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Autore: Shirokuro    12/07/2020    1 recensioni
{ anita centric; n/anita | longfic | storico; introspettivo | reincarnation!au }
primo capitolo: Tra i canti dei fantasmi che gli tenevano compagnia, ed il fruscio degli alberi nel giardino provocato dai Pidove inquieti, quasi come sapessero cosa stava succedendo, passò ore sul perimetro che aveva individuato come incriminato. Per fortuna, l’ampiezza delle sale lo rendevano silenzioso ed impercettibile all’orecchio di chi già si cullava nelle braccia del sonno e si faceva rubare i sogni dai Munna e dai Musharna. L’idea lo fece sorridere con tenerezza. L’atmosfera di indagine lo rilassava incredibilmente.
Genere: Introspettivo, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Shoujo-ai
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti | Contesto: Videogioco
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(filotimo)
primo capitolo

 

Erano giorni di festa, alla Villa. Giorni di grande agitazione e di immenso entusiasmo. Probabilmente la stessa elettricità la si era avvertita in precedenza solo quando i gemelli venuti alla luce sotto al tetto della nobile famiglia si erano rivelati essere di sesso diverso e si era spergiurata una vecchia maledizione. Il pensiero amareggiò Anita, ma non ebbe tempo di metabolizzare la delusione né di scrivere due righe sul proprio diario a riguardo, perché alle sue orecchie giunse l’ennesimo richiamo della genitrice.
   «Alla buon’ora!» fu la più calorosa accoglienza che poteva aspettarsi e che prontamente ricevette quando raggiunse la stanza in cui era stata convocata. La castana sarebbe stata un’ipocrita a lamentarsi del tono che le stava venendo rivolto: si era presa il suo tempo per uscire dalla sua stanza ed il fratello aveva già da tempo avviato l'organizzazione del salone principale. Varcando l’uscio della stanza, osservò la figura di Alcide che dirigeva i domestici e dava loro linee guida sia per le commissioni da fare sul momento che durante la tanto temuta quanto attesa visita.
   Prima di affrontare quel panorama al chiuso di rumore e terrore dei dettagli, aveva dovuto prendere un profondo respiro nel corridoio. E nel mentre, si era permessa di vagare con la mente e nuotare in qualche pensiero che altri avrebbero ritenuto irrispettoso – ad esempio, aveva ancora una volta messo in dubbio la ragione della febbrile eccitazione degli abitanti della casa. A solo due giorni dall’arrivo del Re a Soffiolieve, tutto ciò che provava era un profondo senso di disagio, un’ansia incontrollabile, un doloroso palpitare del suo respiro in gola che minacciava ogni volta di non raggiungere più i polmoni. Recuperò la connessione con la realtà a lei circostante solo quando Belle, la sua assistente e migliore amica, poggiò la mano bianca e delicata sulla sua spalla, dedicandole uno sguardo avvolgente e luminoso. La bionda domestica, infatti, le era stata accanto in silenzio per tutto il tempo, come un angelo custode: le infondeva sicurezza e calma, però mai fosse stato necessario l’avrebbe ragguagliata di eventuali scelte infelici – come il continuare a procrastinare l’entrata in scena per i preparativi.
   «Ti prego, aiuta mia Madre», le disse bonariamente, separandosene conseguentemente, una volta raccolto il coraggio che necessitava per avvicinarsi al gemello.
   In quanto futuro erede, gli era stata proposta questa irripetibile occasione per provare sul campo le sue affinate abilità di ospite, quindi era a lui che doveva fare riferimento se voleva dare il suo contributo – anche se non aveva altra scelta che volerlo. Non credeva, tutto sommato, che fosse troppo entusiasta della sua mansione. Perché, grandi onori a parte, la sua era una grande responsabilità: se avesse fatto sfigurare il loro nome, sarebbe sicuramente stato punito. Anita indugiò qualche istante, prima di decidere che sarebbe comunque valso la fatica farlo penare. Magari facendogli mille domande, chiedendo milioni di consigli, od ancora più indicazioni. Qualunque cosa pur di fargli perdere un po’ della sua compiaciuta pazienza.
   «Come posso rendermi utile, Fratello?»
   Alcide, i cui tratti erano identici a quelli della ragazza, sorrise. Forse perché uno dei pochi a conoscenza dei sentimenti che lei nutriva per la nobiltà e l’idea che lei stesse chiedendo di contribuire ai preparativi dell’ennesima occasione per viziare qualcuno di altolocato come “il Re” lo divertiva.
   «In alcun modo, Sorella, non potresti mai essere utile» disse, sarcasticamente. Poi mimò un secondo di riflessione, mugugnando qualcosa fra sé e sé. «Però, in realtà», continuò, come se si fosse ricordato qualcosa, «avremmo deciso, io e i nostri genitori, di affidarti la cena della prima sera: è un compito estremamente semplice, per quanto importante, e non potrai creare problemi a nessuno stando in cucina od in camera tua a fare ricerche ed ideare bozze per le portate». La spiegazione di Alcide lasciava molte cose all’intuizione dell’ascoltatore, ma Anita riusciva solo a processare il fatto che le era stato assegnato un compito ridicolo.
   «È stata una tua idea? Perché se sei stato tu...»
   «Cosa? Mi farai inseguire ancora da quella creatura spocchiosa che ti porti dietro? Oh, no, ti prego». Dopo aver chiesto ironicamente pietà alla gemella, si avvicinò al suo volto, allargò ancora di più il suo sorriso e poi con le labbra sfiorò le sue orecchie, per poterle sussurrare quella che poteva sembrare una minaccia, ma era un innocente avviso: «Cosa credevi che ti avremmo mai permesso di fare? Sei un’anarchica».
   Anita represse l’istinto di stringere i pugni: la genitrice era ancora nella sala, l’avrebbe potuta vedere e dedicarle un commento acido, sicuramente conscia della conversazione che stava avvenendo – anche se non delle intenzioni. Si morse il labbro inferiore invece.
   Non aveva mai mancato di rispetto al Titolo del padre. Mai aveva espresso vocalmente di fronte a loro le sue posizioni, mettendo in dubbio il suo stile di vita o quello di chi l’aveva messa al mondo. Non si sarebbe nemmeno sognata di farlo. Erano trapelate alla velocità della luce, nonostante tutto, le notizie che la riguardavano e che avevano al loro centro i locali che aveva iniziato a frequentare da un paio di anni a quella parte – cafè, dove incontrarsi con altre persone che come lei erano scettiche dell’utilità di figure come quelle autoritarie di re, conti, marchesi, cavalieri, e via dicendo –; una volta che i Signori di Soffiolieve erano venuti a sapere delle idee che promuoveva e discuteva la figlia, l’avevano etichettata come “anarchica”. Non c’era nulla che la ragazza trovasse sbagliato per sé in tutto questo, lo riteneva il termine adatto e fuori dalla Villa portava questo epiteto con fierezza quasi. Ma era chiaro come la luce del Sole che non era una persona comoda nell’albero genealogico dei Bianco e la consapevolezza la feriva, cosa che non aveva mai confessato ma che l’indissolubile legame tra fratelli che avevano condiviso lo stesso grembo permetteva ad Alcide di rendersene conto.

 

*

   Le stanze della Villa si concentravano essenzialmente nel piano superiore.
   In quello inferiore si potevano trovare le cucine, i due salotti – uno immenso, smisurato, che accoglieva chi entrava e proseguiva sulla sinistra seguendo le indicazioni dei padroni di casa, ed uno più modesto che serviva anche da sala di svago per il Marchese che lì appestava di fumo le pareti e gli scaffali dove teneva le sue letture future, passate o correnti –, la sala da pranzo, la biblioteca e una stanza da bagno per le evenienze.
   Al piano superiore, il numero di stanze diventava molto più alto. Dopo anni di condivisione, i gemelli della famiglia vennero separati ed ognuno di loro aveva una propria stanza. Ovviamente c’era poi il nido d’amore dei Marchesi. Inoltre, essendo i Bianco rinomati per la loro proverbiale ospitalità, per ogni camera ce ne era abbinata una per gli ospiti. Questo valeva anche per le camere adibite alla servitù. Fosse stato chiesto ai Signori di Soffiolieve, “perché alternare le stanze, invece di creare una zona per gli abitanti della casa e una per chi si limitava ad alloggiare temporaneamente?”, loro avrebbero sorriso e spiegato che solo così l’ospite si poteva davvero sentire a casa. Personaggi peculiari, questa coppia. Tutte queste stanze erano munite a loro volta di un bagno, più o meno spazioso a seconda di chi lo usava – controintuitivamente, le stanze dei domestici avevano i bagni più piccoli, nonostante fossero più numerosi in una singola camera.
   Veniva spontaneo, dopo quattro anni nella Villa, chiedersi cosa determinava quella insensata disparità di spazi agibili. Giustificare il numero minore del piano inferiore con l’imponenza delle sale, era ingenuo. Era vero, le loro dimensioni non erano paragonabili a due stanze del piano superiore combinate, nemmeno lontanamente. Eppure, molte zone del piano superiore presentavano un “buco” rispetto a quello che stava di sotto. La stanza da letto della coppia di Marchesi si trovava esattamente sopra il salotto principale. Ma la stanza adiacente alla sua, dove dormivano a turni i domestici di sesso maschile, non pareva coincidere a nessuno spazio del piano terra. Komor non aveva voluto ignorare quell’irregolarità e nel tempo libero, tra i quattordici e i quindici anni, studiò le planimetrie che risultavano negli archivi della biblioteca e cercò di giungere ad una conclusione logica.
   All’inizio, non riuscì a darsi una risposta. Tutti i progetti che rinveniva sembravano volere che sotto alle stanze “extra” non ci fosse niente, aria. Un’inutile scelta, uno spreco di spazio. Solo qualche colonna portante – fatto che lo fece ipotizzare magari si trattasse di uno stratagemma estetico, ma dovette scartare questa possibilità visto che molti muri portanti erano stati invece incorporati nelle sale.
   La Villa, vecchia nemmeno di cento anni, era stata apparentemente voluta dalla famiglia come residenza di vacanza. Un luogo dove, pur continuando a svolgere le proprie mansioni da Signore, un Bianco si potesse godere l’odore del mare e del sale. Giunto a questo punto, ipotizzò allora si trattasse solo di conscia pigrizia. L’edificio sarebbe stato occupato solo in periodi caldi e non aveva motivo di venir sfruttata al meglio. Questo spiegava il perché della biblioteca e del salotto dedicato esclusivamente al Marchese – per quanto allo stato attuale, fosse solo un luogo dove sfogare la necessità di tabacco in una confortevole penombra. Ma si sentì di escludere anche la programmatica procrastinazione: c’erano troppe stanze dedicate ai domestici. Perché mai portarsi dietro tanta servitù dalla casa principale? Non sarebbe forse significato lasciare la residenza dei propri affari senza guardiani, a marcire per la calda stagione? No, c’era il chiaro intento di trasferire definitivamente la famiglia a Soffiolieve. Si fece allora coraggio e, facendosi forza della sua età, tipicamente quella dei curiosi, chiese subdolamente delucidazioni al suo Signore in persona.
   «Mio nonno mi raccontava di come il mio bisnonno sognasse che governassimo dal mare, considerato che siamo fedeli alle creature magiche da lì provenienti o che lo dominano ed usano la sua forza, Samurott fra tutti. Suo padre ancora, però, non riteneva necessario spostarsi, così si limitò a convincerlo a lasciargli costruire una seconda casa per le vacanze».
   «Invece costruì la Villa?»
   «Uno stratagemma ingegnoso, non pensi?» Per un attimo, Komor vide una grande fierezza riflettersi nei suoi occhi, con della nostalgia celata dietro alla scintilla appena carpita. «Peccato che suo figlio e suo nipote non seguirono le sue orme e solo io ho trovato il coraggio di trasferire qui gli affari, appena sposata Carolina».
   La conversazione, che proseguì in un’altra direzione, confermò i dubbi del Consigliere di Alcide. Ci doveva essere un motivo dietro a quei vuoti, anche se era stato apparentemente dimenticato. Dopo altre settimane di ricerche, in cui coinvolse anche il figlio dei Bianco, decise che era giunto il momento di provare ad accedere a quegli apparenti errori. Non poteva però permettersi di mettere in pericolo il Signorino, quindi agì da solo, una notte afosa, non sapendo se quegli spazi erano sicuri o meno. Armato di lanterna ad olio e tanta curiosità, ispezionò ogni angolo che combaciasse con il mistero che inseguiva. Tra i canti dei fantasmi che gli tenevano compagnia, ed il fruscio degli alberi nel giardino provocato dai Pidove inquieti, quasi come sapessero cosa stava succedendo, passò ore sul perimetro che aveva individuato come incriminato. Per fortuna, l’ampiezza delle sale lo rendevano silenzioso ed impercettibile all’orecchio di chi già si cullava nelle braccia del sonno e si faceva rubare i sogni dai Munna e dai Musharna. L’idea lo fece sorridere con tenerezza. L’atmosfera di indagine lo rilassava incredibilmente, mentre si faceva sempre più difficile respirare mentre la lanterna bruciava l’ossigeno per niente appetibile nella calura dell’estate. Fu per un attimo tentato di spalancare una finestra, ma non avrebbe mai voluto qualcuno sentisse i vetri sbatacchiare dopo una dispettosa folata di vento, quindi non prese mai coraggio. Quando finalmente raggiunse l’ultima stanza da controllare quella sera, la biblioteca, si sentì chiamare.
   «Komor?»
   Una voce impastata ed acuta perforò le sue orecchie, ed il suo cuore probabilmente dato che per un attimo smise di battere. Senza emettere un fiato, tra il paralizzato e la consapevolezza che non sarebbe potuto essere più sospetto, si voltò ed illuminò la fonte del richiamo con la fiamma – che pareva danzare a ritmo col rinnovato tremore del muscolo nell’ancora piccolo petto. Rimase interdetto quando finalmente processò l’immagine di Belle nel aggiuntivo calore della lanterna. «Sì?» rispose, allora, decidendo che la bionda non rappresentava un pericolo di sorta.
   «Che stai facendo?»
   «Sto lavorando. Torna a dormire». Provò a liquidarla come ritenne più adeguato. Lo sguardo vacuo dell’altra però non lo lasciò in pace. «Cosa c’è?»
   «Piove».
   «Piove?» ripeté, confuso. Nella biblioteca c’erano solo piccole finestre, in altro, che a malapena lasciavano entrare i raggi del Sole – era necessario accendere le torce tutti i giorni affinché i tomi lì tenuti fossero consultabili – ed inizialmente credette che forse per questo non si era accorto del cambio di meteo. Quando però, istintivamente, alzò lo sguardo, non gli parve di notare niente all’esterno che non il ridicolo nero tra le stelle. Nemmeno una goccia d’acqua in vista. Provò a mettere meglio a fuoco strizzando gli occhi, ma ancora niente. Il cielo più terso dell’anno, avrebbe osato dire. Non era sicuro di come rispondere, né di cosa chiederle. Posò di nuovo lo sguardo su Belle, che si era intanto avvicinata di qualche passo.
   «Tu che fai?»
   «Sto lavorando, ti dico».
   «A quest’ora?»
   «Io sono sempre al lavoro, sono il Consigliere dell’erede, l’unico momento in cui non lavoro è quando sono morto».
   «Succede spesso? Ora sei morto?»
   Komor iniziava a spazientirsi. Avrebbe odiato rallentare la sua tabella di marcia per una ragazzina insonne ed apparentemente stupida. O finta tonta. Il fastidio era lo stesso. Rimase in silenzio per qualche istante, poi sospirò. Le fece cenno di seguirlo. Lei eseguì l’ordine, senza proferire parola. Camminarono nel buio per diversi minuti, occasionalmente fermandosi perché Komor doveva dedicare qualche sguardo in più a certi scaffali. La bionda teneva stretto a sé il proprio cuscino – o quantomeno, questo pensò il ragazzo: che fosse il suo, e non quello di un’altra domestica, dato che ognuna ne aveva solo uno e sarebbe stato un po’ cattivo da parte sua privare un’altra persona di un così comodo giaciglio per il capo.
   Finalmente, in fondo ad un corridoio circondato da registri anagrafici della vecchia città, trovarono qualcosa. Nascosta da un tappeto pesante, che probabilmente non veniva mai spostato da lì, c’era una botola. Senza scambiarsi nemmeno uno sguardo, la aprirono insieme. Una rampa di scale in legno li condusse a un non troppo basso passaggio immerso nell’assoluta oscurità. Non c’erano decorazioni di alcun tipo ad attenderli, od almeno così non sembrava quando Komor offriva alle pareti la luce. L’olio era ormai quasi consunto, quindi Komor rimase in posizione eretta senza muoversi per un po’. Belle continuava a studiare il buio, ma sembrava propensa per il fare marcia all’indietro. «Torniamo col favore del giorno», sussurrò, quasi come avesse letto i pensieri dell’altro.
   «O quando avrò riempito la lanterna».
   «Sì, una o l’altra».

   A ripensarci, col senno di poi, chissà perché la giovane aveva apparentemente accettato di seguirlo nuovamente o compreso che ci fosse la necessità di verificare l’uscita del passaggio segreto.
   Si tolse gli occhiali, chiuse il libro e si infilò sotto le coperte appena finì di riordinare la scrivania. Era passato poco meno di un paio d’anni da quella notte. Chissà come avrebbe reagito il se stesso di allora, se solo avesse saputo cosa ne sarebbe diventato di quei vuoti, per mano sua.




 
angolo d'autrice. primo capitolo a distanza di praticamente 3 giorni, perché ormai era finito da tempo e mi rendo conto di quanto noioso sia il prologo, quindi ho pensato di dare già inizio alla nuova parte di Bb.
se fate il confronto col vecchio primo capitolo, noterete senza dubbio che metà è stato sostituito da una scena nuova. in realtà, la seconda parte non è stata propriamente sostituita, ma spostata al secondo capitolo. ho dato, invece, spazio ad una sottotrama che nella longfic originale non avevo capito di dover iniziare prima, ma che non è per niente nuova. infatti, se avessi proseguito anche solo per altri due capitoli, sarebbe venuta fuori. ma ho capito che non funzionava, la storia sembrava cambiare repentinamente, senza motivo. pensavo a Bb troppo scenograficamente. spero che questa decisione si riveli più saggia.
ho, inoltre, deciso di aumentare la dimensione del font. sento di star invecchiando, ma mi pareva illeggibile il prologo. forse è colpa dello stile adottato, idk.
spero che, nel caso qualcuno abbia letto, abbia apprezzato e si senta invogliato a continuare a leggere!! (anche se sta sezione è evidentemente morta)
   
 
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