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Autore: Adeia Di Elferas    04/06/2020    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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L'Alégre era arrivato a Forlì verso le cinque del mattino e, dalla confusione che aveva trovato non appena varcate le porte della città, aveva capito di aver fatto bene a partire non appena ricevuto il messaggio del Borja.

Aveva chiesto, lungo la via per il palazzo dei Numai, cosa fosse accaduto, ma i soldati che incontrava sapevano solo dirgli la mezza Messa, passando dal riferire che il Balì di Digione aveva strappato la Tigre dalle mani del Valentino, ad assicurare che era stato il Valentino a voler consegnare la donna al Balì.

Confuso, Yves raggiunse la sua destinazione. Numai lo accompagnò personalmente fino alla stanza in cui alloggiava Cesare, e lo lasciò davanti alla porta, facendogli solo presente che il Duca era molto adirato e scosso per quanto accaduto.

L'Alégre bussò un paio di volte, ma dovette dire il suo nome, per farsi aprire. Una volta appurata l'identità del nuovo arrivato, infatti, il figlio del papa lo fece entrare immediatamente e, parlando veloce come il vento, gli riferì in ordine sparso tutto quello che era successo.

Con il passare delle ore, gli abitanti di casa Numai cominciarono a impensierirsi, perché dalla camera giungevano grida di rabbia e risposte altrettanto urlate. I brevi momenti di silenzio, poi, lasciavano intendere che il Valentino e il francese si stessero azzuffando.

Solo a mattina fatta – quando già il Balì di Digione era arrivato a reclamare il seguito della Sforza come proprio ostaggi al pari della Tigre – Cesare e Yves uscirono dalla camera.

“Si faccia come dite voi.” concesse il Borja, scuro in viso, sputando ogni parola come se gli costasse una fatica immensa.

“E sia, allora.” concluse l'Alégre, che, invece, sembrava essersi liberato da un grosso peso: “Oggi, dopo il pranzo, ci si incontrerà tutti in piazza, ci confronteremo civilmente e civilmente decideremo.”

“Fate presente ai vostri amici clarissimi – soffiò il Valentino, mentre il suo interlocutore già raggiungeva il piano di sotto – che c'è più in gioco che non solo l'onore del re di Francia.”

Yves fece un breve cenno con il capo e poi, sistemato il mantello sulle spalle, lasciò il palazzo dei Numai, per andare a parlamentare con il Balì di Digione e con tutti quelli che gli avevano dato manforte nella sottrazione della Leonessa.

Bisognava trovare, a suo avviso, un accordo che non scontentasse nessuno, ma, per farlo, avrebbe dovuto smussare le spigolature di tutti gli uomini coinvolti in quella che gli pareva quasi la tratta di una schiava.

 

Quando Caterina vide la porta aprirsi, ebbe un istintivo moto di paura che, però, si stemperò immediatamente nel vedere entrare Argentina e una delle sue vecchie sguattere di cucina. Portavano con sé un paio di piatti e una brocca di acqua fresca.

“Mia signora..!” fece la prima, avvicinandolesi in fretta e tenendo una mano verso di lei, come a volerle accarezzare il volto.

La Tigre, senza riuscire a trattenersi, si ritrasse. Era ancora troppo vivida la sensazione delle dita del Borja su di sé, per accettare serenamente che qualcuno la toccasse, fosse anche la sua cameriera personale.

“Noi donne stiamo bene, anche le figlie di Dianora. Messer Baccino voleva accompagnarci qui da voi, ma non gliel'hanno permesso.” spiegò Argentina, ritirando subito la mano, intuendo il motivo della ritrosia della signora a farsi anche solo sfiorare.

“Comprensibile.” commentò piano la donna.

“Siamo state mandate qui per aiutarvi a vestirvi per il giorno – disse a quel punto la sguattera di cucina – e noi abbiamo subito accettato per vedere come stavate.”

“Sto bene.” mentì la Leonessa: “Sto bene...”

“Cosa succederà ora, mia signora?” domandò Argentina, stringendo un po' gli occhi, ben sapendo che nessuno meglio della Sforza poteva immaginare le prossime mosse dei francesi e del Borja.

Caterina, che si era intanto messa seduta sul letto, ancora debole, ma con un certo appetito, prima di rispondere, disse: “Potete darmi da bere e qualcosa da mangiare?”

Le due donne si affrettarono subito a versarle un calice d'acqua e a metterle in grembo un piatto colmo di formaggio, pane e carne pasticciata.

“Quello che succederà adesso – fece a quel punto la Leonessa, masticando lentamente la sua ricca colazione – è difficile da capire, specie per me, che sono stata chiusa in una stanza per più di una settimana.”

Un po' delusa da quelle parole, Argentina stava già per tranquillizzarla, scusandosi, anzi, per averle posto un simile quesito, senonché la sua signora riprese subito il discorso.

“Per quel poco che ho visto stanotte – spiegò la Sforza – io sono ancora in vendita. Il Balì mi ha portato qui a forza, ma credo che con i dovuti modi e le giuste promesse, il Borja potrebbe ancora rimettermi le mani addosso.”

Preoccupate, la serva e la sguattera si scambiarono uno sguardo teso. Nessuna delle due osava dire una parola.

Ci pensò Caterina a toglierle d'impaccio, dicendo: “In un modo o nell'altro, adesso il mio è diventato un vero e proprio caso. Anche se mi prendesse di nuovo sotto la sua custodia, il figlio del papa non potrà più farmi quello che mi ha fatto in questi giorni. E se ci provasse...”

La Tigre deglutì e, prendendo un pezzo di pane, lo strinse così forte da sbriciolarlo. Quel gesto bastò alle sue sedicenti dame da compagnia per capire cosa avesse intenzione da fare a Cesare, nel caso in cui lui avesse cercato di costringerla di nuovo ad assecondare le sue voglie.

“A ogni modo – sussurrò la Leonessa, dopo che si fu rifocillata – tenete gli occhi aperti. Ormai, temo che in buona parte il vostro destino sarà strettamente legato al mio. Se mi porteranno a Roma, cosa che credo probabile, porteranno a Roma anche voi.”

Argentina deglutì: “A Roma?” chiese, sforzandosi di sdrammatizzare, per quanto fosse difficile farlo: “Non ho mai visto la città dei papi. Chi avrebbe mai detto di poterlo fare alla mia età...”

 

La piazza cittadina era stata scelta come campo neutro, ma il Borja capì fin dai primi momenti quanto quella scelta fosse per lui disagevole.

Avevano mangiato tutti prestissimo, e dunque da poco passato mezzogiorno, sia lui sia i generali francesi con cui doveva discutere, avevano raggiunto il punto pattuito e si erano messi a ragionare.

Per non essere troppo ascoltati dai – pochi – forlivesi curiosi accorsi a vedere quello strano spettacolo, Cesare, il Balì, il Vendôme, l'Alégre, l'Aubigny e tutti gli altri, si erano messi a passeggiare l'uno affianco all'altro avanti e indietro, coprendo l'intero perimetro della piazza più e più volte.

Se all'inizio, però, il clima tra quegli uomini pareva se non disteso, quantomeno propositivo e volto a trovare una soluzione, dopo circa mezz'ora i toni cominciarono a riscaldarsi molto rapidamente.

“Questo è assurdo!” sbottò all'improvviso Antonio di Baissay: “Madama non può essere consegnata e abbandonata al Duca come prigioniera!”

“E perché no?!” ribatté il Valentino, smettendo di colpo di camminare, inducendo così anche tutti gli altri a fermarsi.

“Perché – rispose prontamente il Balì, fronteggiandolo – prigioniera non potrà essere mai, perché le leggi di Francia non consentono di tenere in prigionia le donne prese in guerra, né permettono che a loro venga usata violenza o anche solo scortesia!”

“Andatelo a raccontare a tutte le donne che i vostri soldati hanno picchiato, violato e ammazzato nella strada che dalla Francia li ha portati fino a qui.” fu il commento secco del figlio del papa, che, tuttavia, cominciava a sudare freddo, non sapendo come recuperare terreno.

“La Contessa – riprese Antonio, usando volutamente quel titolo, affinché il Borja capisse che, per lui, la destituzione dei Riario fatta dal papa contava meno di un soldo bucato – si è arresa: si è affidata alla Francia. Un mio soldato l'ha presa, un mio soldato, Duca. Sul mio onore, non posso lasciarla nelle vostre mani di nuovo.”

Come in un pollaio disordinato, tutti i francesi e i generali che partecipavano a quell'incontro solo apparentemente informale cominciarono a beccarsi e starnazzare, chi a favore della linea del Balì, chi, invece, riconoscendo i diritti di Cesare su una preda tanto particolare.

“Io non mi so dare pace!” sbraitò Antonio, tacitando tutti gli altri, con voce tanto tonante da far quasi rimbombare il cielo coperto di nuvole: “La Contessa non può, ripeto, non può essere trattenuta, se non che in semplice deposito! E il deposito spetta a me e non al Duca!”

“E chi è, dunque, il capo supremo di questa guerra?” chiese il Valentino, approfittando del momento di silenzio: “A nome di chi avete combattuto?”

Quella domanda, sebbene posta direttamente al Balì di Digione, risuonò nelle orecchie di tutti i presenti come un'accusa molto personale fatta a ciascuno dei presenti.

“Questa guerra – continuò il giovane, alzando il tono e assumendo una postura più ritta, decisa, da vero comandante in carica – è fatta in nome mio e non in nome del re di Francia. Le sue genti non sono che ausiliarie. E se mio è il frutto della vittoria, mie le città e le rocche espugnate, miei ancora sono i prigionieri di guerra.”

Era la prima volta, a memoria dei generali francesi, che il Duca di Valentinois si atteggiava come un vero capo. L'autorevolezza e la sicurezza in sé che stava dimostrando con quell'arringa stupiva tutti. Abituati a considerarlo un raccomandato e un incapace, nel sentirlo reclamare senza arroganza, ma solo con fermezza il proprio ruolo centrale in quella campagna, tutti rimasero attoniti e quasi spaventati.

Solo il Balì non sembrava essere in soggezione davanti al nuovo volto del Borja, e gli rispose in modo scurrile e violento, accusandolo di essere solo il figlio del papa e di non capire nulla né di guerra né di legge, e nemmeno di donne.

Cesare non restò zitto e, parimenti al suo rivale, si abbandonò a tutte le più volgari recriminazioni che conosceva, arrivando a scomodare perfino i parenti di terzo grado di Antonio di Baissay.

Era passata quasi un'ora, dall'inizio della disputa, quando il Balì sorprese tutti con una mossa inattesa. L'uomo chiamò a sé uno dei suoi ufficiali e, gli ordinò, senza possibilità d'appello, di far venire i suoi soldati in piazza.

Senza che nemmeno il Valentino sapesse come gestire la cosa, nel giro di pochi minuti le squadre che erano agli ordini del Balì si schierarono, in assetto di battaglia, nel centro della piazza. Coperti da corazze che rilucevano alla luce plumbea di quel mercoledì 22 gennaio, rizzarono le lance, innalzarono le loro bandiere e poi si schierarono, ordinati e velocissimi, in fila davanti al palazzo dei Riario, dandogli le spalle, come a volerlo proteggere da un nemico invisibile.

I pochi forlivesi che erano arrivati per curiosare, nel vedere i soldati svizzeri piazzarsi a quel modo, temendo di essere vicini a una nuova carneficina, se la diedero a gambe, alcuni scappando direttamente a casa, altri cercando perfino di raggiungere le porte della città. Certi, addirittura, sostenevano che si sarebbero lanciati dalle mura cittadine assieme alle mogli e ai figli, pur di scampare a un nuovo sacco.

L'Alégre, che fino a quel momento non era riuscito a impersonare a dovere il ruolo di pacere che lui stesso di era imposto, vendendo come la situazione stesse degenerando in fretta, sollevò le mani, per richiamare l'attenzione di tutti.

“Aspettate!” gridò: “Lasciate che faccia da conciliatore! Non lasciate che questa contesa conduca a certe estremità! Ho dei patti che possono accontentare l'uno e l'altro e scontentare nessuno dei due!”

Tanto Antonio – che non avrebbe in realtà saputo che fare, dopo quello sfoggio muscolare – quanto il Duca, che invece iniziava a temere non solo per il proprio potere, ma anche per la propria vita, ebbero un attimo di esitazione, ma poi, con un ampio gesto della mano, concessero a Yves di esporre la sua idea.

Così l'Alégre si schiarì la voce e, sperando davvero di aver trovato la soluzione migliore per tutti, Tigre compresa, enunciò: “Madama Caterina Sforza non rimarrà prigioniera di alcuno, ma rimarrà suddita del re di Francia, il quale sarà unico arbitro del suo destino. Il qui presente Balì di Digione restituirà la Contessa al Duca, il quale, però, dovrà tenerla con sé solamente in deposito, a nome del papa, senza più poter usar violenza contro di lei, né scortesia costringendola al digiuno o altre imposizioni. Inoltre, il Duca sborserà immediatamente al Balì una paga e mezzo per i suoi soldati, che è quello che gli deve.”

Il silenzio che accolse, da ambo le parti, le sue parole, lo fece sudare freddo. Solo quando sia il Borja sia Antonio chiesero quali garanzie avessero del fatto che l'altro avrebbe mantenuto l'accordo, Yves capì di aver fatto centro.

Così, senza farsi troppi problemi, rispose immediatamente: “Mi faccio io mallevadore per entrambe le parti dell'esecuzione di questi patti.”

Sollevati entrambi per aver trovato una via di scampo a quell'impaccio, il Duca e il Balì accettarono la proposta.

Quest'ultimo, a dimostrazione della propria buona volontà diede un ordine veloce al suo ufficiale, e in un lampo i suoi soldati svizzeri lasciarono la loro postazione a difesa del palazzo.

“Ve la riporterò subito.” concluse Antonio da Baissay, guardando ancora con diffidenza Cesare, mentre suonavano le due del pomeriggio: “Ma se scopro che la trattate di nuovo come prima, non esiterò a strappare i patti e riprendermela.”

“Mi sembra giusto.” soffiò il Valentino, abbozzando addirittura un sorriso, come un gatto che, bene o male, fosse infine riuscito a prendere il topo, pur con l'ordine di non mangiarlo.

 

Caterina era stata risvegliata di colpo dall'ingresso in stanza di Argentina e di altre due ragazze che conosceva a mala pena.

“Dobbiamo farvi indossare la camora nera – spiegò la sua domestica personale – perché dobbiamo spostarci e il Balì di Digione dice che dovete essere elegante, per non far vedere al vostro popolo quanto avete sofferto.”

Quella spiegazione alla Leonessa apparve più che strana, ma era così stanca da non riuscire a farsi troppe domande. Prima di infilare l'abito, volle mangiare ancora qualcosa di ciò che gli era stato lasciato in camera a mezzogiorno.

Si lasciò pettinare con cura e, quando fu pronta, andò da sola fino alla porta, con le tre donne del suo seguito a un paio di passi di distanza, dietro di lei.

“Dobbiamo prima passare un momento al palazzo dei Numai.” le disse Antonio di Baissay, un po' elusivo, quando la vide arrivare al portone di casa Paolucci.

La Sforza, ancora una volta, si sentiva troppo debole e scossa per riuscire a ragionarci sopra con mente lucida. Aveva visto che, assieme a lei, erano state fatte preparare tutte le donne che aveva provato a salvare e, con loro, anche Baccino. Aveva incrociato con lui lo sguardo per un istante appena, e poi, non reggendo quel contatto visivo, era stata lei a guardare altrove per prima.

Il fatto che tutte le sue sedicenti dame di compagnia e il presunto coppiere facessero parte del corteo le lasciava sperare che si stessero davvero spostando da Forlì. Con ciò, non capiva la necessità di andare a palazzo Numai.

Attraversarono la via con passo lento, soprattutto per permettere a lei di non restare indietro. C'era qualche curioso, come capitava sempre. Tra di essi, la Leonessa lo scorse immediatamente, c'era anche Andrea Bernardi.

L'uomo che, anni prima, era stato una delle colonne portanti della sua sicurezza e del suo potere sul popolo, ora era lì, smunto e muto, assieme a tutti gli altri a fissarla come se fosse in presenza di una belva selvatica ridotta finalmente in catene.

Il Novacula, di contro, sentiva le lacrime lambirgli gli occhi, mentre osservava la sua signora andare verso il palazzo dei Numai. Come tutti quelli che avevano ardito restare in piazza fino alla fine, sapeva che la donna stava per tornare nelle grinfie di Cesare Borja.

La cosa che gli faceva più male era immaginare che la Tigre, così avvolta nel suo abito alla turca di raso nero, e coperta da un velo di bambace segugiato, non avesse idea di quello che avevano tramato alle sue spalle.

Una volta arrivati, il Balì si schiarì la voce e le disse: “Entrate un momento assieme a me, ve ne prego.”

“Perché?” la voce di Caterina si era fatta acuta.

Non voleva entrare di nuovo per nessuno motivo nel palazzo in cui era stata la prigioniera del Valentino.

“Vi prego...” borbottò lui: “Già ho faticato ad avervi in consegna... Se non faccio mostra di tenervi sempre con me, mi accuseranno di essere negligente e qualcuno potrebbe chiedere che si cambi custode, e non credo che ciò vi gioverebbe...”

Poco convinta, ma vedendo i soldati svizzeri che la circondavano impugnare le armi con maggior forza, come se avessero paura di doverle usare a breve, la Sforza fu costretta ad accettare.

“Va bene.” sussurrò: “Ma facciamo in fretta.”

Entrare nella casa di Luffo, una dimora che, prima di quel disgraziato gennaio, la Leonessa aveva sempre collegato a feste e ricevimenti o visite private al suo Consigliere prediletto, le fece subito tremare le gambe.

Le sembrava che l'odore del Valentino fosse ovunque, così come la sua aura. Anche se nel salottino in cui era stata accompagnata dal Balì non c'era traccia reale della presenza del Duca, lui permeava ogni angolo.

“Madonna...” sussurrò a quel punto Antonio, guardandola di soppiatto e lanciando un'occhiata significativa anche alle due guardie che aveva portato con sé per sicurezza: “Io qui vi debbo lasciare.”

“Come?” chiese Caterina, che, in realtà, aveva capito benissimo, ma non poteva, non voleva credere che l'uomo che aveva fatto tanto strepito pur di strapparla al Borja, la stesse riportando proprio lì, nella tana del lupo.

“Se vi state prendendo gioco di me – riuscì a dire, con la voce ridotta a uno stridulo gracchiare – vi dico che è un gioco crudele.”

“In sostanza – cercò di spiegare il francese, edulcorando come possibile la situazione – dovrete rimanere come prima in potere del Valentino, ma ora siete suddita del re, non più prigioniera del figlio del papa, che invece vi ha solo in deposito...”

Antonio non riuscì a finire la frase come avrebbe voluto perché, prima che potesse farlo, la Tigre era svenuta di colpo e lui aveva dovuto sorreggerla per evitarle di rovinare al suolo.

Siccome la milanese tardava a riprendersi, il Balì – pur sempre uomo molto pragmatico – ne approfittò per farla trasportare fino alla stanza in cui sarebbe stata rinchiusa.

Dopo varie discussioni, il Borja aveva imposto che la camera prescelta fosse la medesima in cui era stata tenuta prigioniera prima, ma aveva giurato solennemente che lui ne avrebbe occupata un'altra e che non avrebbe importunato in alcun modo la Sforza. Il francese non era del tutto convinto della buona fede del figlio del papa, ma aveva dovuto fidarsi alla cieca e accettare.

Caterina si riprese solo dopo qualche minuto ancora e, quando si risvegliò, si trovò adagiata su un letto che riconobbe subito.

Preda dell'orrore, scattò in piedi e, come una furia, si avventò sul Balì e sulle due guardie che erano lì presenti in attesa del suo risveglio. Gridava insulti, minacce, implorazioni: non sapeva più nemmeno lei come fare per placarsi. Si vergognava della sua reazione, ben diversa da quella moderata o glaciale che avrebbe voluto avere, in spregio al Borja e ai suoi tirapiedi, ma non riusciva a smettere di piangere, gridare e chiedere pietà.

“Perdonatemi, perdonatemi...” continuava a balbettare il Balì, non appena la donna venne resa inoffensiva dai due soldati che, per impedirle di ferire davvero Antonio, l'avevano afferrata uno per parte, storcendole le braccia dietro la schiena: “Perdonatemi davvero. Ne sono dispiaciuto, oltremodo dispiaciuto...”

“Mi ci pulisco le terga, con il vostro dispiacere!” ululò la Sforza, cercando di scalciare l'aria, per arrivare al Balì.

“Il tenore dei nuovi patti – provò a schermirsi l'uomo – è tale per cui voi qui non rischiate nulla, voi non...”

“Corrotto dall'oro!” accusò la Sforza, tirando a indovinare e capendo di averci azzeccato, da come il suo interlocutore sbatté le palpebre in modo febbrile: “Avete approfittato della mia cieca fede, portandomi qui senza che potessi oppormi! Mi avete abbandonata! Mi avete tradita, restituendomi a un mostro! Corrotto! Corrotto!”

Mentre la Leonessa ancora ripeteva quella parola, corrotto, facendola entrare nella testa e nell'anima del Balì, l'uomo le voltò le spalle e lasciò in fretta la camera, senza dire più nulla.

Le due guardie, vedendo come la prigioniera, di colpo, smetteva di opporre resistenza, la lasciarono e imitarono il loro signore. Davanti alla porta della camera da letto erano già comparsi due cagnacci del Borja, che avrebbero avuto molta cura di non far scappare la Tigre.

Caterina, rimasta sola in una stanza che conosceva ormai anche troppo bene, cercò di liberare la mente e ragionare, ma riusciva a pensare solo alla paura che l'attanagliava. Non voleva rivivere l'incubo in cui si era trovata rinchiusa per oltre una settimana.

Piangendo in silenzio, si sedette per terra, contro il muro – tutto, pur di non stare più in quel maledetto letto a baldacchino – e, stringendosi le gambe contro al petto, si mise ad attendere.

Qualunque cosa fosse accaduta, giurò a se stessa, non avrebbe mai più permesso al Valentino di metterle le mani addosso, anche a costo di morire nel tentativo di impedirglielo.

 

 
   
 
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