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Autore: Adeia Di Elferas    20/05/2020    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Luffo Numai guardava la sua signora e avrebbe voluto solo piangere. Il viso di lei era quasi irriconoscibile, coperto di sangue secco e sofferente. L'abito che portava era lurido e logoro e, da come camminava a fatica, si poteva intuire che fosse ferita.

Il forlivese cercava di tenere un contegno, ben sapendo di non dover, per nessun motivo, tradire il proprio affetto per la Tigre. Per il Borja lui era e doveva restare un opportunista, un voltagabbana che aveva scelto un nuovo padrone abbandonando quella vecchia.

Tuttavia, gli doleva così tanto il cuore nell'osservare la Contessa sconfitta che Numai per un bel po' non si accorse nemmeno di tutti gli altri prigionieri che il Valentino aveva portato con sé. Fu costretto a prestarvi attenzione solo quando Cesare in persona gli chiese di farlo.

“Voi conoscete tutte queste donne?” gli chiese, indicandole con un ampio gesto del braccio.

Luffo distolse a fatica gli occhi da Caterina e indagò i visi spaventati delle donne indicate dal Duca.

Capì subito che dalla sua risposta dipendeva la loro vita, perciò, dopo solo un attimo di silenzio, rispose nel modo che gli pareva più conveniente per loro: “Certo, come tutti...”

“Ovvero?” lo incalzò il figlio del papa.

Numai si schiarì la voce e, sperando di poter reggere il gioco che, evidentemente, la sua signora stava facendo per salvare la vita a Dianora Valgimigli e a tutte le altre donne lì presenti, disse, con naturalezza: “Sono le dame da compagnia di Madonna... Tutti sanno che non se ne separa mai.”

Dalla faccia che fece il Borja, Luffo ebbe la sensazione di aver azzeccato, convalidando ciò che già la Leonessa doveva aver sostenuto.

“E lui?” chiese allora Cesare, indicando stavolta Baccino.

Il forlivese, questa volta, non sapeva davvero che dire. Quale carica o parentela o altro avrebbe potuto rendere la posizione del cremonese più semplice?

Per fortuna l'Alégre, che non vedeva l'ora di finire quel teatrino, intervenne per sveltire la faccenda, finendo, involontariamente, per aiutarlo: “Questo è davvero il coppiere della Sforza?”

Numai incrociò per appena la frazione di un secondo lo sguardo della sua signora. E in quel soffio di tempo, percepì nella sua espressione un cenno d'assenso appena intuibile.

Così, guardando Baccino come se stesse cercando di riconoscerlo, pensò a come esprimersi al meglio per essere creduto: “Sì... Sì... Ne ha cambiati un po', ma direi che lui è uno dei suoi coppieri... Li sceglie tutti giovani e di bell'aspetto...”

Il Valentino parve soddisfatto da quella spiegazione, che collimava anche troppo con quella della sua prigioniera, e così, quasi a malincuore, ordinò: “Il seguito del nostro ostaggio verrà tenuto nella vostra torre, Numai. Nessuno ne potrà uscire, ma non li tratteremo in modo disumano.”

Luffo annuì subito e poi rimase in attesa, in ansia per quello che, invece, sarebbe stato il destino della sua signora.

“Lei, invece – fece Cesare, indirizzando un sorrisetto beffardo alla volta della Tigre – la voglio in camera mia. Fatele un bagno, e poi...”

Il modo in cui trattenne il fiato fece rivoltare lo stomaco del padrone di casa, ma, dato che non arrivavano altre disposizioni, Numai poté solo fare un inchino e assicurare che così avrebbero fatto.

“Portatela via.” sussurrò il Valentino, e subito due dei suoi soldati presero la Leonessa in custodia e, guidati da Luffo, la portarono verso la stanza del Duca.

Mentre anche gli altri prigionieri venivano portati via, in direzione della torre di proprietà dei Numai, usata spesso come prigione privata, il Borja si avvicinò all'Alégre.

“Fate perquisire i resti della rocca palmo a palmo, non mi interessa quanto tempo ci vorrà. Ogni bambino, ragazzino, o chiunque altro che possa essere uno dei suoi figli voglio che venga subito portato qui.” la voce del figlio del papa era sottile, come la lama di un pugnale.

Yves annuì in silenzio, ma tra sé, mentre lasciava il palazzo, si disse che avrebbe fatto meglio a rimanere lì anche lui e impedire al Duca di Valentinois di far quello che voleva con la loro prigioniera. Non era solo una questione di diritto, non c'entrava tanto il fatto che lei fosse ostaggio francese e non preda borgiana. Era una questione etica: all'Alégre non era piaciuto portarla a braccio fino in città, tanto meno pensare a quello che le sarebbe successo tra le grinfie di Cesare. Forse era tardi, per avere scrupoli, ma pensò che, parlandone sia con l'Aubigny, sia con il Balì, forse, anche se per motivi diversi, entrambi gli avrebbero dato ascolto e lo avrebbero aiutato a sottrarla al suo aguzzino.

 

I soldati del Borja che erano stati incaricati di scortare la Tigre nella sua nuova stanza di detenzione si erano trovati in imbarazzo, quando le serve di casa Numai avevano fatto loro presente che dovevano spogliare la Tigre e farle un bagno. Non avendo avuto ordini precisi a riguardo, malgrado fossero uomini dai pochi pudori, gli armigeri pensarono – in parte influenzati da un paio di battute della Sforza in persona – che se fossero rimasti e l'avessero vista nuda, il Valentino non avrebbe certo apprezzato.

E così, facendo presente che sarebbero rimasti lì fuori e che sarebbero entrati a ogni rumore strano, i soldati avevano lasciato la stanza e Caterina era stata aiutata da due domestiche a togliersi l'abito logoro e insanguinato.

Le cavarono anche la corazzina, che era rimasta bombata in più punti, per colpa dei fendenti nemici. Con delicatezza, le tamponarono la ferita, che non sanguinava quasi più, e si interrogarono su come medicarla.

“Non c'è modo di avere qui i miei unguenti – disse loro Caterina, guardando con occhio critico lo squarcio che aveva sulla coscia – quindi basterà fasciarla con una benda di lino o tela, mi andrà più che bene... Potreste darmi un po' d'acqua, adesso?”

Mentre le serve le versavano subito un calice d'acqua fresca, e le facevano presente che, se ne avesse avuto bisogno, sotto al letto c'era il vaso da notte, altre due donne, tra cui Caterina Paolucci, la moglie di Luffo, arrivarono in stanza con una tinozza e dell'acqua calda.

In silenzio, come se stessero prestando assistenza a una vittima sacrificale, le quattro improvvisate serve della Sforza l'aiutarono a entrare nella tinozza e cominciarono a fregarla, per toglierle dal corpo e dal viso i segni della battaglia.

Nessuno parlava, e lo sciabordio sordo dell'acqua dava alla Leonessa la sconosciuta sensazione di essere in barca. Non voleva pensare, a nulla. Men che meno al fatto che quel bagno, probabilmente, non era una gentilezza del suo nemico, ma un modo per renderla più appetibile per quello che aveva intenzione di farle dopo.

“Vi ho detto che, come padrone di casa, ho il diritto di entrare!” si sentì la voce di Numai, appena oltre la porta.

La Paolucci sollevò lo sguardo, tesa, il respiro sospeso, come se si fosse aspettata l'arrivo del marito, ma avesse sperato fino all'ultimo che desistesse.

“C'è una pericolosa assassina in casa mia – continuò l'uomo, imperterrito – nella stessa stanza in cui si trova anche mia moglie, e voi volete impedirmi di controllare?! Ah, quando il Duca lo verrà a sapere..!”

Smossi solo dall'ultima parte del discorso, le guardie lo lasciarono passare. Entrato in stanza, Numai si avvicinò subito alla tinozza, e, con un gesto spontaneo, in barba a tutte le etichette, tuffò una mano nell'acqua calda, bagnandosi anche la manica del giubbone, per stringere quella della sua signora.

“Mi dispiace. Mi dispiace così tanto...” sussurrò il forlivese, gli occhi arrossati e le labbra che tremavano.

La situazione era così particolare, che la moglie di Luffo non provò nemmeno un filo di gelosia nel vedere il marito tenere la mano di una donna bellissima come la Sforza, tanto meno al pensiero che quest'ultima fosse nuda e immersa in un'acqua tanto trasparente che lui avrebbe potuto scorgere di lei ogni dettaglio, se solo avesse guardato in basso.

E invece Numai non riusciva a staccare lo sguardo dagli occhi verdi della sua signora: “Mi dispiace.” ribadì, questa volta mettendosi davvero a piangere.

La Leonessa avvertì un profondo senso di vuoto nel trovarsi davanti Luffo, un uomo che era stato sempre per lei una presenza importantissima e fonte di sicurezza, in lacrime. Era come se, con quel pianto silenzioso, ma dirotto, capisse finalmente l'entità del disastro cui era andata incontro.

“Non piangete.” lo pregò, con la voce arrochita.

“Siete ferita...” bisbigliò lui, intravedendo il taglio sotto al pelo dell'acqua.

“Non è nulla.” lo tranquillizzò lei, benché la coscia ancora le pulsasse in modo orrendo, specie ora che stava bagnando la ferita a quel modo.

“Io...” annaspò Luffo, scuotendo il capo e stringendo un po' di più la mano della sua signora: “Io non so che fare. Io vorrei aiutare, ma... Io non...”

“Avete già fatto tantissimo per me.” ribatté la donna, rivolgendosi poi anche alla Paolucci: “Avete fatto entrambi moltissimo per me.”

“Ma io voglio fare qualcosa ancora..!” si strusse lui, con una smorfia che sembrava quasi di dolore.

“Allora fate questo, per me.” fu la risposta di Caterina: “Quando potrete, fatemi sapere i nomi dei morti e dei prigionieri. Il maggior numero che potete. È l'unica cosa che mi interessi davvero, ora come ora.”

Il forlivese annuì, rinfrancato all'idea di avere qualcosa da fare, una nuova missione da portare a termine.

“Sta arrivando qualcuno.” fece in fratte la Paolucci, che, avendo l'orecchio fino, aveva sentito prima degli altri dei passi.

“Mi dispiace.” ribadì una volta di più Luffo, ritirando infine la mano dall'acqua e andando verso la porta.

Numai fece appena in tempo a uscire, prima che arrivassero l'Aubigny, il Saint-Just e Monsignor Sandé. Caterina, ancora immersa nella tinozza, non si mosse. Come lei, anche le quattro donne che la stavano aiutando a lavarsi non si azzardarono a far nulla.

Avvertendo improvvisamente l'acqua come fredda e fastidiosa, poco consona a quella notte di gennaio, la Sforza si tirò in piedi, sussurrando alla moglie di Luffo: “Vi prego, datemi un telo per asciugarmi.”

I tre uomini, dopo un brevissimo momento in cui si persero a guardarla, indugiando solo per caso sulla ferita che campeggiava sulla coscia, rimasero in silenzio per un po'. Solo quando la Tigre fu avvolta dalla Paolucci, con cura quasi materna, nel telo chiaro, l'Aubigny si schiarì la voce.

“Noi non dovremmo essere qui.” spiegò, gli occhi chiarissimi e freddi che incrociavano quelli della Leonessa, riportandola a una sera di più di cinque anni prima, quando il francese era stato suo ospite, poco dopo il disastro di Mordano: “Sappiamo che il Balì vi ha consegnata al Borja, e Achille Tiberti avvalla questa decisione.”

La Sforza strinse il morso, nel sentir nominare il cesenate, ma non volle dire apertamente cosa ne pensava di lui, perciò fece finta di nulla e lo pregò di continuare, prima che arrivasse il Valentino a interromperli.

“E dunque, siamo qui per farvi sapere il nostro pensiero, che è condiviso da buona parte dei nostri fratelli francesi che hanno dovuto, per forza maggiore, sottostare al figlio del pontefice in questa campagna.” nella voce un po' metallica del condottiero, la Tigre riconobbe una nota di rammarico, come se, sinceramente, si dolesse dell'esito avuto dalla disastrosa battaglia di quel giorno: “Noi volevamo dirvi questo: se non fosse stato per voi, la vostra rocca sarebbe caduta molto prima, e noi avremmo festeggiato la vittoria già ai primi di dicembre.”

Caterina strinse gli occhi, cercando di capire se vi fosse qualcosa che le sfuggiva, nelle parole dell'Aubigny, ma ancora non si era data risposte, quando l'uomo riprese a parlare.

“Se tutti i vostri soldati avessero avuto il vostro nerbo – assicurò il francese – la vostra rocca non sarebbe caduta affatto. Allo stesso modo, se qualcuno fosse corso in vostro aiuto, la vittoria sarebbe stata facilmente vostra. Noi siamo vincitori, ma siamo vinti a nostra volta dalla vostra serena e imperterrita forza.”

“Voi mi sopravvalutate.” soffiò la Sforza, abbassando lo sguardo, suo malgrado molto colpita dalle dichiarazioni di quel nemico così temibile e crudele: “Non sono stata né serena né imperterrita in queste settimane.”

“Non sminuitevi.” si intromise il Saint-Just: “Il vostro eroismo è palese, e negandolo, lo rendete solo più brillante.”

La donna li ringraziò e accettò allora di buon grado anche le parole del Monsignor Sandé, che volle sottolineare il suo stupore, dinnanzi a una simile 'viril dimostrazione' di forza e coraggio.

“Non possiamo far in modo di liberarvi, per ora.” mise in chiaro l'Aubigny: “Ma se c'è qualcosa che possiamo fare per voi, chiedetelo e cercheremo di esaudirvi, perché un avversario del vostro calibro, a nostro avviso, andava rispettato e premiato con l'onore delle armi. Non potendo far ciò, vogliamo trovare il modo di rimediare...”

“Vi chiedo solo una cosa.” bisbigliò la Tigre, sedendosi sul letto, per non aggravare ulteriormente il dolore alla gamba: “Se potete, cercate di ottenere misericordia per i miei uomini. Sia per i vivi, sia per i morti. Che vengano risparmiati i primi e degnamente sepolti i secondi.”

La brevità della richiesta, la scelta delle parole, nonché la decisione di non chiedere nulla per sé, ma solo per coloro che l'avevano servita, scavò ancora più profondo il solco già presente nelle anime dei tre francesi che le stavano davanti.

“Faremo come dite.” assicurò l'Aubigny: “Ora andiamo, prima che messer Cesare torni...” e detto ciò, la salutarono uno per uno con un lungo baciamano, e lasciarono la stanza.

“Fuori anche voi.” ordinò dopo un po' una delle guardie che era alla porta: “La prigioniera è stata messa in ordine, ora deve restare sola: ordine del Duca.”

Caterina guardò uscire le quattro donne con un misto di tristezza e paura. Non voleva trovarsi sola faccia a faccia con il Borja, men che meno in vestaglia e in una camera da letto. Però non aveva alternative. L'unica cosa che le restava da fare era ragionare e pensare a come fare per girare la sorte a suo favore. Non sarebbe stato facile, non sarebbe stato piacevole... Ma era l'unica cosa che le restava da provare.

 

Cesare si era ritirato nello studio di Luffo Numai, per scrivere una missiva diretta al Duca di Ferrara. Avrebbe potuto farlo anche il giorno dopo, lo sapeva benissimo, bastava retrodatarla, e nessuno avrebbe mai saputo del suo ritardo nell'aggiornare Ercole sui fatti.

Invece aveva deciso di mettersi alla luce delle candele, in piena notte, a scrivere al solo scopo di dare il tempo ai suoi soldati di frugare la rocca in cerca dei figli della Sforza. Voleva arrivare da lei con qualcosa in mano: voleva entrare in stanza tenendo per i capelli uno dei suoi preziosi eredi e sgozzarlo davanti ai suoi occhi.

Sogghignando, il Valentino si chiese cosa avrebbe potuto fare, di più divertente, se avesse trovato anche la figlia della Tigre. Sarebbe stato interessante vedere in che modo la madre avrebbe provato a difendere non solo la vita, ma anche la virtù della pargola...

Cercando di non divagare troppo con il pensiero, il Borja rilesse quanto scritto fino a quel momento, in modo da decidere come chiudere il messaggio. Dopo le formule di rito, la sua penna aveva vergato: 'Per satisfactione dela Signoria Vostra la quale se piglia de li successi mei piacere si come e de quelli precipua fautrice: la fo advisata come venerdi proximo passato ali x del presente li Cannoni forniti de allocare comensarono ad battere questa Rocha de Forli: et hogi Domenica xij del predicto lhavemo presa per forza de battaglia cum le soe parte totalmente insieme cum Madonna Catherina Sforza.'.

Il Duca di Valentinois fece un sospiro. Non trovava altro da aggiungere. Già poter dire di aver catturato la Leonessa gli sembrava una cosa fuori dal comune, qualcosa, insomma, che avrebbe fatto sgranare gli occhi all'Este.

Così, intingendo la punta della penna nell'inchiostro e poi appoggiandola sul foglio, concluse: 'Del resto daremo più pieno adviso per altre ala Illustrissima Signoria Vostra.'.

Aggiunse luogo e data, firmò e poi chiuse con calma la lettera.

Passò qualche ora, ma Cesare non accennava a lasciare lo studiolo. Da un lato avrebbe voluto andare subito dalla sua preda, dileggiarla e schernirla per la come aveva infine perso tutto quanto, ma dall'altro ne aveva quasi paura.

Adesso che l'aveva sotto il suo stesso tetto, cominciava a chiedersi se fosse davvero il caso di fare quello che si era prefissato fin dall'inizio. Certo, ormai si era vantato con tutti i suoi generali, dicendo che avrebbe ben dimostrato a quella donna cos'era un vero uomo, ma restare solo con lei in una stanza non gli sembrava più un'idea tanto allettante.

Aveva sentito i racconti dei suoi soldati, di come l'avessero vista combattere. Era opinioni di tutti che lei da sola avesse fatto più danni del suo intero esercito. Lui poteva davvero aver ragione di una simile belva? Rischiava troppo, ad avvicinarlesi senza qualcuno che intervenisse in caso di bisogno?

Ah, se solo Michelotto non fosse stato a Imola, come luogotenente, avrebbe chiesto a lui di aiutarlo. In fondo, era stato al suo fianco più di una volta, mentre stava con una donna, non ci sarebbe stato nulla di nuovo, per lui.

Era quasi l'alba, quando due soldati arrivarono a far rapporto al Valentino. Non avevano trovato nessuno, nemmeno tra i cadaveri, che potesse essere figlio della Sforza.

“Anche secondo i prigionieri – si permise di dire uno dei due – i figli della Tigre non erano più alla rocca da un po'...”

Cesare non voleva crederci. Era stato certo fino all'ultimo che gli eredi della Leonessa fossero ancora a Forlì. Che fossero davvero andati a Venezia, come si era vociferato qualche tempo addietro?

“Venite con me.” fece il Valentino, furibondo, camminando a passo di marcia verso la porta: “E anche tu! Con me!” sbraitò, incontrando vicino alle scale Numai.

Come un corteo, i quattro uomini raggiunsero la stanza in cui era stata chiusa Caterina. Il Borja ordinò a uno dei due soldati di aprire. Si rese subito conto che era stata una buona mossa, la sua, perché non appena l'uscio si schiuse, la Sforza colpì in testa la guardia con un soprammobile.

Probabilmente la donna si aspettava di veder entrare solo il Valentino. Il secondo soldato reagì prontamente, immobilizzandola, tenendole le braccia dietro la schiena e gridandole di star ferma, se non voleva una spada in pancia.

Capendo di aver bruciato una possibilità di fuga, la Tigre si placò subito. Raddrizzando un po' la schiena, puntò gli occhi in quelli del Borja e attese.

Luffo, che era stato pronto a difenderla, in caso di estremo bisogno, tirò un sospiro di sollievo quando sentì il Duca dire, indicando il soldato che era in terra privo di sensi: “Portate via questo inetto – e poi, guardando la prigioniera – i tuoi figli non ci sono, alla rocca.”

“I miei figli?” fece lei, ridendo in modo rabbioso: “Te l'avevo detto molto chiaramente che non erano alla rocca.”

La compiacenza che stava illuminando il viso – ora ripulito dai segni della battaglia – della Tigre, fece andare su tutte le furie il ventiquattrenne.

Tuttavia, prima che lui potesse esplodere, riempiendola di improperi e minacce, fu proprio la Sforza a proseguire: “Il possesso di Forlì – gli disse, cercando apertamente di provocarlo – il possesso della rocca... Senza il possesso di tutta la mia famiglia ti pare una borsa vuota, vero? Hai fallito lo scopo principale della tua impresa, Cesare. Ora sul tuo capo penderà per sempre un pericolo, una minaccia... Il mio sangue mi vendicherà, ti verrà a cercare e non avrai scampo.”

“Taci!” sbottò lui, dandole un forte schiaffo, che non la mandò in terra solo perché era ancora sostenuta dal soldato che le stringeva le braccia dietro la schiena: “Hai voluto e hai saputo vincere, vero?”

La fila di bestemmie che seguì riempì l'aria per qualche minuto, il tempo necessario per far sì che Caterina si riprendesse abbastanza dal chiedere: “Ancora parli? Non ti senti ridicolo?”

“Dio, o il diavolo – riprese il Duca, un po' più controllato – ha tradito me e aiutato te, e pensi che io non abbia nessun mezzo per carpire i tuoi figli, ma io mi vendicherò, te lo giuro. Me la pagherai. E molto cara.”

La Tigre, questa volta, non rimbeccò. Anche se avrebbe saputo cosa dire, per incendiare ancora di più la zuffa, le mancò il fiato per farlo. Aveva di nuovo paura. Era qualcosa che odiava, ma non poteva vincerla. Aveva sperato di poter sfuggire, mentre ora capiva che il suo destino era segnato.

“Di te – esclamò il Valentino – che tutti, tutti, ammirano, farò sparlare. Farò ridere i soldati, oh, i tuoi amatissimi soldati, e tutte le popolazioni. Li farò ridere di te come della femmina più vile e spregevole... La fortuna della guerra mi ha dato non solo la rocca, ma anche te, bella, prigioniera, mia. Nelle mie mani, in mia piena balia. Io farò di te quello che vorrò, saprò tormentarti tanto nel tuo bel corpo, quanto nell'animo superbo che ti ritrovi... Ti farò pentire di avermi sottratto i figli tuoi che dovevano essere prede di guerra. Ti svergognerò, ti umilierò in faccia a tutti, ti costringerò alle mie voglie, e tutti sapranno che la grande Caterina Sforza ha difeso assai meglio la sua rocca che la sua virtù!”

“Hai finito?” chiese lei, con un filo di voce, senza guardarlo.

Il Borja sbatté un paio di volte le palpebre. Sembravano più colpiti dalle sue minacce gli uomini che erano con loro, che non la diretta interessata.

“Legatela al letto.” ordinò a quel punto il Valentino: “Per entrambe le braccia, non voglio faccia scherzi.”

Il soldato chiese alle due guardie che stavano alla porta di aiutarlo, ma non ci fu bisogno di trascinarla al talamo con violenza, perché, seppur intimamente impietrita dal terrore, Caterina fece quello che le chiedevano senza opporre resistenza, esattamente come aveva fatto poco più di venticinque anni prima la sera in cui l'avevano condotta dal suo primo marito, Girolamo Riario.

Il Duca la guardava, mentre veniva legata con cura dai suoi uomini. Avrebbe potuto dare una dimostrazione della veridicità delle sue minacce già in quel momento. Avrebbe potuto sfruttare la presenza dei soldati e di Numai per avere sia dei testimoni che divulgassero le sue imprese, sia qualcuno che lo proteggesse nel caso in cui quella maledetta milanese fosse riuscita a ribellarsi e metterlo in pericolo.

Tuttavia, anche volendo, in quel momento non sarebbe riuscito a fare proprio nulla. Era spaventato, e oltre all'abbaiare di poco prima, non avrebbe saputo far altro.

Con disinvoltura, fece uno sbuffo e disse: “Restate di guardia alla porta. Ora devo occuparmi di affari importanti. Ci sono i riscatti da chiedere ai prigionieri più facoltosi e tante... Tante cose da decidere. Più tardi tornerò da lei.”

E detto ciò, si voltò e se ne andò.

 

Michele Marulli aveva ascoltato con attenzione le parole dei due carcerieri che si erano fermati a parlottare poco distanze dalla sua cella.

Avevano detto che tra i francesi i morti erano stati molti, di accertati almeno seicento o settecento, e che tra loro c'erano personaggi di spicco, come Perottino da Crevalcuore e Giovanni Piccinino, e che i generali francesi avevano avuto molto di che lamentarsi per l'uso improprio fatto delle truppe da parte del Borja, che, per prendere una rocchetta come quella di Forlì, aveva mandato a morire, tra prima e dopo, quasi un terzo dell'esercito.

Appena sentì gli uomini allontanarsi, Michele riferì in fretta quello che aveva udito ai due che erano stati rinchiusi con lui: Cardella e Bernardino da Cremona.

Ragionarono un momento su quanto sentito e poi, come avevano già fatto, cercarono di farsi una riassunto il più possibile accurato della sorte toccata ai loro compari.

“Baldraccani e Gian Giacomo – fece l'ormai ex castellano di Ravaldino – devono essere in una cella non lontana da qui.”

Gli altri due annuirono. Si trovavano nelle prigioni della cittadella. I francesi, appurato che il Paradiso era abbandonato, avevano subito sfruttato quell'imponente impianto detentivo per riversarvi buona parte dei prigionieri fatti.

“Roverscio, invece, ha una brutta ferita al collo... Speriamo sia ancora vivo.” proseguì Bernardino.

“Ho sentito che l'hanno portato al vescovato, per curarlo – aggiunse Baldraccani – credo che sperino di farlo vivere per ottenere da lui un buon riscatto.”

“Testadoro è stato sventrato.” continuò il cremonese, rivedendosi davanti agli occhi la scena.

Era successo mentre li stavano portando lì. Al Capitano delle Murate era stato chiesto se disponesse di denaro per pagarsi un riscatto, lui aveva dapprima annuito poi aveva bofonchiato qualcosa, forse qualche insulto, e la reazione era stata rapida. Su ordine di un caposquadra, era stato eviscerato davanti a tutti, a dimostrazione del fatto che non erano ammesse ribellioni di sorta.

“Scipione e Paolo Riario sono con i tre fratelli Sforza dal Balì.” concluse Bernardino.

“E con loro c'è anche Pirovano.” ricordò Marulli.

“Quel cane di Pirovano...” borbottò Baldraccani.

“Anche Alessandro Sforza si è arreso, ma per lui non nutrite tutto questo astio.” fece presente Michele.

“Messer Sforza è arrivato qui all'ultimo – spiegò il segretario della Tigre – ed è tale di carattere, s'è visto perso e ha smesso di combattere. Giovanni da Casale, invece, si è sempre riempito la bocca di parole come onore e orgoglio, e poi ha fatto l'opposto di quello che gli era stato chiesto. E sì che diceva di amare la Contessa...”

Al nominare la loro signora, tutti e tre, improvvisamente, si zittirono.

“Credete sia ancora viva?” sussurrò, dopo un po', Baldraccani.

“Non so cosa augurarmi, per lei...” soppesò Michele.

Gli altri due compresero alla perfezione cosa intendesse, e Bernardino stava per dire qualcosa, quando la porta della cella cigolò.

“Tu – ordinò una delle guardie, prendendo per un braccio Marulli – vieni con noi, vogliono interrogarti...”

Non appena il bizantino venne trascinato fuori, Baldraccani e il cremonese si guardarono, nel buio della fredda segreta. Incapaci di dire quello che si agitava loro nel petto, trovarono come unica consolazione un abbraccio.

Solo quando si separarono Bernardino disse, amaro: “Come sempre, aveva ragione la nostra Tigre: era meglio morire in battaglia, con la spada in mano, che finire come sorci tra le grinfie di questi gattacci...”

 
   
 
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