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Autore: Adeia Di Elferas    18/05/2020    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
Capitoli:
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Caterina guardò un momento l'uomo che l'aveva zittita e fatta ritrarre dalla finestra. Aveva il volto sporco, così come doveva averlo lei. Quindi aveva combattuto fino a quel momento, e probabilmente era arrivato lì di sua iniziativa. Si era dichiarato un soldato del Balì di Digione, quindi lei poteva provare davvero a sfruttare una delle pochissime armi che ancora aveva.

Lanciando uno sguardo a tutti gli altri presenti – tra cui nessuno, nemmeno Baldraccani, aveva avuto il coraggio e la prontezza di opporsi a quel tedesco – la Sforza si schiarì la voce e declamò, con disinvoltura, come se da quelle parole non dipendesse la sua vita: “Voi conoscete bene quanto me le leggi marziali francesi, gloriose e antiche, cui sottosta anche il vostro re, Luigi.”

Il soldato parve un po' confuso, ma tenne ancora saldamente la spalla della Tigre sotto il peso della propria mano guantata di ferro, mentre con la spada la teneva sotto tiro, impedendole di reagire.

“Queste leggi – spiegò, paziente la donna, mentre da fuori arrivavano, irritanti e ripetitive, le grida del Valentino, che la incitava a tornare alla finestra per parlare con lui della resa – non consentono che le donne sia fatte prigioniere di guerra.”

Il tedesco si accigliò, ma poi annuì, rendendosi conto che in effetti quel genere di leggi andavano sempre seguite, perché erano tra le poche le cui trasgressioni venivano punite in modo esemplare dal re di Francia.

“E dunque io mi arrendo.” sussurrò la Leonessa, avvertendo lo stomaco chiudersi, mentre dalle labbra le scivolava fuori quella frase: “Ma non a Cesare Borja. Io mi arrendo al Balì di Digione, ai francesi. E affido la mia persona all'onore e alla fede di Luigi loro re.”

L'uomo sembrava indeciso sul da farsi, ma fu chiaro a tutti, soprattutto alla Contessa, che non avrebbe più cercato di ucciderla e che, probabilmente, l'avrebbe consegnata ad Antonio di Baissay, piuttosto che al Duca di Valentinois.

Fuori si sentiva ancora molta confusione, segno che, malgrado tutto, qualche piccolo scontro era ancora in atto. Più di tutto il resto, però, la Sforza sentiva la voce irritante e quasi querula del figlio del papa, che non la smetteva un minuto di chiamarla, di darle della codarda e della vile per essere scappata dentro senza rispondergli.

“Perdonate un momento.” fece allora la donna, rivolgendosi a colui che l'aveva catturata: “Devo fare ancora una cosa.”

Sempre con la mano del soldato che la tratteneva per la spalla, Caterina mosse mezzo passo verso la finestra, trattenendo una smorfia di dolore per il taglio sulla coscia.

Si affacciò e, alzando la voce più che poteva, urlò al Valentino, agitando la mano con un gesto volgare in sua direzione: “È finita! Io son presa! Puoi piantarla di gridare come un imbecille! È finita!”

Ritirandosi di nuovo, per sottrarsi agli improperi del Borja, che pareva più adirato per esser stato chiamato imbecille che non per altro, Caterina guardò il tedesco e gli chiese che intendesse fare a quel punto.

“Vi consegnerò al Balì, il mio signore.” rispose lui, granitico.

Un cigolio poco rassicurante fece trattenere il fiato a tutti. La Sforza sapeva bene quali fossero i punti più solidi della rocca, in quel momento, e quello in cui stavano era uno di essi. A quel punto, non ci teneva a morire incastrata tra le pietre.

“Andiamo nel Tinello – propose, alludendo a un punto vicino, ma molto più protetto di quell'ala di Ravaldino – o rischiamo di morire quando questo rivellino si sbriciolerà come tutto il resto.”

L'armigero ci mise un momento ad accettare, ma poi, chiamando in fretta a sé qualche compagno che aspettava sulle scale, si decise a fare il trasbordo.

 

“Io non capisco perché abbiamo aspettato così tanto.” stava dicendo l'Alégre, che aveva sentito di come il Balì di Digione fosse già a Ravaldino da un po'.

Cesare scosse il capo e chiese di nuovo, ostinato: “Venite con me o no?”

Il francese sospirò e poi, allargando un po' le braccia, ribatté: “Vengo, ma solo per curiosità. Mi trovo un po' in imbarazzo a farmi vedere a entrare alla rocca solo ora che ci sono nostre bandiere ovunque e che nessuno combatte più.”

“Aubigny, venite con noi?” domandò il Duca, che aveva gran voglia di essere accompagnato da uomini abili e forti, in caso avesse trovato qualche brutta sorpresa una volta a Ravaldino.

Il francese, che non era nemmeno in armatura e che non era sceso in campo per tutto il giorno, scosse il capo: “No, io non ci vengo.”

“Vi vergognate anche voi?” chiese, arrabbiato, il figlio del papa: “Avreste dovuto vergognarvi, allora, anche quando i vostri morivano mentre voi eravate nel vostro alloggio a mangiare e dormire.”

L'allusione alla totale nullafacenza del francese di quel giorno accese una luce cattiva nello sguardo dell'Aubigny che, tuttavia, quando parlò lo fece con estrema calma, esponendo con una sincerità sconcertante quello che pensava: “Io ho già avuto modo di conoscere personalmente Madonna Sforza anni fa, quando venni in Romagna per altre guerre. Sapevo che oggi si sarebbe arrivati a lei, l'ho capito da come avete dato il via alla giornata. Ecco perché non ho combattuto: ho uno speciale rispetto per lei, che mi impone di non far nulla contro la sua persona.”

L'Alégre ascoltò le parole dell'altro comandante e ne rimase così colpito da chiedersi, per la prima volta in modo serio, cosa avesse quella donna di così speciale da far capitolare tutti gli uomini ai propri piedi, sia che diventassero suoi amanti, sia che fossero suoi avversari in guerra.

“Fate come vi pare.” borbottò Cesare, scuotendo il capo: “Noi due andiamo.” concluse, chiamando a sé Yves e facendo portare i loro cavalli.

Mancavano pochi minuti all'una di notte. Caterina era in custodia dalle ventitré e trenta circa, non si combatteva più da oltre un'ora. Il silenzio era pari a quello di un cimitero, e gli unici rumori erano i lamenti dei morenti e le reprimende dei vincitori che tenevano buoni i prigionieri in attesa di aver ordini precisi sul loro destino.

In quel clima quasi sospeso, quasi del tutto al buio, sotto un cielo che prometteva neve, Cesare cavalcò fino a Ravaldino e cercò il Balì di Digione.

 

Caterina era stata messa in una stanzetta da sola, mentre le donne e gli uomini che erano stati catturati assieme a lei erano poco distanti, probabilmente nella camera accanto.

Lasciata a sé stessa per oltre un'ora, la donna si era chiesta mille cose. Aveva cercato di ripercorrere la battaglia che era appena finita, aveva trovato, nella sua ricostruzione, molti punti oscuri, che avrebbero meritato un maggior approfondimento. Però, in quel momento, l'unica cosa a cui riusciva a pensare davvero era solo la bandiera bianca esposta da Giovanni da Casale, e la resa dichiarata da suo fratello Alessandro.

Due degli uomini su cui aveva puntato di più l'avevano tradita. Non trovava altro modo di chiamare quelle azioni, se non tradimento. Non le interessava conoscere le loro motivazioni, né avere le loro scuse. Verso di loro provava solo una sconfinata rabbia.

Ora era prigioniera. Sapeva bene cosa significava, per una donna, diventare un bottino di guerra, specie se di un uomo depravato come il Borja. Ma che poteva fare? Si era dichiarata preda dei francesi. Sarebbe bastato a evitarle il peggio?

Si massaggiò il collo, cercando di calmarsi. Le doleva ogni parte del corpo, ma più di tutto la gamba ferita. Faceva quasi fatica a stare in piedi. Anche se non era un taglio profondo, le aveva fatto perdere molto sangue, e, con la stanchezza che amplificava il dolore, la faceva più male del previsto.

Non le avevano nemmeno legato le mani o i piedi. Questo dettaglio l'aveva fatta sentire disprezzata, come se la stessero sottovalutando. Anche se le sarebbe potuto tornare utile, quel fatto l'aveva disturbata. Avrebbe voluto gridare al tedesco che l'aveva catturata che lei era più letale di tutti gli uomini del suo esercito messi assieme, che se in terra, quella notte, c'erano centinaia di francesi morti il merito era soprattutto suo, e che, quindi, lasciarla slegata a quel modo era una follia bella e buona. Poi, però, non aveva aperto bocca, lasciando che Bertrando – così aveva detto di chiamarsi il soldato – la conducesse in quella stanzetta e la lasciasse così, libera e sola.

C'era una finestrella, in quella camera. Piccola, davvero molto stretta. Avrebbe potuto passarci, però, anche se con fatica. Non sarebbe stato impossibile. Ma da quell'altezza, sarebbe precipitata giù per metri, senza nemmeno poter provare ad appigliarsi a qualche imperfezione della parete, dato che era completamente liscia.

Mentre faceva quella valutazione, ovvero se fosse meglio affrontare quanto le avrebbero fatto o uscire da quella finestra e farla finita, alla Tigre tornò in mente un giorno di tantissimi anni addietro, quando era ancora solo una bambina. Anche quella volta la vista di una finestra le aveva dato la possibilità di scappare, seppur senza rischiare in modo così evidente la vita, ma lei non l'aveva fatto, non aveva voluto comportarsi da codarda.

E così era andata incontro al suo destino, e aveva sposato Girolamo Riario, l'uomo che in vita sua aveva odiato più di chiunque altro.

Aveva ancora i brividi, al ripensare a quella crudele sera di anni prima, e, per un certo verso, si sentiva ancora la bambina di nemmeno dieci anni che era stata sacrificata dal padre in nome di qualcosa che andava oltre la sua comprensione, o che, ugualmente probabile, in realtà non avrebbe avuto tutta l'importanza che vi era stata data. Stava facendo un sospiro tremulo, quando sentì la porta alle sue spalle aprirsi.

“Sì, è vero, io ho già sotto la mia custodia il Contino di Melzo, Alessandro Sforza e quel gran cane di Giovanni da Casale – stava dicendo il Balì di Digione, entrando per primo, con aria molto scocciata – ma questa è quella che tutti volevano.”

Indicò la Leonessa, che, istintivamente, si premette un po' di più contro il muro. Sentì di colpo gli occhi dei tre uomini, il Borja, un francese che l'accompagnava – l'Alégre, probabilmente – e Antonio di Baissay addosso. La stavano studiando quasi fosse una belva feroce in gabbia.

Sapeva di avere un aspetto ferino. Era coperta da capo a piedi di sangue ormai secco, il suo abito era in più punti strappato e tagliato, tanto da lasciar intravedere sia la corazzina che vi portava sotto, sia la gamba ferita. L'espressione del suo volto, poi, doveva essere trasfigurata rispetto al solito...

“Appunto per quello: io sono il capo di questa campagna – mise in chiaro Cesare, tornando a guardare il Balì – e dunque la preda più ambita spetta a me.”

“Ma si è dichiarata prigioniera dei francesi...” fece l'altro, che, però, aveva discusso fino a pochi minuti prima con Achille Tiberti, che l'aveva convinto di quanto fosse più vantaggioso per lui cederla al Borja e intascarsi i soldi della taglia.

Antonio, in realtà, aveva trovato agghiacciante il modo insistente con cui il cesenate l'aveva tallonato nella speranza di convincerlo a far consegnare la donna al Valentino. Era come se per lui fosse una questione di vita o di morte. Il suo naso grosso e adunco vibrava come non mai, mentre ripeteva che la Sforza era il bottino che spettava al Duca...

“Non me ne importa un accidente di quello che dice questa meretrice.” tagliò corto il Borja: “Lei è prigioniera mia e basta.”

“Ma il re...” provò il Balì.

“Il re non è qui.” fece il Valentino, con un sorriso mellifluo: “Qui comando io.”

“Allora voglio ventimila ducati.” disse, finalmente, Antonio.

Cesare trasecolò. Sollevò le sopracciglia, guardò il Balì e poi la Sforza. Cercò l'appoggio anche dell'Alégre, ma questi fissava la punta delle proprie scarpe, senza immischiarsi.

“Ventimila ducati?” chiese il ventiquattrenne, come se avesse capito male: “E perché mai?”

“Per la taglia che avevate messo sulla sua testa.” spiegò Antonio di Baissay: “Io l'ho presa e ve la sto consegnando. Ma voglio ventimila ducati.”

“A parte che la taglia era di diecimila...” borbottò il Borja, occhieggiando verso la Tigre, che era lì immobile, in attesa che la questione si definisse, o, forse, intenta a cercare un modo per farsi beffa di tutti e tre e sfuggire sotto i loro occhi: “Io non ritengo di dovervi corrispondere alcuna taglia.”

Il Balì deglutì un paio di volte, poi, troppo irritato per riuscire a discuterne serenamente, cominciò a gridare in un francese volgare le proprie ragioni. Il Borja fece altrettanto mescolando italiano e lo spagnolo che aveva imparato da suo padre, e per quasi un quarto d'ora nella stanza ci furono solo le loro voci che si rincorrevano come latrati di cani rabbiosi.

“E va bene!” sbottò alla fine il Valentino, trovando assurdo il dover battagliare di più con un uomo che avrebbe dovuto essere al suo servizio, che non con i nemici: “Vi posso dare duemila ducati, non di più.”

“La taglia iniziale era di cinque volte tanto.” lo rimbrottò Antonio, con un'espressione dura.

Caterina osservava impotente a quella tratta che la vedeva come oggetto. Avrebbe voluto fare qualcosa, magari avventarsi contro il figlio del papa, o cercare di scappare ai tre uomini che aveva davanti, recuperare i suoi compari nella camera affianco e provare a organizzare un'ultima disperata difesa, in modo da morire con la spada in pugno.

E invece, tra la gamba che non rispondeva ai suoi comandi e la mente completamente spenta, la donna riusciva a malapena a respirare. Non voleva finire i suoi giorni da prigioniera, ma in quel momento non vedeva scampo.

“Ventimila o nulla.” insistette il Borja: “Questa sgualdrinella non vale nemmeno il cibo che mangia, figuriamoci se mi metto a pagarla diecimila ducati..!”

Il Balì di Digione sembrava sul punto di accettare, senonché qualcosa doveva averlo fatto arrabbiare un po' di più. Forse era il sorrisetto furbo del Valentino, o forse il suo tono accondiscendente, fatto restava che il francese non era disposto ad scendere a patti così facilmente.

“E dunque tu vuoi venir meno alla tua parola?!” sbraitò, afferrando di colpo la Sforza per i capelli.

Ella, colta alla sprovvista, sentì la gamba ferita sanguinare ancora un po' e cedere sotto il suo peso, facendola cadere in ginocchio. Antonio la tratteneva per la chioma, impedendole, in realtà, di toccare terra con il ginocchio. Il dolore alla testa era fortissimo, ma non era nulla in confronto al terrore che la pervase quando sentì il gelo della spada del Balì contro la propria gola.

“La sgozzo qui e subito, se non mi dai i miei soldi.” disse l'uomo, fermo.

L'Alégre, senza volerlo, trattenne il respiro e fu sul punto di riprendere il Balì per il suo comportamento grezzo. Evitò solo perché Cesare, al suo fianco, aveva mosso mezzo passo avanti, come se volesse lui fermare la mano del francese.

“Cinquemila!” esclamò infatti il Duca di Valentinois: “Vi darò cinquemila ducati. In contanti.”

Il francese parve pensarci qualche istante. Caterina sentiva il capo trafitto da mille spilli, ma non osava ribellarsi. Dopo aver passato giorni, anzi, settimane, a convivere con la sensazione di essere a un passo dalla morte, ora che si trovava disarmata e con una spada puntata alla gola, sentiva di averne abbastanza. Non voleva morire, soprattutto in quel modo. E quindi poteva solo cercare di restare in vita abbastanza da trovare una soluzione. Dunque le conveniva restare immobile e aspettare.

“Ci sto.” fece alla fine l'uomo, lasciando cadere in terra la Tigre con un tonfo: “Cinquemila, ma entro domattina e in contanti. Se non manterrete la parola, vi giuro su ciò che ho di più caro che ci penserà il re in persona a farvela pagare.”

“Onoratissimo.” commentò, ironico, il Borja, con un finto inchino ossequioso: “E ora lasciateci soli con la prigioniera. Devo parlarle.”

Il Balì fece un cenno con il capo e lasciò la stanzetta, chiudendosi la porta alle spalle. C'era solo una piccola torcia a muro, e l'aria era irrespirabile. Il fumo dei tanti incendi di quella notte sembrava aver permeato tutto con un odore di fuliggine e morte che al Borja dava il voltastomaco.

Tuttavia, non aveva tempo per pensare ai propri disagi. Se aveva fatto del suo meglio per trattare la custodia della Sforza il motivo era soprattutto uno: doveva scoprire dove fossero i suoi figli. Se a Roma si fosse saputo che la Tigre era morta, ma che dei suoi eredi non v'era traccia, il papa sarebbe andato su tutte le furie, e Cesare non poteva permetterselo.

L'unico figlio della Sforza di cui il pontefice conosceva l'ubicazione era il secondo, Cesare Riario, ma anche per lui, malgrado ormai fosse tra le braccia di Santa Madre Chiesa e protetto dall'influente e ricchissimo Cardinale Sansoni Riario, sarebbe arrivata l'ora di pagare per le colpe della madre.

Prima, però, Alessandro VI voleva rendere inoffensivi gli altri che, almeno sulla carta, per lui rappresentavano un pericolo molto più concreto.

La Leonessa, rialzatasi a fatica, si era trascinata verso il muro. Respirava velocemente, in reazione a tutto il dolore fisico che provava e alla paura che la stringeva come una morsa. Guardava l'Alégre e il Valentino e non capiva cosa volessero, in quel momento, da lei.

Le fu tutto più chiaro solo quando Cesare le chiese: “Dove sono i tuoi figli?”

“Non te lo direi nemmeno se mi ammazzi.” ribatté lei, con voce meno ferma di quanto avrebbe voluto.

“Dimmelo, lupa.” l'avvertì il giovane: “Se non me lo dirai, ti assicuro che troverò il modo di fartene pentire. E non sto alludendo a una morte veloce.”

L'idea di provare altro dolore, di vedere il proprio corpo usato contro la sua volontà, scatenò nella Sforza un conato di vomito così forte da farle contrarre lo stomaco in modo violento, piegandola per un attimo in due. Sputò un po' di acidi schiumosi, e poi, pulendosi le labbra con il dorso della mano che puzzava di sangue secco, scosse il capo.

Il Valentino le si stava avvicinando con fare minaccioso, e dunque la donna avvertì la necessità di difendersi in qualche modo. Provò a farlo dicendo la verità, ma in un modo che non suonasse tale.

“Brutto idiota che non sei altro... Ma non l'hai ancora capito che i miei figli sono al sicuro a Firenze?” fece lei, scuotendo il capo in modo plateale: “Sei proprio tardo, per non capire che Firenze era l'unico posto sensato...”

“Figuriamoci...” soffiò subito il Valentino, che, tuttavia, la guardò con sospetto, chiedendosi se quello non fosse un'ulteriore presa per i fondelli: “A Firenze! Da tuo cognato Lorenzo, ci credo tantissimo! Proprio da quello che t'ha fatto causa per il tuo figlio più piccolo! Non credere di poter far fesso un uomo come me!”

“Non so che altro dirti.” concluse lei, sollevando il mento.

Aveva capito la chiave. Il Borja, verosimilmente, stava rispondendo all'ordine di qualcuno più importante di lui – verosimilmente il padre – e quindi doveva per necessità di cose sapere dove lei avesse nascosto i figli. Quella poteva essere la strada da seguire per restare viva il più a lungo possibile. Se fosse riuscita a sopravvivere a quelle ore, a quella notte, tanto per cominciare, poi avrebbe potuto pensare al da farsi.

“I tuoi figli sono ancora qui, in questa rocca.” fece il Duca: “Pure quel barbiere che si crede un cronista lo dice.”

Nel riconoscere il Novacula in quella descrizione, Caterina abbassò un momento lo sguardo. Il Borja interpretò quel cenno come un segnale di ansia, e così si credette indirizzato sulla pista corretta.

“Li hai tenuti qui con te e ora mi vuoi far credere che siano chissà dove in modo che io non li cerchi. Ma vedrai..! Farò scandagliare ogni palmo di quel che resta di questa rocca e, vivi o morti, li troverò!” sentenziò il ventiquattrenne.

“Secondo te io avrei tenuto i miei figli qui?” lo incalzò lei, al solo scopo di innervosirlo per farlo dubitare: “Dovevo proprio tenerli qui esposti alle palle dei cannoni? Dovevo metterli io stessa con le mie mani in bocca al lupo?”

Il Borja, seriamente confuso, deglutì, ma poi, scuotendo con forza la testa, ribadì: “Li farò cercare qui e vedrai che li troverò. E li ammazzerò uno per uno davanti ai tuoi occhi.”

“Non aspetto altro.” lo sfidò lei, riuscendo perfino a sorridere.

“Non mi incanti, lupa.” le fece presente il Valentino: “Non sono come quei paesanotti degli Orsi che si sono spaventati nel vederti sollevare le sottane.”

“Ora – intervenne l'Alégre, stanco di assistere a quello sterile scambio di provoocazioni – si dovrebbe discutere d'altro.”

“Di cosa?” chiese Caterina, che altro non aver desiderato se non mettere a riposo la gamba e accertarsi di chi, tra le persone a cui teneva, fosse ancora vivo.

“Dei termini della resa.” spiegò il francese: “Ovviamente non potete avanzare pretese, ma dovete dirci con esattezza dove potremo trovare i vostri gioielli, il danaro e ogni altra cosa.”

“Immagino che se vi dicessi che i gioielli li hanno i miei figli, non mi credereste, vero?” ghignò la Contessa, scorgendo una vena ingrossarsi sulla tempia del Borja.

“Se vuoi uscire viva da questa stanza, farai bene a dire tutto quello che sai.” disse, freddo il Valentino: “Sta a te.”

Passarono circa un'ora a discutere. A ogni domanda dei vincitori, la Tigre rispondeva con una battuta secca, spesso vera, ma che non veniva creduta. Alla fine, alle due di notte passate da poco, il Valentino si stufò.

“Andiamo a palazzo.” decise: “Là, forse, metterai la testa a posto.”

I due uomini le fecero segno di staccarsi dal muro contro cui si era appoggiata, ma, appena provò a fare un passo, la Leonessa cadde in terra. La gamba ferita non aveva risposto come dovuto, facendole perdere il passo.

“Se volete andare al palazzo – disse loro, pur ignorando di quale palazzo parlassero – dovrete aiutarmi, perché non ci riesco.”

Cesare temeva a un trucco. Così, dandole un colpo sulla schiena con la punta dello stivale, le intimò di alzarsi. La Sforza, più per orgoglio che per altro, ci provò davvero, ma cadde di nuovo.

Sapeva di non essere ferita in modo grave, ma in quel momento non aveva la forza di soffrire ancora per camminare. Che la portassero pure a braccia, lei, da sola, non avrebbe mosso un passo.

“Aiutatemi.” fece allora il Borja, con l'Alégre.

I due, prendendola uno per parte, la sollevarono e la scortarono fin fuori dalla camera. La portarono un momento nella stanza dove aspettavano gli altri prigionieri.

“Queste donne – disse l'Alégre, che aveva insistito come non mai con il Valentino proprio per permettere alla Contessa quella sosta prima di andare a palazzo Numai – si sono dichiarate prigioniere dei francesi e dicono di essere vostre dame di compagnia.”

Nella stanzetta non c'erano più solo quelli che la Tigre aveva lasciato qualche ora prima, ma anche Baccino – e nel vederlo il suo cuore mancò un colpo – e altre donne. Non sapeva dire come fossero arrivati lì, ma non le importava. Più gente sua vedeva viva, meglio si sentiva.

Così Caterina annuì subito: “Sì, lei è Argentina, lei Dianora – cominciò, indicando le prime due – e tutte le altre sì, sono mie dame di compagnia... E lui è il mio coppiere.”

Con il capo aveva indicato proprio Baccino da Cremona che, ben lungi dal fingersi sorpreso, fece un cenno d'assenso. In effetti doveva aver perso la corazza, o essersela deliberatamente tolta, e, giovane com'era, poteva sembrare davvero più un domestico che non un soldato.

“Un uomo così prestante, un coppiere?” chiese, perplesso, l'Alégre.

“Non è un mistero che mi piaccia portarmi a letto gli uomini di cui mi circondo.” ribatté per le rime la Sforza: “Perché avrei dovuto scegliere come coppiere un vecchio dalla schiena storta o un ragazzino che ancora non sa cosa sia una donna? Qui comandavo io, qui decidevo io.”

“Va bene.” soffiò l'Alégre: “Allora, il suo seguito verrà con noi in città. Ci servirà qualche soldato di scorta...”

Sentendo ciò, convinta che fosse comunque una sorte migliore che non restare a Ravaldino e probabilmente essere subito uccisi, la Leonessa provò a salvare qualcun altro, dovendo escludere a forza Baldraccani, volto noto anche ai francesi: “Lui – disse, indicando Monsignani – è il mio confessore.”

Il Borja guardò il giovane. Gli tornarono in mente le parole del ragazzo che, giorni prima, era scappato dalla rocca per fare la spia. Di colpo capì chi fosse quel frate che gli stava davanti.

“No, lui resta qui.” decise e poi, avvicinando un istante uno dei soldati che teneva d'occhio i prigionieri, gli sussurrò in fretta qualcosa, per poi ordinare, a voce alta: “Tutti, tranne i due frati, verranno portati da me più tardi, intesi?”

Caterina guardò Vangelista. Gli occhi chiari di lui incrociarono quelli verdi e pieni di lei. La donna si sentiva in colpa, ma egli, con l'accenno appena intuibile di un sorriso, le fece capire che non si pentiva di nulla e che, se anche avesse potuto tornare indietro, pur a costo di trovarsi di nuovo lì, a un passo dalla morte, avrebbe rifatto tutto allo stesso modo, con lei.

“Andiamo.” fece a quel punto Cesare, e nessuno osò più dir nulla.

In un clima spettrale, la Tigre, sempre sostenuta da un lato dall'Alégre e dall'altro dal Valentino, attraversò il cortile di Ravaldino. Alle loro spalle, un piccolo corteo di donne e Baccino, tenuti d'occhio da qualche soldato francese.

Era una distesa unica di cadaveri. Non si poteva camminare senza pestarli, inciamparvi e sentire qualche naso o qualche dito rompersi sotto i propri piedi.

“Allora?” sussurrò Cesare al suo orecchio, mentre, nel buio immobile della notte, si avvicinavano alla breccia che avrebbero attraversato per lasciare Ravaldino una volta per tutte: “Ti spiace per tutta la gente che credeva in te e che adesso giace qui morta e fredda?”

Alla Sforza non solo dispiaceva: ne era devastata. E non solo per i morti, ma anche per i vivi, che avrebbero dovuto affrontare una prova ancor più difficile della morte.

Eppure, quando parlò, non tradì nessuna emozione, se non solo un lieve sdegno, che fece travisare tanto all'Alégre, quanto al Borja, il suo pensiero: “Mi incresce di quelli che restan vivi.”

I due uomini che le stavano accanto credettero che la Leonessa stesse dando la colpa della sconfitta all'incapacità del suo esercito e che, quindi, avrebbe preferito veder tutti morti. E lei non fece nulla per smentire la loro convinzione.

Al lume di molte fiaccole sistemate ad hoc dai francesi per aver più agevole ingresso nella rocca al fine di saccheggiarla, la Sforza, sempre trattenuta e sostenuta dall'Alégre e dal Duca, attraversò la breccia, tra pietre, rottami e altri cadaveri. Attraversato il fossato, il cupo corteo andò verso il cuore di Forlì, in direzione del palazzo di Luffo Numai.

 

Cesare Borja e l'Alégre avevano da poco portato via Caterina, quando anche Baldraccani e gli altri ostaggi vennero spostati e nella stanzetta del Tinello rimasero solo Vangelista Monsignani e il frate Osservante.

Un soldato tedesco rientrò nel giro di un paio di minuti, e li dichiarò suoi prigionieri privati. Dopo poco giunsero un paio di altri armigeri, evidentemente al seguito del primo, e attesero che il loro capo agisse.

Monsignani, vedendo come il tedesco spostava un costoliere dalla lama molto affilata da una mano all'altra, si affrettò a dichiarare: “Noi siamo ai comandi vostri!”

“Hai denari con te?” chiese il soldato, che era quello a cui il Borja aveva sussurrato qualcosa poco prima.

Vangelista si frugò in fretta, e alla fine riuscì a recuperare tra bisaccia e tasca interna del saio, ben tredici ducati d'oro. Anche l'altro frate trovò qualche moneta, non d'oro, e la porse ai soldati.

Il tedesco intascò tutto, dando qualcosa ai due che stavano con lui, e poi fece un cenno all'Osservante: “Sei libero.”

Il religioso, però, non si mosse. Aveva capito che Vangelista, malgrado avesse versato di più, non era invece stato graziato.

Non avendo voglia di perder tempo a far andar via il frate che aveva già saldato il proprio riscatto, il tedesco lo ignorò e basta, concentrandosi su Monsignani: “Questi non bastano. Voglio di più.”

“Ora con me non ho altro – ammise il giovane, deglutendo a fatica, la gola asciutta come un deserto – ma fra poche ore, appena sarò libero, vi darò cento ducati!”

“State quieti!” intervenne l'Osservante: “È un giovane ricco! È figli di mercanti facoltosi!”

A quelle parole, i due scagnozzi del tedesco parvero cambiare idea sul fatto che l'obbedire il loro capo fosse una cosa giusta e, cominciando a dire che il merito di averlo preso era anche loro, diedero inizio a una zuffa.

Il soldato che era stato incaricato dal Valentino di uccidere quello che si sapeva essere un amante della Sforza, perse la pazienza: “Ebbene, se il riscatto non potrò averlo io – disse, fingendo che il problema fosse quello – io non lo avrò, ma nemmeno voi!” e, così dicendo, sollevò il costoliere e cominciò a colpire Vangelista.

Ferito in volto, sul collo e alle mani, sanguinante e pazzo di paura, Monsignani si gettò tra le braccia dell'altro frate, cercando un ultimo soccorso: “Padre mio, aiutami!” invocò, guardando in alto, sperando davvero che Dio guardasse giù e lo salvasse.

“Aiutatemi...” fece il tedesco, prendendo di peso Vangelista: “Per lui il nostro Duca vuole un trattamento di favore... E anche lui, in modo che non si senta di minor importanza...”

E così, prendendo anche l'altro frate, così spaventato da essere incapace di ribellarsi, e trascinandolo assieme a Vangelista, ancora vivo e cosciente, ma orribilmente sfigurato e sanguinante, i soldati li portarono fin fuori dalla rocca. Li legarono alle code di due cavalli e poi, uno dopo l'altro, li fecero partire.

Il tedesco, che era in sella alla bestia che trascinava Monsignani, fece una strada particolare, su suggerimento proprio del Borja, che gli aveva detto da dove passare, nel caso in cui avesse fatto in fretta a finire il suo lavoro.

Lungo la via centrale e poi la piazza, passò infine per lo stradone su cui affacciava palazzo Numai.

Caterina stava per entrarvi proprio in quel momento e, nel buio ancora pesto della notte, rischiarato solo dalle imponenti torce a muro della casa di Luffo, riuscì a scorgere solo di sfuggita il profilo del cadavere – o, almeno, sperava davvero che ormai fosse tale – di Vangelista.

Malgrado tutto, lo riconobbe facilmente, dai capelli, forse, o più che altro per la sensazione che le diede vederlo sfrecciare a breve distanza da sé, lasciando una striscia di sangue sul terreno polveroso.

Sentiva il cuore stretto in una morsa di gelo. Nel muovere il primo passo oltre la soglia di palazzo Numai, intravide il sorriso beffardo del Valentino. Comprese, a quel punto, che la fine di Monsignani non era stata casuale, ma una mossa del suo nemico per annientarla ancora di più. Non era certa che il figlio del papa sapesse di lei e Vangelista, ma a quel punto era probabile che fosse così.

Incrociò per un istante lo sguardo scuro e penetrante del Duca di Valentinois, intravide i segni lasciati dalle croste luetiche sul suo volto, e restò attonita dinnanzi al biancore dei suoi denti, ancora scoperti in quello che non era più un sorriso, ma un vero e proprio ghigno da belva, e capì che, per lei, l'inferno doveva ancora cominciare.

 
   
 
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