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Autore: Adeia Di Elferas    23/05/2020    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
Capitoli:
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Quel 13 gennaio il clima sembrava quasi primaverile. Cesare aveva presenziato alla rassegna delle sue truppe, ignorando, volutamente, la prigioniera che teneva serrata in camera.

Aveva dato disposizione che alla Sforza venisse dato da bere, ma non da mangiare, che le venisse concesso di essere slegata per qualche minuto, per svolgere le proprie funzioni fisiologiche, ma che poi venisse immediatamente assicurata di nuovo al letto, in attesa del di lui arrivo.

Di fatto, comunque, era già metà mattina e il Borja – che quella notte non aveva chiuso occhio – si stava ancora domandando se fosse il caso o meno di trovarsi da solo in una camera con quella belva.

“Seicento morti sicuri e altrettanti feriti.” stava dicendo il Vendôme, al suo fianco, con aria di rimprovero: “E sto parlando solo di quest'ultimo assedio. Vi sta costando molto cara, questa piccola città.”

Erano nella piazza, dove erano stati radunati gli squadroni. Il sole brillava nel cielo e il Valentino stringeva gli occhi per non farsi accecare, e, allo stesso tempo, approfittava di quella smorfia naturale per dimostrare la propria insofferenza nei confronti del francese.

“Anche i nemici hanno perso molti uomini.” ribatté Cesare, trattenendo le redini del cavallo con decisione: “Avete visto, quanti ne ho fatti tirar fuori dalla rocca e dal fossato.”

Il Duca alludeva al fatto che quella mattina, poco dopo l'alba, aveva dato ordine di recuperare tutti i morti forlivesi e metterli in bella mostra sul terreno appena fuori Ravaldino. Se sul momento era parsa a tutti una buona idea – un monito per far capire ai cittadini rimasti cosa accadeva a chi si ostinava a resistere – dall'altro si era dimostrato un grosso errore, data la quantità all'incirca doppia dei cadaveri francesi che erano stati recuperati per la sepoltura.

“I morti nemici sono circa quattrocento.” gli ricordò il Vendôme: “Non pochi, ma nemmeno tanti, rispetto ai nostri.”

“Preferisco avere prigionieri da cui ricavare una taglia – buttò lì il Borja – che tanti cadaveri da seppellire. È qualcosa di molto più conveniente.”

“Come dite voi, Duca.” concluse il francese, ma il suo sopracciglio alzato lasciava intendere che, per quanto il Valentino potesse difendersi e argomentare, alla fin fine, per lui, quella era stata solo una mezza vittoria.

La rassegna era ormai quasi finita, quando Tiberti si avvicinò al Borja, per chiedergli che intendesse fare con Forlimpopoli.

“L'unica difesa di Forlimpopoli è una rocchetta grossa la decima parte di Ravaldino – tagliò corto Cesare – ci basterà mezza giornata, per prenderla.”

“Ne siete sicuro?” domandò teso Achille, incrinando le labbra: “In quella rocca il castellano è uno dei fratellastri della Sforza. Dicono che le somigli, con una spada in mano.”

“Mi risulta che la Sforza sia in mano mia.” fece presente il Valentino, continuando, intanto, a salutare con un cenno del capo i soldati che gli sfilavano davanti: “Quindi non vedo perché lui non dovrebbe capitolare allo stesso modo e in molto meno tempo. In più, vorrei ricordarvi che non spetta a voi prendere iniziative e che, anzi, siete al mio seguito solo per mia gentile concessione, malgrado in vita vostra vi siate dimostrato molto più spesso un uomo di poca fede e poco conto, che non un soldato fedele e da cui aver appagamento.”

Tiberti si rabbuiò e, smontando di cavallo, mentre le ultime colonne dell'esercito rompevano le righe, borbottò: “Fate come vi pare, Duca. Ma ricordatevi che all'inizio sottovalutavate anche la Tigre, e nel prenderla avete sacrificato quasi un terzo del vostro esercito. Non commettete due volte lo stesso errore.”

Cesare deglutì, ma gli fece comunque un cenno per farlo andare via. Più tardi, rientrando al palazzo dei Numai, ordinò il pranzo nel salone e poi fece richiamare Tiberti.

“Se vi credete tanto bravo – gli disse – andate voi a Forlimpopoli.”

Il cesenate si schiarì la voce: “Ma intendete... Adesso?”

“Mi avete detto voi che non c'è più tempo da perdere!” esclamò il Valentino: “E quindi, prendete una squadra e andate!”

“Ebbene...” la voce di Achille si era fatta improvvisamente più sottile: “Ebbene... Se... Se mi date una colonna...”

“Una squadra scelta.” lo corresse Cesare: “E al massimo un accessorio di qualche guastatore e un paio di cannoni, non di più.”

Tiberti ci ragionò sopra e poi, già prevedendo di prendersi la squadra migliore dell'intero esercito, accettò: “E va bene, lo farò, partirò già prima di sera.” poi, però, appurato che il Duca non aveva altro da dire e che, anzi, sembrava intenzionato a continuare il suo pranzo senza più degnarlo di uno sguardo, l'uomo si tolse la soddisfazione di dire: “Dovreste badare a cosa fanno i vostri soldati, alla rocca... La stanno saccheggiando come sciacalli.”

“Ho detto io di frugarla palmo a palmo.” ammise il Borja: “Di certo quella maledetta ha nascosto i suoi tesori, in quella rocca: da qualche parte devono essere.”

“Se ne siete convinto...” fece Achille, ormai già alla porta: “Ma sappiate che i vostri uomini non stanno solo cercando quello che volete voi. Rubano chiavistelli, cardini, squassano muri per estrarne pietre appuntite e staccano il cotto dai pavimenti e il vetro dalle finestre. Qualcuno di loro è già rimasto ucciso da dei crolli provocati dal saccheggio e non dai cannoni. Tenetelo a mente.”

“Se non la smettono – bofonchiò Cesare, con uno sbuffo indispettito – domani ci penserò io. Ora devo mangiare e poi... E poi ho una cosa da fare.”

 

Caterina si era addormentata senza accorgersene. Quando si ridestò di colpo, con uno scatto improvviso, si rese conto di essere ancora legata al letto del Borja.

Di lui, però, non c'era ancora traccia.

Si sentiva intorpidita. Aveva un po' freddo, perché era vestita poco e senza coperte, e inoltre il fuoco nel camino era spento. Aveva lo stomaco vuoto e la posizione fissa le aveva peggiorato il dolore alla schiena e alle spalle. La fatica della battaglia era ancora tutta nelle sue ossa e, imprigionata com'era, non poteva scuotersela via di dosso.

La ferita le faceva ancora male, ma sembrava essersi quasi rimarginata. Non sanguinava praticamente più.

A conti fatti, però, la cosa più difficile con cui avere a che fare in quel momento, non era il suo corpo che, per quanto martoriato e stremato era resistente come sempre, robusto come una quercia e flessibile come un giunco. Il vero problema era la sua mente. Appena l'incoscienza del sonno lasciava il posto alla realtà, la Tigre sentiva il cuore perdere colpi e la fronte coprirsi di sudore freddo.

Forse, si diceva, il fatto che il Valentino non fosse ancora arrivato da lei stava solo peggiorando la sua condizione. Era come se l'attesa rendesse lo strazio che per certo l'attendeva molto più crudele.

Dalla luce che entrava dalla finestra, la donna immaginò fosse da poco passato mezzogiorno. Era facile perdere la cognizione del tempo, e anche i rintocchi delle campane non l'aiutavano, perché, forse per qualche celebrazione o chissà per cosa, quel giorno continuavano a suonare in modo caotico, impedendole di capire che ore fossero.

Caterina stava ancora cercando di risvegliarsi il più possibile, quando la porta scattò ed entrò Cesare.

Il ventiquattrenne la guardò appena, restando vicino all'entrata. Chiuse l'uscio e si tolse il giubbone, lanciandolo sulla cassapanca.

La Sforza lo osservò con attenzione. Il Borja aveva un viso dal profilo strano, come schiacciato, ma i suoi lineamenti, nel loro complesso, erano molto armoniosi, quasi accattivanti, se non fosse stato per i suoi movimenti nervosi e il brillio scuro dei suoi occhi da sparviero.

Aveva le guance e il mento coperti da una barba castana un po' rada, usata, facile capirlo, per mascherare al meglio i segni del mal francese. Quel dettaglio accrebbe l'avversione che la Leonessa provava verso di lui.

“Ti dai tanta importanza...” cominciò a dire lui, con un sospiro pesante: “Ma alla fine sei solo una vile codarda.”

“Mi hanno chiamata in tanti modi – ribatté subito lei, la voce un po' spenta per via di tutte le ore passate in silenzio – strega, traditrice, assassina, meretrice, mostro, pazza... Ma codarda non me l'ha mai potuto dire nessuno.”

Il Valentino sollevò un sopracciglio e la guardò: “A quanto pare, invece, io posso.”

Le iridi fameliche del giovane passarono in rassegna il corpo della sua preda. Si soffermò un po' sulla coscia fasciata che si intravedeva benissimo sotto la sottile vestaglia che le avevano infilato.

La indagò ancora un po', indovinando tutte le pieghe del suo corpo sotto la stoffa leggera che le incorniciava e poi, con un astio che poco si sposava con la voracità del suo sguardo, disse: “Ti credi una grande stratega solo perché mi hai sottratto i tuoi figli, ma non mi sfuggiranno. Fossero anche sotto la il vaso da notte del Doge, ti giuro che li troverò.”

“Così li pensi a Venezia?” chiese lei, scuotendo piano il capo e muovendo un po' le braccia, tanto per alleviare il formicolio tremendo che quella posizione fissa le stava dando.

“Se non lì, dove?” chiese lui, lasciando trasparire un'inquietudine tanto profonda da far capire alla Tigre che, probabilmente, il non trovare i di lei figli costituiva per lui un rischio incalcolabile.

“Ormai ho perso tutto, no?” fece lei, guardando altrove: “Quindi perché mai dovrei dirti dove sono?”

“Perché posso ancora ucciderti. E posso farti qualunque cosa.” ribatté lui, senza mantenere la calma, anzi, apparendo quasi disperato, come se si stesse rendendo conto di non avere armi contro di lei.

“Fai di me quello che vuoi.” disse infatti lei: “Non mi interessa più. Ma i miei figli non li avrai mai.”

“Ah!” sbottò lui, picchiando una mano contro la parete.

“Ma lo vedi?” rise lei, greve e amara: “Dici che la codarda sono io e poi tu sei qui che quasi te la fai addosso... Non saresti il primo uomo che vedo farsela nei pantaloni davanti ai miei occhi. E guardati... Hai così tanta paura di me che, anche se sono legata, nemmeno ti avvicini.”

“Stai molto attenta a come parli.” l'avvertì lui, sollevando l'indice, ma, di fatto, standosene al proprio posto.

“Non sei migliore del mio primo marito.” continuò Caterina, decisa a non darsi freni, a vomitare addosso al suo carceriere tutto quello che aveva in testa, convinta che, tanto, alla fine non sarebbe comunque uscita viva da quel palazzo: “Hai avuto la meglio, hai abbattuto la mia rocca, lo riconosco. Ma ho visto solo i tuoi soldati, darmi l'assalto. Tu non c'eri. Non ti ho mai visto una volta alla testa del tuo esercito. Anche quando vi attaccavamo, di notte, tu non c'eri mai. Mai una volta che ti abbia visto con la spada in pugno a difendere i tuoi soldati. Mai. Chi manda gli altri a morire per una guerra che ha voluto lui non è un uomo, né un comandante, ma solo un codardo.”

Il Valentino ascoltava, come ipnotizzato. Avrebbe voluto farla tacere, tapparle la bocca e punirla per l'insolenza che stava dimostrando. E invece non riusciva a muovere un muscolo.

“Io non mi concedo più ai codardi.” deglutì la Tigre: “Mio marito Girolamo è stato l'ultimo codardo a usarmi violenza. Tu prova a farlo, e ti assicuro che non uscirai vivo di qui.”

“Ah, sì?” prese coraggio lui, muovendo mezzo passo verso il letto: “E come intenderesti uccidermi?”

Qualcosa, nell'atteggiamento del Valentino, era cambiato. Aveva passato il punto della paura, spinto oltre dalla rabbia. Ed era stata la minaccia della Sforza ad aizzarlo. Caterina se n'era accorta con un secondo di scarto, troppo tardi per impedirsi di gettare altra legna sul fuoco.

“Stai tranquillo, che il modo lo troverei.” gli disse infatti, mostrando i denti in un'ancestrale dimostrazione di aggressività: “Tu e il mio primo marito siete stati condannati dalla stessa sorte: avete creduto che essere parenti prossimi di un papa vi rendesse onnipotenti, ma non avete capito che in questa vita nessuno di noi lo è.”

“Infatti.” sussurrò l'uomo, ormai molto vicino a lei: “Non la sei nemmeno tu.”

Cogliendola di sorpresa, il Duca le afferrò una mano. Legata com'era alla colonnina di testa del baldacchino, la Leonessa poté solo seguire con lo sguardo le mosse del suo nemico. Non provò nemmeno a divincolarsi, perché le spalle le dolevano ancora così tanto da renderglielo difficile.

“Mi dicevano che avevi mani da soldato... Ma queste sembrano più adatte a stringere lance ben diverse da quelle che si usano in guerra...” sogghignò Cesare: “Sicura di non venire da un bordello, come tua madre?”

Sentir tirare in ballo sua madre Lucrezia, i cui natali, in effetti, si perdevano nel torbido, scatenò in Caterina due reazioni diverse. Se da un lato avvertì la collera montarle in corpo con una violenza rara, dall'altro si sentì scoperta, nuda, come se coinvolgere la sua famiglia in quella faccenda la rendesse vulnerabile e fragile come una bambina.

Cercando di sfruttare l'ira per stemperare la paura, la donna lanciò un'occhiata alla mano del Valentino, che ancora indagava la sua: “E le tue? Sarebbero mani da soldato, le tue? Lisce come quelle di un bambino... Sembrano più le mani di un prete, che non di un condottiero.”

Il richiamo alla passata vita ecclesiastica, produsse una reazione immediata nel Borja. In troppi, veramente in troppi, l'avevano dileggiato, all'indomani del suo abbandono della Chiesa, dicendogli che un porporato non era adatto a comandare eserciti.

“Mi avevano detto che eri una donna di poche parole.” le disse, in un sibilo, inginocchiandosi sul letto accanto a lei: “Invece mi pare che parli anche troppo.”

A quel punto la Leonessa poté solo aspettare, immobile, che il Valentino si chinasse su di lei.

Avvicinò le labbra alle sue e, istintivamente, la donna provò a mordergliele. Non le importava altro, se non provare a fargli del male. Era l'unica soddisfazione che potesse prendersi, ormai.

Il figlio del papa, però, si ritrasse appena in tempo e, scuotendo il capo, la redarguì: “Non opporre resistenza. Tanto ormai la tua reputazione è rovinata. Cosa pensi che crederanno, quando si saprà che abbia trascorso giorni interi, e lunghe notti, nella stessa camera, senza uscire mai, accettando appena qualcosa con cui sfamarci?”

“Tu non sai nulla.” ribatté lei, mentre l'uomo, con movimenti cauti, sempre un po' frenati dalla paura, si sistemava meglio, in modo da averla sotto il suo controllo: “Credi davvero che diranno che il Duca di Valentinois è riuscito a sedurre con la forza la Tigre di Forlì, umiliandola? Ah, si vede che non capisci proprio nulla. Di noi due si dirà che io, Caterina Sforza, ho fatto capitolare perfino il figlio del papa ai miei piedi, facendolo impazzire, soggiogandolo con la mia bellezza e il mio indiscusso fascino.”

Cesare non si muoveva, quasi non respirava. Il brevissimo discorso della Leonessa l'aveva atterrito.

Sapeva che, in fondo, non aveva tutti i torti. La sua fama di mangiatrice di uomini era arrivata anche oltre il confine italiano. Che cosa avrebbero detto, alla fine? L'avrebbero deriso? Avrebbero davvero pensato che la Tigre aveva fatto di lui ciò che voleva? La sua unica speranza era avvilirla a tal punto da renderle impossibile mostrare il suo viso altero in pubblico. Doveva punirla per tutto quanto, doveva fare in modo che non si riprendesse mai più dai giorni che avrebbero passato assieme.

Così, con un gesto brusco, si mise sopra di lei, cominciando ad armeggiare con i lacci delle proprie brache. Il modo goffo, tuttavia, in cui lo stava facendo, diede il pretesto alla Sforza di prendersi di nuovo gioco di lui, al solo fine di schernirlo, come a prendersi una soddisfazione effimera, ma di cui aveva un grandissimo bisogno, in un momento simile.

“Cosa c'è?” gli chiese, abbozzando un sorriso: “Non ce la fai? Sei anche impotente, oltre che malato? O ce la fai solo con tua sorella? Mi hanno detto che la bella Lucrecia sia...”

Ma la donna non concluse la frase, perché il Valentino, nel sentir citare la sua amata sorella, era scattato come una molla, dandole un fortissimo schiaffo in pieno volto.

“Sei solo un ragazzino.” fece la Tigre, guardando altrove e trattenendo le lacrime di frustrazione che le stavano inumidendo gli occhi: “Sarai solo uno dei tanti che mi sono portata a letto.”

Il Borja non disse nulla, ma tornò a destreggiarsi con i lacci dei propri abiti. Quella volta, la Sforza lo capì molto bene, non poteva tornare indietro. Lei l'aveva oltraggiato, e lui voleva vendicarsi.

Così la donna fece un sospiro pesante e cerco di rilassarsi. Non ci riusciva. Sapeva, per la lunga esperienza di convivenza con Girolamo, che avrebbe solo sentito più dolore, restando rigida e contratta a quel modo, ma non poteva evitarlo.

La paura, la vergogna e la rabbia si stavano mescolando al ricordo del passato, quando era stata costretta a subire la presenza del suo primo marito, quando, a nemmeno dieci anni, era stata venduta come una schiava.

Ora, al posto di un borioso savonese, c'era un ventiquattrenne dal viso in parte deturpato dal mal francese.

Il Duca ormai era pronto e puntava con decisione verso di lei. La osservava come un cane da caccia avrebbe guardato a un preda morente.

Con un movimento secco, le allargò le gambe, provocandole un piccolo gemito di dolore per colpa della ferita ancora molto sensibile.

Con aria soddisfatta, il Borja le chiese, sgrezzo: “Ma come, fai tutte queste storie? Ma non eri tu quella così affamata da passare in rassegna i membri del tuo esercito ogni notte, anche due per volta? E adesso fai quella faccia da suora?”

La Leonessa ebbe un fremito. Avrebbe voluto riversagli addosso tutti gli improperi che conosceva, avrebbe voluto strapparsi le mani, pur di non essere più inchiodata a quel letto, e ammazzare il Valentino con le sue mani. Le faceva così schifo pensare che la stesse toccando, che presto l'avrebbe fatta sua, che stessero anche solo respirando la stessa aria, che avrebbe fatto di tutto, pur di andarsene.

Stringendole il collo con una mano, le fece presente: “Prova a mordermi o a farmi altri scherzi, e morirai strangolata su questo letto. Intesi?”

E prima ancora di finire la frase, l'uomo si insinuò tra le sue cosce, strappandole un suono sordo, di rifiuto e dolore allo stesso tempo, ma al quale non seguì altro.

L'immobilità statuaria della donna che stava sotto di lui lo stava mettendo, suo malgrado, molto a disagio. Tanto da rendergli difficile continuare. Aveva già preso delle donne con la forza, ma tutte si erano dimenate, lamentate e avevano cercato di sottrarglisi. La Tigre, invece, sembrava del tutto indifferente alla sua presenza.

“Allora?” chiese lui, la voce appena spezzata: “Tutto qui? Quelli che parlano di te ti descrivono come una belva, a letto... E invece sembri un pezzo di legno. C'è davvero da accapigliarsi tanto per avere così poco?”

A Caterina veniva da piangere, ma voleva sopportare. Non voleva dargli la soddisfazione di farsi vedere sconfitta anche in quel versante.

Facendo ricorso a tutte le sue risorse, provò, anzi, a sfruttare quella situazione a suo favore. Forse, pensò, giocandosela nel modo giusto, sarebbe riuscita almeno a farsi slegare i polsi.

“Come puoi pretendere che sia più di questo – ribatté, il respiro accelerato più per la tensione che per altro – se mi tieni con le braccia legate al letto e una mano stretta al collo? Slegami, e ti farò vedere cosa so fare.”

Il Duca parve combattuto. Non c'era gusto a continuare a quel modo, ma poteva davvero fidarsi e lasciarla in parte libera?

Alla fine scosse il capo e, ricominciando come nulla fosse, sbottò: “Al diavolo... Mi vuoi solo far fesso.”

“E allora – concluse lei, pregando solo che il Borja facesse il più in fretta possibile – accontentati di questo, perché da me non avrai altro.”

 

Era ormai sera. Piero Landriani guardava l'orizzonte cercando di scorgere qualcosa che i suoi occhi ancora non potevano vedere.

Gli arrivata, con quasi un giorno di ritardo, la notizia che la rocca di Ravaldino era stata come aperta in due, invasa e presa. Il forlivese che gli aveva raccontato il tutto, un povero manovale rimasto anche ferito nello scontro, aveva negli occhi ancora la paura di quei momenti. Gli aveva detto di aver visto portare via Caterina, intorno alle due di notte.

“L'ho vista andare in città – gli aveva detto, mentre la ferita e la fatica cominciavano ad avere la meglio su di lui – e son certo che sia stata portata a palazzo Numai, perché è lì che il figlio del papa ha preso dimora.”

Il giovane l'aveva ringraziato per essere subito corso lì a Forlimpopoli a riferirglielo. Avrebbe voluto sapere più cose, capire meglio, avere la certezza che, anche se prigioniera, sua sorella era viva.

E invece, proprio mentre si sforzava di indovinare nelle ombre dell'orizzonte, capì che non avrebbe avuto né tempo né modo per cercare notizie su Caterina: il nemico era arrivato.

“Doppia guardia.” mormorò al suo secondo, che era già stato istruito a dovere su come gestire un eventuale assedio, e che avrebbe preso il suo posto, nel caso in cui Piero fosse morto: “Puntate i cannoni che abbiamo e aspettiamo. Che siano loro a fare la prima mossa.”

Il soldato annuì e si affrettò a far eseguire l'ordine agli uomini. Il Landriani, intanto, con un respiro fondo, annusò l'aria della sera. L'odore dei campi ghiacciati gli riempì le narici. La campagna, in momenti come quelli, sapeva regalare sempre degli aromi indimenticabili.

Deglutendo, Piero raddrizzò un po' le spalle e poi, lasciando le merlature della sua rocchetta, tornò un momento nei suoi alloggi. Sapeva che sarebbero passate ore, se non addirittura giorni, prima che il nemico arrivasse a loro. Voleva mettere insieme le idee, affrontare la prova che l'aspettava con animo saldo. Voleva dimostrare a se stesso di essere un uomo vero, e non un vigliacco: avrebbe combattuto fino alla morte, così come aveva promesso a Caterina.

Con un fugace pensiero rivolto a lei, il ragazzo si prese ancora qualche minuto, per pregare e poi, ben deciso a vegliare come meglio poteva sui suoi uomini – così pochi, rispetto a quelli che per certo i francesi avrebbero scatenato loro addosso – tornò sui camminamenti.

'Succeda quel che succeda – si disse, mentre tornava a guardare l'ombra confusa della colonna nemica che entrava in città senza trovare resistenza alcuna – si potrà dire che la rocca di Forlimpopoli è stato l'ultimo avamposto dello Stato della Tigre.'.

 

“Il Duca è chiuso in quella stanza con lei da ieri, dopopranzo.” disse piano l'Aubigny, guardando verso la porta: “Non credo che sarebbe così sbagliato, provare a bussare...”

“E se lo infastidissimo?” chiese il Vendôme, che, malgrado tutte le belle parole che aveva speso in favore della Tigre, non sembrava troppo desideroso di aiutarla, se ciò significava andare contro il volere del Valentino.

Entrambi avevano parlato in italiano solo per riguardo a Luffo che, avvertendo in loro la vaga intenzione di togliere la Sforza dalle grinfie di Cesare, si era subito offerto di appoggiarli, e li aveva scortati fino al piano di sopra.

“E che diamine...” borbottò il Balì di Digione che, tra tutti, era quello più mosso dal denaro che non dall'intento di soccorrere una donna in difficoltà: “Prima mi ruba la prigioniera, poi non mi paga il riscatto promesso, e ora noi dovremmo anche preoccuparci di disturbarlo, quando i suoi soldati stanno facendo un disastro, con i resti di Ravaldino?”

In effetti, quel martedì mattina, il piccolo gruppo di francesi che discuteva assieme a Numai fuori dalla porta della stanza del Borja era stato mosso più da un motivo pratico, che non etico.

Quel giorno, infatti, i soldati francesi avevano continuato a perquisire e rubare tra le macerie della rocca e altri, come il giorno prima, erano finiti schiacciati da pezzi di muro o altro.

“Forse, se con noi ci fosse stato anche Monsignor d'Alégre...” borbottò il Vendôme, pavido.

“L'Alégre – ribatté secco il Balì – è andato a Forlimpopoli con Achille Tiberti proprio per non dover prendere parte a questa cosa... Eppure, un modo per farcela ridare, dobbiamo trovarlo.”

“Sentite, io provo a bussare.” tagliò corto l'Aubigny, che non aveva intenzione di passare tutta la mattina davanti alla porta, in attesa che il Valentino si presentasse spontaneamente.

Diede appena tre colpi e subito l'uscio sui spalancò. Ad aprire era stato il Borja, a torso nudo, con indosso solo le brache. Aveva il volto segnato, come se non avesse chiuso occhio per tutta notte, ma dalla sua espressione era difficile dire se la veglia fosse stata o meno piacevole.

“Che volete?” chiese, senza rivolgersi a nessuno in particolare.

Luffo, fattosi piccolo piccolo dietro ai francesi, cercava di vedere oltre la spalla del Duca. Fu solo un istante, prima che Cesare richiudesse la porta proprio per evitare agli altri di allungare il collo per vedere dentro la camera. Numai aveva intravisto la sua signora ancora legata al letto, completamente nuda, i capelli arruffati, il corpo immobile. Se non fosse stato per un fondo di ottimismo che non voleva abbandonare nemmeno davanti all'evidenza, avrebbe potuto credere che fosse addirittura morta.

Con un peso sul cuore indefinibile, il forlivese non riuscì nemmeno a seguire il discorso serrato che si accese tra i francesi e il Borja. Non riusciva a pensare ad altro che a ciò che stava accadendo alla sua signora, e sapere di non poter fare quasi nulla per lei lo annichiliva.

“E va bene!” sbottò alla fine il Duca di Valentinois, facendo tacere in un colpo il Vendôme, il Balì di Digione e anche l'Aubigny che, diversamente da come era solito fare, si era messo a parlare assieme agli altri aumentando la confusione: “Emetterò subito un bando pubblico! Ordinerò che tutti vengano cacciati dalla rocca a viva forza, farò levare i ponti, per impedire che altri vi si avvicinino, e, anzi, istituirò pene gravissime per chiunque oserà anche solo avvicinarsi alla rocca o alla cittadella!”

I tre con cui aveva discusso rimasero in silenzio, guardandosi l'un l'altro, un po' sorpresi dalla rabbia con cui il Valentino aveva sputato quelle parole. Stavano quasi per chiedere maggiori dettagli a riguardo di quelle disposizioni urgenti, ma il Borja li precedette.

“Scenderò più tardi per redigere l'atto, ma ora ho da fare.” concluse.

Riaprì la porta e per un attimo ancora Luffo riuscì a scorgere all'interno. Caterina, in quel momento, stava guardando verso l'uscio e i loro sguardi si incrociarono.

Per la Tigre fu come un lampo. Anche se era lontano, aveva potuto leggere sul viso del suo Consigliere prediletto tutta una serie di emozioni che la sprofondarono ancora di più nella desolazione. Tuttavia, vedere qualcuno così in pena per lei le diede anche sollievo. Era come se fosse stata meno sola.

“Quei pidocchi...” brontolò il Borja, massaggiandosi il collo: “Non vogliono prendere ordini da me, ma appena succede tanto così, corrono qui a pigolare come pulcini con la chioccia.”

La Sforza non disse nulla, perpetrando il mutismo in cui si era chiusa già il pomeriggio prima. Il suo aguzzino l'aveva pretesa non una, ma tante volte, lasciandola stremata nell'animo, oltre che nel corpo. Aveva permesso solo un paio di volte a una serva di entrare per aiutarla a usare il vaso da notte e per darle un calice d'acqua. Per il resto, erano sempre rimasti insieme.

Nessuno dei due aveva avuto il coraggio di dormire, in presenza dell'altro e, come risultato, erano arrivati a metà mattina del martedì stremati.

Il Valentino bevve una coppa di vino. Si era fatto lasciare una brocca l'ultima volta che una domestica era entrata per assistere la Sforza. L'uomo sentì la gola bruciare e tossicchiò due volte.

“Ho mandato Achille Tiberti a Forlimpopoli.” disse piano, controllando con la coda dell'occhio la reazione della sua prigioniera: “Gli ho fatto presente di fare un buon servizio a tuo fratello.”

La Leonessa dovette trattenere un singulto, all'idea che Piero era a un passo dalla disfatta. Però, tacque.

“Continua a non parlarmi, fai come vuoi.” mormorò il Borja, scuotendo il capo e versandosi di nuovo da bere: “Ti farò sapere quando la testa di tuo fratello finirà su una picca.”

Ancora una volta, la Tigre tenne per sé i propri pensieri, ma non poté impedire a una lacrima di scivolarle via dagli occhi. La sentì passare, rovente, sulla tempia e sull'orecchio, ma non poteva asciugarsela, perché era ancora immobilizzata.

“Ah, mi hanno detto che è stato trovato morto anche un certo Cardella. Tuo cancelliere.” riprese il Valentino, afferrando il camicione e cominciando a vestirsi, pensando che prima avesse scritto il nuovo bando, meglio sarebbe stato per tutti: “L'altro tuo fratello, Alessandro... Ha una ferita alla testa, ma non è nulla di grave, purtroppo. Mentre quel tuo bel comandante, quel milanese...”

Capendo che il soggetto era Giovanni da Casale, la Sforza si fece più attenta. Era combattuta: da un lato avrebbe voluto saperlo morto tra atroci sofferenze, dall'altro, invece, sperava di saperlo in salute.

“Ah!” rise cupo il Duca: “Quello ha una lingua più sciolta di quella di una comare. Con tutto quello che ci sta dicendo su di te e sul tuo Stato, scommetto che a breve ci dirà anche dove trovare i tuoi figli e come fare a catturarli.”

Caterina strinse i denti. Voleva solo che il Borja se ne andasse da quella stanza. Voleva aver tempo di pensare, di riposare. Si sentiva sporca. Avrebbe voluto potersi lavare. Fu tentata di chiedere un bagno. Di certo, però, non gliel'avrebbero accordato.

“Allora?” la incalzò il Duca, ormai già alla porta: “Non dici nulla nemmeno del tuo caro Giovanni da Casale? Era così bravo, con la lingua, anche quando te lo portavi a letto?”

“Verrà il giorno in cui io saprò della tua morte – promise la Sforza, con voce bassa e arrochita, sorprendendo Cesare, che ormai credeva di non riuscire più a farle aprir la bocca – e ti giuro che quando capiterà, riderò, berrò vino e festeggerò come se avessi vinto una guerra.”

Impressionato come sempre dalle parole lapidarie e dal tono profetico della sua preda, il figlio del papa non volle continuare il discorso. Fece un cenno con il capo e uscì, senza aggiungere nulla.

Rimasta sola, la Tigre si abbandonò a un pianto silenzioso e dirotto, in cui il dolore per la propria condizione si univa a quello per il fratello e alla delusione cocente di scoprire in Pirovano un simile delatore.

Senza accorgersene, dal pianto passò al sonno, cadendo in un dormiveglia agitato, burrascoso, fatto di incubi e brevi risvegli, che le rendevano impossibile capire se le fosse più penosa la veglia o l'incoscienza.

 

 
   
 
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