekos.»
Ciò detto,
svanì in un
baluginio argentato e, mentre Alekos si levava in piedi per accogliere
l’arrivo
di Eos, sospirò spiacente e anche vagamente irritato. Era un
vero peccato che
non fosse rimasta, me era già qualcosa che non lo avesse
cacciato a male parole
alla sola vista.
Di sicuro, però, avrebbe
preferito che Eos non si fosse intromessa così, vanificando
a quel modo ogni
suo sforzo.
Quando la dea
dell’aurora infine giunse accanto a lui, sospirò
frustrata e disse: «Lo fa
sempre. Quando sente la mia presenza, fugge.»
«Teme una tua
reprimenda» le confidò Alekos.
«Non dovrei forse
fargliela?» mormorò afflitta la dea, indicando con
un ampio gesto del capo
tutto ciò che li circondava.
Alekos non faticò a
comprendere le parole di Eos. Quel luogo di desolazione e morte non
poteva
certo essere un buon posto in cui vivere, ma gettarlo in faccia ad
Astrea non
era la soluzione ideale per avvicinarla.
«Piuttosto, …tu e lei di cosa parlavate?» si
informò
Eos, curiosa.
«Dell’action figure che Hermes
regalò a mia
madre» dichiarò Alekos, sorprendendola non poco.
«Che cosa?
Parlavate… di
un giocattolo?» gracchiò la dea, incredula. In
questo, madre e figlia si
somigliavano molto. Avevano lo stesso modo di far rizzare le
sopracciglia
bionde.
Addolcendo lo sguardo,
Alekos le sfiorò un braccio con una carezza e aggiunse:
«So di chiederti molto,
Eos, ma ascolta ciò che ho da dire. Astrea non
accetterà mai di tornare, se tu
o Astreo la assillerete con le vostre richieste. Deve desiderare
di tornare senza essere spinta a farlo.»
«E lo farà
ascoltando
storie di pupazzetti?» lo denigrò Eos, irritandosi
immediatamente.
Imperturbabile ai
capricci del carattere di Eos, Alekos replicò:
«Ascolterà la mia storia. Vedrà
che qualcun altro si è perso ed è tornato a
riemergere dal buio in cui era
caduto. Non ha bisogno di sapere cose che già sa, e
cioè che l’eternità ha
molto da offrirle, e che voi la amate, ma deve scoprire cose che non
sa, e di
me non sa nulla.»
«Pensi che
basterà?»
borbottò dubbiosa la dea.
«Non ho risposte in tal
senso, e mio fratello Moros non è stato molto generoso,
quanto a predizioni»
ammiccò divertito Alekos. «Ho interpellato anche
lui, ma mi ha soltanto detto
di comprarmi della crema solare. Non molto utile, in effetti.»
Sbuffando, Eos borbottò:
«Quel ragazzo è davvero insopportabile, quando ci
si mette.»
«Porta avanti il suo
compito, esattamente come io intendo fare con questo. Ho deciso di
aiutare
Astrea e a ciò mi atterrò, ma ti
chiedo… non tornare, se desideri soltanto
assillare tua figlia. Non otterrai nulla, così.»
«Tse… avere il
filato di
Eris ti ha fatto diventare più irrispettoso, a quanto
pare» brontolò Eos,
scuotendo irritata il capo.
«Io sono orgoglioso
di condividere il suo filato,
e ciò che tu vedi come mancanza di rispetto, è
solo la richiesta dettata da una
persona che desidera operare per il meglio»
replicò serafico Alekos.
«Non lascerò
qui mia
figlia da sola! Sappilo!» sbottò allora Eos,
fissandolo astiosa.
«Allora, lei non ti
parlerà mai. Mi spiace per te, Eos»
mormorò il giovane, chiudendo gli occhi per
tornare nel proprio corpo.
Quando riemerse, sospirò
per la stanchezza, osservò la nonna con aria infastidita e
mormorò: «A volte,
vorrei prendere a schiaffi le persone.»
Anita scoppiò a ridere,
lo aiutò ad alzarsi e ammise: «Capisco bene cosa
vuoi dire e, anche a me, a
volte prudono le mani.»
Abbracciandola, Alekos
allora mormorò: «Grazie, nonna. Tu sai sempre cosa
dire, per risollevarmi il
morale.»
La donna gli diede delle
calorose pacche sulla schiena e, nel riaccompagnarlo
all’esterno della
dependance, disse: «Io ci sarò sempre, per voi, ma
ora riposa un po’ e porta
lontano da questa casa tuo cugino. Sta rischiando di far andare fuori
di testa
le mie ragazze.»
Seguendo incuriosito lo
sguardo della nonna, Alekos cercò di comprendere il motivo
di tanta
preoccupazione – misto a una buona dose di divertimento
– e, quando infine vide
Eros accanto alle sue cugine, scoppiò a ridere.
«Oh, capisco.
E’ venuto
lui a prendermi?»
«Già, ma non
ho fatto in
tempo a tener lontano le ragazze dal suo bel faccino»
sospirò Anita, scoppiando
suo malgrado a ridere assieme al nipote.
Affrettandosi a
raggiungere la casa della nonna, Alekos si avvicinò a Eros
che, nel vederlo,
sollevò una mano e dichiarò: «Le tue
cugine sono assai simpatiche. Avrei dovuto
venire prima, a trovarle.»
«E Psiche sarebbe stata
d’accordo con te?» ironizzò Alekos,
avvolgendo le spalle delle cugine con le
braccia, quasi a volerle proteggere dal fascino di Eros.
Linda e Carmen gli
tributarono un eguale sorriso di saluto e quest’ultima, con
ironia pari a
quella di Alekos, replicò: «Io sono più
che sicura che Psiche non potrebbe mai
essere gelosa di noi.»
Il giovane le baciò
entrambe sul capo – essendo molto più alto di
loro, gli riusciva bene – e
ribatté: «Mai sfidare la gelosia degli
dèi, mia cara. E poi, io vi trovo
bellissime.»
Le cugine risero
compiaciute e, dopo un doppio bacio sulle guance ad Alekos, si
accodarono a una
accigliata Anita che le richiamò subito
all’ordine, riportandole in tutta
fretta in casa.
Eros le osservò per un
attimo prima di rivolgersi ad Alekos, ancora tutto sorridente,
asserendo: «Mi
mancava, il mondo degli umani. Mi sono sempre trovato assai bene,
qui.»
«Vedo che non hai
più
problemi. L’avvelenamento è del tutto sparito,
quindi» chiosò Alekos.
Il dio dell’amore
assentì, scrollando poi le spalle con fare indolente.
«Esculapio vorrebbe che
io passassi da lui più spesso per dei controlli
approfonditi, visto che gli
organi erano stati assai colpiti dall’infezione, ma io sto
bene! Non sento più
alcun dolore.»
Alekos lo fissò con
indulgenza, sapendo ormai bene quanto gli dèi detestassero
gli ordini o le
imposizioni di qualsiasi genere, anche quelli che riguardavano la loro
salute.
«Ora, però,
sarà meglio
se andiamo. Parleremo in modo più approfondito di me una
volta raggiunta casa
tua. Athena ci vuole là immediatamente.»
Accigliandosi, Alekos
domandò: «E’ successo
qualcosa?»
«Nulla di brutto, non
temere, ma aveva una certa fretta, quando mi ha spedito qui»
ammiccò lui,
allungandogli una mano.
Alekos la afferrò lesto
e, in un lampo, lui ed Eros trasmutarono lontano da San
José, diretti verso
novità di cui il giovane non sapeva assolutamente nulla.
1 Parlo del personaggio
di Benjamin Thomson, figlio di Joy Patterson e Morgan Thomson, apparsi
nella
mia storia original intitolata
“Ali
Scarlatte”. Per chi non l’avesse letta, trattasi di
una Fenice che, per l’appunto,
appare in quasi tutti i Pantheon, sotto diversi nomi. Fenice
per i greci, Benu
(o Bennu) per gli egizi, Garuda per gli indù, Fenghuang per i cinesi e così
via.
2 La
frase citata da
Alekos appartiene al personaggio di Artax, apparso nella seconda
stagione de “I
Cavalieri dello Zodiaco”, nel ciclo di Asgard.