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Autore: Adeia Di Elferas    05/07/2020    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Il corteo trionfale del Duca di Valentinois aveva fatto da pochissimo il suo ingresso a Roma, varcando la Porta del Popolo con passo cadenzato, e già aveva dovuto rallentare enormemente la propria andatura.

Non solo i comuni abitanti di Roma, incuriositi da quell'avvenimento, si erano schierati lungo la via, ma un esercito vero e proprio di prelati, dignitari e ambasciatori si erano grossolanamente affiancati a coloro che sfilavano, creando confusione e riducendo la velocità di tutti.

Il motivo funebre – dal ritmo ormai sfasato rispetto all'incedere dei vincitori – che era stato ufficialmente scelto per dimostrare il cordoglio ancora vivissimo di Cesare per la morte del Cardinale Juan Borja, suo parente, dava un tocco di irrealtà a quella scena.

In testa a tutti c'erano ben cento carri, che aprivano la strada agli altri. Erano coperti da pesantissimi drappi neri, abbastanza lunghi da ricadere sui lati, ricordando dei panneggiamenti da catafalco. Insomma, anche solo vedendo quelli, appariva chiaro l'intento del Valentino. Quella, più che una marcia trionfale, doveva sembrare un corteo funebre. Il motivo reale, però, ai più dei presenti sfuggiva.

Mentre il biscione di uomini e mezzi si snodava per le tortuose e strette vie di Roma, la schiera di trombettisti e pifferai che facevano risuonare le note di quella nenia luttuosa accentuavano il silenzio via via più straniante degli spettatori.

I soldati, che arrivavano subito dopo i carri, erano stati raggruppati in manipoli di cinque elementi per volta, ma i lanzichenecchi papali, i guasconi e gli svizzeri sembravano già dimentichi delle disposizioni ottenute, e avanzavano più spesso in ordine sparso, che rispettando i ranghi.

Molto più ordinati erano i duecento svizzeri che arrivavano appena dopo. Portavano giubbe di velluto nero come la notte, e berretti scuri ornati con piume di volatili notturni. I loro volti, glaciali, parvero raggelare ulteriormente i romani accorsi per godersi lo spettacolo.

Seguivano cinquanta staffieri vestiti anch'essi di velluto nero e panno del medesimo colore.

La vera attrazione, però, quelli verso cui tutti tendevano il collo, ritrovando perfino il sorriso, malgrado la cupezza della musica che riempiva le strade dell'Urbe, erano quelli che cavalcavano alle spalle degli staffieri.

Il vero cuore del corteo si apriva con i due cognati: Joffré Borja e Alfonso d'Aragona. Quest'ultimo era adorato dalle matrone romane, che, al suo passaggio, lanciavano baci e gridavano elogi. Anche Joffré aveva un suo certo seguito, benché non paragonabile a quello del cognato. Malgrado ciò, i due giovani, adornati da abiti e copricapi ricchissimi, non erano comunque nulla, rispetto a colui che precedevano.

Cesare, in sella a un mastodontico cavallo da guerra, avanzava ritto nelle spalle e con il mento alto, quasi a sprezzo degli sguardi adoranti delle donne e di quelli colmi di orgoglio degli uomini. Il suo profilo particolarissimo, un po' schiacciato, splendeva alla luce del sole del 26 febbraio come un gioiello. I suoi capelli perfettamente acconciati e la sua barba, più lunga di quanto fosse comune in un nobile rampollo della sua levatura, erano benedetti da una sfumatura chiara, quasi bionda, che attraeva gli sguardi come una calamita. Il suo abito finissimo di velluto nero, lungo fino al ginocchio, e la sua collana d'oro, massiccia, ma dalla linea semplice, completavano il ritratto di un giovane uomo pronto a prendersi il mondo intero.

Subito dopo aver fissato il Valentino, colui che aveva soggiogato Imola e Forlì, due città piccole, ma ritenute forti quasi alla stregua di un Ducato immenso, i presenti non potevano che lasciarsi catturare da un'altra immagine, ben diversa e ben più dimessa e rara a vedersi.

Su una cavalla dal passo incerto, fasciata da un abito scuro, alla turca, c'era Caterina Sforza, la Leonessa di Romagna.

Il sole faceva brillare le fini catene d'oro che la imbrigliavano e lasciava luccicare anche i suoi occhi, come se un velo di lacrime continuasse a inumidirli. Le sue labbra rosse erano strette, impassibili, ma la sua fronte era solcata da profonde rughe di preoccupazione e dolore, dandole un aspetto tristo e drammatico. I capelli, nascosti dallo spesso velo nero, non si vedevano, ma una ciocca bianca, ribelle e silenziosa, era riuscita a scivolare fuori, all'altezza della tempia. Il suo lieve movimento, in un certo senso, dava alla Tigre ancor di più l'impressione di essere davvero in balia della sorte: nemmeno la stretta pettinatura approntata da Argentina stava reggendo a quello sballottamento del fato.

La donna assecondava l'andamento della sua cavalcatura con lentezza, ciondolando appena. Respirava a stento, faticando a non accasciarsi sul collo della cavalla per sottrarre almeno il viso alla curiosità dei romani.

Solo dopo essere passati sotto a palazzo Massimi, mentre si dirigevano a Campo dei Fiori, la Sforza ebbe il coraggio di puntare gli occhi sulla folla.

Anni prima, lo ricordava benissimo, quando era entrata a Roma per diventare in modo ufficiale la moglie di Girolamo Riario, i romani erano accorsi incuriositi a vederla, cercando di rubarle uno sguardo, per poter dire di essere stati almeno per un soffio occhi negli occhi con la nuova, bellissima e giovanissima nipote del papa.

Quel giorno, invece, mentre una nuvola raminga copriva il sole, spandendo sull'Urbe una luce innaturale, tutti i romani cercavano di nuovo il suo sguardo, ma solo per vedere che occhi aveva una belva feroce finalmente ridotta in catene.

Dopo la Tigre, con qualche gruppetto di soldati a fare da cuscinetto, stavano gli altri prigionieri, e, a chiudere, i soldati di Vitellozzo Vitelli, con corazze tirate a lucido coperte da sopravvesti di panno nero.

Al seguito di questi, la folla che seguiva il corteo finiva per unirvisi, creando un'accozzaglia confusa di religiosi, civili e nobiluomini, tutti intenti, ancora, a occhieggiare in avanti, quasi sperando di poter vedere di nuovo quella preda di pregio che era Caterina Sforza, la nipote del famoso Francesco.

Ormai il gruppo sempre più sostanzioso e sempre più lento di uomini che stava scortando il vincente Valentino fin davanti a Castel Sant'Angelo appariva ingestibile. Non era solo per colpa dei romani che si erano aggiunti a scompaginare una colonna già di per sé non abbastanza rigorosa, ma i soldati stessi che, più avvezzi alla confusione della battaglia che non all'ordine di una parata, cominciavano a essere insofferenti.

Per la Tigre fu un bel diversivo vedere, non troppo lontano da sé, gli araldi francesi e quelli borgiani – che in quel momento stavano in coda agli staffieri – cominciare a battibeccare. Quasi avessero avuto il sentore di questa tensione, anche alcuni lanzichenecchi papali e certi svizzeri avevano iniziato a trovare motivi per insultarsi e darsi spintoni.

Erano quasi al ponte che li avrebbe portati alla loro prima destinazione – tanto che il castello si poteva già intravedere – quando pure gli ambasciatori stranieri che seguivano il corteo, accortisi dei dissapori di alcuni loro rappresentanti nell'esercito, cominciarono a darsi contro l'un l'altro.

Caterina teneva un occhio puntato verso Castel Sant'Angelo che, malgrado tutto, si avvicinava inesorabile, mentre con l'altro cercava di capire che stesse succedendo in coda al corteo.

Da dov'era lei, non riusciva a vedere i soldati di Vitellozzo che, sobillati dal caos crescente, si erano messi ad accendere veri e propri tafferugli, spaventando a tal punto i prelati che si erano messi in coda a loro, da farli scappare in sparuti gruppetti, disperdendoli tra le vie di Roma.

Giunti infine davanti a Castel Sant'Angelo, circondati da una folla di soldati e civili ormai più ribollente di un calderone, Cesare Borja e i suoi si fermarono. Era stato il papa a volere quella finezza pirotecnica e quindi il figlio non poteva che sottostarvi e attendere che iniziassero i fuochi.

Dal castello, proprio quando il Duca aveva dato il segnale di fermarsi – ed era stato ascoltato solo in parte, dato che la testa e la coda del corteo erano ormai fuori da ogni controllo – cominciarono ad alzarsi giochi di luce e di fuoco mai visti prima. Le esplosioni e i bagliori erano tanto forti che perfino i cavalli da guerra, teoricamente addestrati a non spaventarsi dinnanzi a nulla, cominciarono a impennarsi e nitrire furiosamente, riempiendo la strada di stallatico fresco.

Nelle case più vicine a Castel Sant'Angelo, i muri tremavano come durante un terremoto, le vetrate si infrangevano di schianti e le imposte si staccavano dagli infissi, crollando in terra, silenziosi nel fragore generale.

La Leonessa vedeva Cesare ridere come un pazzo e dar di gomito al fratello Joffré, quasi a dire che quello spettacolo gli era graditissimo e lo entusiasmava più ancora delle battaglie vinte in Romagna.

Per quanto la riguardava, invece, Caterina trovava quello sfoggio di potere – e di ricchezza – solo un mezzo pacchiano per ricordare all'Urbe chi fosse seduto in quel momento sul trono di Pietro.

Ci volle un po', prima che il frastuono dei fuochi artificiali cessasse, e, quando lo fece, il corteo che seguiva il Valentino era quanto meno dimezzato. Il figlio del papa, tuttavia, parve non dar peso a quel fatto, anzi, più allegro di quanto non fosse stato al suo ingresso in città, non fece suonare oltre la marcia funebre, ma ordinò a tutti di rimettersi in marcia con maggior lena, in direzione degli appartamenti papali.

 

Giovanni da Casale teneva il capo chino. Fare quei pochi passi fino alla porta del salone in cui Ludovico Sforza gli avrebbe dato udienza era stato per lui come salire il Golgota con la croce in spalla.

Si sentiva vuoto, stremato, disperato e senza più volontà. Se era tornato dal Duca di Milano, si diceva, era stato per dimostrare a Caterina che lui era ancora dalla loro parte, era un servo fedele, qualcuno su cui la sua famiglia avrebbe sempre potuto contare. Eppure, più cercava di convincersene, più una vocina dentro di lui gli ripeteva che se era andato alla ricerca del Moro era stato solo per paura, per averne la protezione, per cercarne l'approvazione e, da lì, una via per ricominciare.

Il giovane, preda com'era da settimane, del senso di colpa a tal punto dall'essere sull'orlo delle lacrime, trasalì quando vide la porta spalancarsi.

Cercò si darsi un tono, raddrizzando la schiena muscolosa e sbattendo più volte le palpebre, per liberare gli occhi dalla coltre umida che li aveva velati. Stirando con la mano qualche piega che i suoi consunti abiti da viaggio avevano preso lungo la strada, Pirovano finalmente mosse qualche passo in avanti.

“Giovanni, mio adoratissimo ragazzo...” la voce di Ludovico risuonò piena e calda, nella sala un po' spoglia del castello di Pavia in cui il Duca stesso aveva deciso di incontrare il suo vecchio pupillo: “Prego, vieni vicino al fuoco... Fuori c'è una nebbia impossibile, viene a scaldarti un po'...”

Per nulla sorpreso dal tono confidenziale e paterno che lo Sforza stava usando, Pirovano fece come gli era stato detto e, tendendo in avanti le mani, si appropinquò al camino acceso e cercò di riacquistare la sensibilità alle dita, rimaste intirizzite per il freddo di quel finale di febbraio. E pensare, si disse, che quando era partito dalla Romagna, c'era già aria di primavera. La Lombardia, invece, sembrava ancora dibattersi nella rete spessa e algida dell'inverno.

Mentre il giovane ancora si scrollava di dosso l'umidità accumulata, il Moro cominciò a parlargli di mille cose contemporaneamente. Gli citò anche Alessandro Sforza, dicendogli che si stava riprendendo, benché la ferita alla testa gli rendesse ancora impossibile prendere parte attiva a una qualsivoglia azione militare.

Gli spiegò in breve il suo progetto, il modo in cui aveva intenzione di creare una sorta di catena attorno a Milano, in modo da avanzare quasi simmetricamente su più fronti, riconquistando il Ducato senza che i francesi potessero in alcun modo tornare in città.

Gli raccontò anche, con un velo di cupezza, che proprio quel giorno aveva saputo che Carlo Secco e Francesco Gambara avevano recuperato Lodi, riconsegnandola a Luigi XII, ma subito dopo si era detto fiducioso di poter ribaltare nuovamente la situazione a breve.

“E ora veniamo a noi...” concluse Ludovico, posando una mano sulla spalla di Giovanni che, assorto com'era nei propri pensieri e nel calore delle fiamme, ebbe un piccolo scatto di sorpresa.

Lo Sforza capì che qualcosa non andava. Incrociò lo sguardo di Pirovano, e non riconobbe quasi i suoi occhi scuri, un tempo tanto profondi e decisi, pronti alla gloria di una grande carriera militare, e ora invece spauriti, confusi, sfuggenti come quelli di un topo in fuga.

Non volle credere che sua nipote Caterina fosse stata capace di rovinarglielo. Giovanni da Casale era, per lui, uno dei migliori elementi che un esercito potesse avere. Aveva ancora molta esperienza sul campo da fare, quando lui l'aveva notato, ancora ragazzino, nella truppa spicciola, ma, ora che era un uomo, di certo sarebbe stato in grado di dimostrare tutto il suo valore.

“Ho deciso – disse lentamente il Moro, sondando con accuratezza ogni minima reazione sul viso del suo protetto – di affidarvi, per ora, la guardia di Vigevano.”

Anche se inizialmente il suo progetto era stato quello di lasciare Pirovano a Vigevano da solo, di colpo lo Sforza si rendeva conto che sarebbe stato meglio lasciare il Fracassa ad affiancarlo. O, almeno, nei primi tempi... Poi avrebbe valutato che fare.

Giovanni, a quella rivelazione, aveva annuito appena e poi era tornato a fissare le fiamme, sperso in chissà quali pensieri. Non si era nemmeno accorto che il suo signore era tornato al voi, nel parlargli.

“Mi sembrate molto stanco...” provò a dire Ludovico, sondando il terreno.

“In effetti, un po' lo sono...” confermò l'altro, deglutendo: “Il viaggio non è stato semplice.”

“Certo, certo...” il Moro si schiarì la voce e poi, volendo capire quanto ci fosse di vero nelle sue supposizioni, ovvero che sua nipote Caterina avesse rovinato il suo preziosissimo Pirovano, gli chiese, volutamente con aria ironica, al solo fine di farlo o arrabbiare o ridere: “E come mai non avete provato a salvare mia nipote? Vi davano tutti come il suo più spavaldo guardiano... Non avete mica intenzione di lasciarmi di nuovo in asso e correre da lei a Roma per strapparla al papa, spero..?”

Il modo in cui gli occhi di Giovanni lampeggiarono verso lo Sforza valse più di tante parole.

Infatti, anche quando il soldato borbottò: “Non... Non è una cosa che spetta a me... Io... Io non l'ho tradita, io... Io ho fatto la mia parte e purtroppo il nemico ci ha battuti...” Ludovico si sentì morire.

Forse, sperò, si trattava solo di uno spaesamento momentaneo: in fondo Giovanni da Casale era poco più che un ragazzo e quanto accaduto in Forlì, a detta di tutti, era stato un massacro. Forse era normale che stesse ancora cercando di superare quel momento tanto brutto.

L'unica speranza stava nel vedergli riacquistare la sicurezza di un tempo una volta rivestita l'armatura e impugnata di nuovo la spada.

“Andate a riposare, ora...” concesse il Moro, benché fosse pieno giorno: “Chiedete a una delle guardie di portarvi nella stanza che ho scelto per voi. Avremo modo di discutere meglio del vostro incarico stasera a cena...”

Come uno spirito inquieto, Giovanni ringraziò e poi, andando verso la porta, chinò di nuovo il capo e sussurrò: “Vi ringrazio, per tutto.”

Lo Sforza fece un sorriso bonario, ma appena il condottiero fu fuori, il vecchio Duca di Milano si abbandonò a una sonora bestemmia. Aveva contato così tanto sull'aiuto prezioso del suo Pirovano che ora che lo trovava trasformato in una larva umana, non sapeva che fare.

Respirò a fondo un paio di volte e poi, convincendosi che, con un po' di pazienza, si sarebbe aggiustata anche quella, si passò una mano tra i folti capelli neri e fece del suo meglio per tornare agli impegni di quella fredda giornata di nebbia.

 

Caterina aveva lasciato che Cesare in persona le togliesse le catene d'oro di dosso, appena prima di varcare la soglia degli appartamenti di papa Borja. Nel silenzio più assoluto, il Valentino l'aveva liberata, stando ben attento a non incrociare mai il suo sguardo e poi, rivolgendosi a Joffré Borja e ad Alfonso d'Aragona che erano con loro, chiese, per il momento, di non far parola di quella piccola trovata scenografica al papa.

Alla Tigre, malgrado tutto, venne da ridere, per la pena che provava per il suo aguzzino: si vergognava così tanto davanti al padre, forse temendone anche la violenza reazione, della propria boria, da voler provare a cancellare una cosa che, ormai, tutta Roma aveva visto e avrebbe ricordato.

Quando finalmente i quattro entrarono nel salone in cui Rodrigo li attendeva, questi andò loro incontro quasi di corsa. Era più grosso di quanto la Sforza ricordasse. L'ultima volta che l'aveva potuto osservare, lo spagnolo era ancora un semplice Cardinale. Aveva più capelli, meno rughe ed era più magro.

Sollevando un sopracciglio, la donna osservò in silenzio il pontefice abbracciare e baciare il figlio con gli occhi rossi di commozioni, la pappagorgia tremante a ogni accorata parola in spagnolo che gli diceva e la pelle quasi marezzata delle sue guance virare dal rosso al viola, fin quasi al blu.

In una risata che sembrava quasi un pianto, Alessandro VI diede un'affettuosa carezza al viso di Cesare, che, di contro, sorrideva a fatica, fissando quel padre che amava e disprezzava in egual misura.

Solo dopo quasi venti minuti di questa pantomima, il papa parve ricordarsi della nuova arrivata e, finalmente, asciugandosi in fretta una lacrima di gioia che era scivolata oltre le ciglia, fissò Caterina.

“Madonna Sforza...” le disse, cambiando così radicalmente atteggiamento da indurre la Leonessa a stare ancora più in guardia: “Da quanto tempo non ci vediamo.”

Il tono dell'uomo era cortese, ma le ricordava tanto il grazioso volteggiare di un'ape in volo, pronta, quando meno uno se lo aspetti, a conficcare il proprio pungiglione laddove sa di far più male.

“Sono passati anni.” ammise la Leonessa, ignorando gli sguardi curiosi di Joffré e Alfonso che, pur stando a un passo di distanza dal Santo Padre, in segno di rispetto, sembravano fiatarle sul collo esattamente come il Valentino e suo padre: “L'ultima volta, se non ricordo male, stavate cercando di organizzare un conclave.”

Il chiaro riferimento all'episodio in cui Caterina aveva preso Castel Sant'Angelo, tenendo sotto scacco l'intero Vaticano per giorni, impedendo al Borja di iniziare subito il conclave e pilotarlo come meglio credeva, fece un certo effetto ad Alessandro VI.

Con un sorrisetto storto, l'uomo concesse: “Eravamo entrambi più giovani e meno assennati, a quei tempi.”

“Io ero giovane – fece notare la donna – ma voi eravate già un uomo adulto... Scusate quindi me, per la mia irruenza e il mio sangue caldo, ma siate meno indulgente con voi stesso. Per amor di giustizia, Vostra Santità, voi eravate già nell'età della ragione.”

Alessandro VI parve quasi divertito dall'arguzia, che, malgrado tutto, la Leonessa sembrava aver mantenuto intatta negli anni. Se la ricordava quando, non ancora ventenne, si aggirava per il Vaticano come se fosse casa sua.

In un certo senso, aveva saputo sfruttare molto meglio lei, rispetto a Girolamo Riario, la parentela con papa Sisto IV. Il Borja non conosceva troppo a fondo le sue vicende personali degli ultimi anni, se non quello che si vociferava in tutta Italia, ma poteva ben pensare che il mondo avesse mostrato i denti alla Sforza. Eppure quest'ultima doveva essere stata in grado di ringhiare ancor più violentemente in risposta, perché non solo era ancora intera e vigile, ma anche abbastanza accesa da permettersi simili frasi.

“Spero che il viaggio non sia stato per voi troppo disagevole.” riprese il pontefice, volendo cambiare argomento, mentre i suoi occhi rapaci si muovevano sul corpo della Leonessa, facendola sentire molto più scoperta di quanto non fosse, intabarrata com'era nella camora di raso nero voluta da Cesare: “E mi auguro che mio figlio sia stato gentile, con voi.”

A quelle ultime parole, la Tigre si irrigidì in un modo che a Rodrigo non sfuggì. Lo sguardo del papa passò dalla donna al figlio, che, un sopracciglio sollevato, lo sguardo sfuggente, e le labbra leggermente sporte in fuori, faceva finta di non essere intento a seguire il discorso.

Alessandro VI sentiva uno strano pizzicore sul collo. Gli era stata descritta in modo molto dettagliato la diatriba tra suo figlio e i comandanti francesi – il Balì di Digione in particolare – per la custodia della prigioniera. Sapeva anche quali clausole Cesare avrebbe dovuto rispettare per non andar contro il favore del re di Francia. Ecco perché la reazione di Caterina l'aveva messo in allarme: nelle iridi verdi di quella donna era passato un lampo che il papa non aveva faticato a interpretare.

Pur sperando di sbagliarsi, il Santo Padre, ripeté: “Perché di certo mio figlio vi ha trattata come una regina, come re Luigi ha voluto.”

“Non conosco abbastanza regine per sapere come siano trattate dagli uomini che stanno loro intorno.” ribatté fredda la Sforza: “Quindi chiedetelo a vostro figlio, come mi ha trattata. Traete voi le conclusioni.”

Malgrado il sorriso forzato della prigioniera, la sua espressione era di accusa, e Rodrigo non la lasciò cadere inascoltata. Ciò che gli interessava era avere la meglio sulla Leonessa di Romagna, quello era vero, ma non aveva intenzione di pestare volontariamente i piedi al re. Ovviamente, in caso di controversie, sarebbe stata la parola di suo figlio – il Duca di Valentinois, comandante dell'esercito francese nella conquista trionfale di Imola e Forlì – contro quella di Caterina Sforza, una meretrice nota al mondo per la propria incostanza e la propria malafede. Era facile immaginare a chi Luigi XII avrebbe creduto...

“Vi vedo nervosa. Evidentemente il viaggio vi ha stancata più di quanto sembri...” fece con un sospiro il pontefice, ammantandosi di un'aria bonaria che poco si addiceva alla ruga severa che solcava la sua fronte: “Quindi, sarà il caso che vi lasci andare a riposare...”

Caterina trattenne il fiato. Quello era uno dei momenti che più aveva temuto: scoprire dove sarebbe stata tenuta prigioniera. Essendoci accordi abbastanza vincolanti tra il papato e la Francia, sperava di avere un alloggio vivibile, ma questo l'avrebbe esposta di nuovo alla presenza di Cesare, a meno che il Valentino non fosse stato in qualche modo frenato dal padre, se non per compassione umana, almeno per non irritare troppo Luigi XII.

“Venite un attimo qui...” fece Rodrigo, allungando le grosse mani verso la donna e invitandola ad avvicinarsi.

La Sforza capì che finalmente il Borja si era deciso a dirle qualcosa che solo lei doveva ascoltare, e così non si oppose, quando l'uomo le strinse le dita nelle sue e le diede un segno di benedizione.

“Noi due ci conosciamo molto bene...” sussurrò Alessandro VI: “Siamo molto più simili di quanto si creda. Ci sappiamo capire al volo, lo ammetterete anche voi. Voi sapete di cosa sono capace io, così come io so di cosa siete capace voi. In virtù di questo vi chiedo: non mentiamoci a vicenda.”

“Non è mia intenzione farlo.” disse piano Caterina.

Il papa fece un cenno con il capo, a metà strada tra l'assenso e l'ammonizione, e poi chiese: “Posso darvi un bacio di benvenuto? Mancate da Roma da molto, voglio che la città vi riaccolga come meritate...”

La Leonessa non si mosse, e il Borja interpretò il suo silenzio come un tacito assenso.

Mentre le sfiorava la prima guancia con le labbra, Rodrigo mise in chiaro, bisbigliandole nell'orecchio: “Sarete guardata a vista da venti soldati scelti.” poi, mentre passava all'altra guancia, terminò: “E nel frattempo istruiremo un processo, in modo che ci rimborsiate le spese della guerra.”

“Avreste vinto la guerra in una settimana e avreste avuto molte meno spese – fece la donna, scostandosi appena – se solo vostro figlio non fosse stato un tale incompetente. Dunque il risarcimento dovreste chiederlo a lui.”

“Ringraziate il buon Dio che non vi faccio mettere ai ceppi immediatamente...” sussurrò il Santo Padre, mantenendo il sorriso pacifico di prima, per ingannare almeno Joffré e Alfonso, abbastanza lontani da non sentire che stesse dicendo.

“Lo fareste solo se foste certo che mio zio non sia in grado di riconquistare davvero Milano. E che il re di Francia non usasse la mia morte come scusa per marciare su Roma.” precisò Caterina, senza guardarlo più.

“Troveremo un accordo.” tentò di nuovo Rodrigo: “Voi pagherete quanto dovete e io vi lascerò in vita.”

La Tigre non disse più nulla, ma i suoi occhi – in quel momento pura fiamma – incendiarono il pontefice, che, per impedirsi di prendere decisioni troppo avventate, chiamò a sé il figlio più giovane.

“Joffré...” gli ordinò, sollevando l'indice: “Porta la nostra ospite nell'alloggio che ho scelto per lei.”

“Lo faccio io.” si propose subito Cesare.

“No.” lo liquidò in fretta il papa, notando, ancora una volta, un irrigidirsi della Leonessa, nel momento in cui aveva temuto di trovarsi di nuovo da sola con il Duca: “Tu resterai qui con me, dobbiamo parlare. Questo compito è di poca importanza, può occuparsene tranquillamente tuo fratello...”

E così Caterina venne scortata fuori dall'appartamento borgiano, proprio mentre il papa metteva un braccio sulle spalle del figlio e Alfonso d'Aragona, ignorato da tutti, si dileguava dalla porta principale.

“Dove stiamo andando?” chiese la Sforza a Joffré, che, per paura che provasse a scappare, la stringeva per un polso.

“Vi piacerà.” disse il giovane Borja, atono: “La torre del Belvedere affaccia sulle vigne di mio padre... Vi assicuro che ci sono prigioni peggiori, qui a Roma...”

 
   
 
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