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Autore: Adeia Di Elferas    15/07/2020    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Francesco Gonzaga prese la missiva facendo un cenno col capo e poi lasciò l'ingresso, diretto alle sue stanze. Si trattava di una lettera di sua sorella e, essendo sempre sulle spine nel sapere cosa Elisabetta stesse architettando, si disse che aspettare di essere comodo in poltrona gli avrebbe giovato, nel caso in cui la moglie di Guidobaldo da Montefeltro volesse comunicargli chissà quale colpo di testa.

Sembrava quasi che Elisabetta volesse punire il marito per essere impotente assecondando tutte le bizze del proprio carattere, sicura di non incappare nelle ire del suo sposo, approfittando del cieco amore che Guidobaldo, malgrado tutto, provava nei suoi confronti.

Scuotendo tra sé la testa, nel ripensare a come sua sorella sapesse rigirarsi il Montefeltro come preferiva, pur non riuscendo a sedurlo, né con le buone né con le cattive, il Marchese di Mantova passò distrattamente in un salottino in cui stava sua moglie Isabella.

La donna era seduta su un'ottomana, immersa nella lettura, una mano a coppa sul pancione, grosso ormai di quasi otto mesi. Non sollevò lo sguardo, nemmeno quando Francesco le borbottò un mezzo saluto. Continuò a fissare la pagina che stava fingendo di leggere, comportandosi come se il marito non esistesse.

Al Gonzaga quel suo atteggiamento faceva impazzire. Aveva sperato di essersi riavvicinato a lei, quando avevano saputo di aspettare di nuovo un figlio, e invece, così come era stata certa di essere incinta, l'Este l'aveva di nuovo allontanato, bistrattato e ignorato. In più, il Marchese lo sapeva, in quei giorni la sua donna era di umore ancor più nero per colpa di quel dannato Leonardo arrivato esule da Milano.

Era stata così infervorata, appena tre mesi prima, per il suo arrivo, che la delusione, nell'averlo alla sua corte, era stata più cocente di quanto potesse ammettere perfino a se stessa. Isabella aveva fatto di tutto, pur di ingraziarsi quel toscano: lo aveva trattato come un principe!

E invece il vinciano aveva storto il naso, sputando nel ricchissimo piatto che gli veniva offerto. Si era dapprima indignato perché aveva scoperto che la Marchesa lo voleva come 'rimpiazzo' per Andrea Mantegna, ormai troppo anziano e da Isabella sempre ritenuto poco abile nella ritrattistica, e poi aveva addotto varie scuse, abbastanza confuse, fino a partirsene quasi in sordina, una mattina di quel maledetto marzo.

Leonardo aveva discusso anche con Francesco, che pur, per far piacere alla moglie, aveva cercato di trattenerlo ancora un po'. L'artista, però, aveva rifiutato via via sempre più categoricamente, fino a dire che la corte di Mantova era per lui troppo claustrofobica, senza spazi, e, soprattutto, che non vedeva grosse possibilità di guadagno, dato che aveva sentito dire che il Marchesato era in un momento di profonda crisi economica.

Su quell'ultimo punto, il Gonzaga si era molto risentito, ma Leonardo, tanto per farlo tacere, aveva trovato le parole giuste per chiudere definitivamente il loro rapporto di mecenatismo: “Vostra moglie – gli aveva detto, sprezzante – vorrebbe un ritratto fatto da me. I bozzetti non le piacciono e io non trovo ispirazione. Fosse una bella donna, potrei anche farlo, malgrado non trovi minimamente interessante il lavoro, ma essendo tanto brutta, non mi vale la pena di sprecare la mia arte per due soldi...”

Francesco, prima di passare oltre, lanciò un'altra occhiata a Isabella. Checché ne dicesse il maestro Leonardo, a lui l'Este pareva la donna più bella mai esistita sulla faccia della terra. Perfino in quel momento, con la fronte aggrottata, il viso imbronciato e il ventre rigonfio.

Attese ancora un secondo, ma quando la Marchesa voltò pagina al tomo che teneva sulle ginocchia, capì che non gli avrebbe concesso nemmeno uno sguardo, figurarsi un saluto vero e proprio. Così, con un sospiro plateale e dolente, l'uomo proseguì.

Arrivato nella sua camera, andò alla scrivania. Scansò di malagrazia una missiva di Lucido, che lo aveva informato qualche giorno prima del fatto che la Tigre di Forlì era a Roma, che era stata trascinata in città come una novella Zenobia prigioniera, e poi reclusa in Belvedere, e stava 'indiavolata e forte d'amino', e spiegò la lettera che gli era appena arrivata.

Riconobbe senza problemi la grafia familiare di sua sorella Isabella, e già alla seconda riga, si trovò a fremere di rabbia, come spesso capitava quando leggeva qualcosa scritto di suo pugno. Malgrado lui l'avesse sconsigliata in ogni modo di andare a Roma per il Giubileo, dato che il papa aveva ufficiosamente già inserito Urbino nella lista di proscrizione dei feudatari della Chiesa, lei vi si stava recando ugualmente.

Sembrava non capire il rischio che correva, la facilità con cui avrebbero potuto farla arrestare con un pretesto qualsiasi. Anzi, nello scrivergli, usava accenti dolci, tanto calmi e tranquilli che, il Gonzaga ne era certo, dovevano essere stati scelti al solo scopo di irritarlo ancora di più.

'Affinché sia bene informata di tutto – scriveva Elisabetta – sappia che io prima me ne vo' a Marino, e quindi di lì in compagnia di detta madonna Agnesina, me ne vo' incognita a Roma per far la debita visitazione delle chiese ordinate a conseguire il Santo Giubileo.'.

Lo informava anche del fatto che, per prudenza, avrebbe alloggiato a casa del Cardinale Savelli, protetta quindi dai Colonna.

Le uniche frasi che a Francesco fece sorgere il dubbio che la sorella sapesse di aver passato il segno, furono quelle in chiusura: 'E perché possa con più contentezza e soddisfazione d'animo pigliare questo Giubileo, voglia significarmi con una sua diretta a Roma, esser proprio così, ch'ella ciò è se ne contenti. Altrimenti io ne starò in continua agonia e affanno...'.

Con uno sbuffo, l'uomo lanciò la missiva sulla scrivania e, portatosi indice e medio alle labbra, si mise a pensare. Ormai aveva vincolato suo fratello Giovanni a Ludovico Sforza, ma le sue perplessità riguardo la ripresa milanese erano sempre più pesanti.

Non riusciva a ragionare con lucidità, specie da quando Bartolomeo d'Alviano si era spostato nel veronese con duemila cavalli al solo scopo di minacciarlo e intimidirlo affinché non si alleasse apertamente con il Moro.

Ci mancava solo sua sorella, che si metteva a fare pellegrinaggi a Roma apparentemente solo per fargli dispetto...

Francesco lanciò uno sguardo al soffitto, come in cerca di un sostegno dall'alto, e poi, chiedendosi che mai avesse fatto di male in vita sua per meritarsi una moglie che lo odiava, dei parenti che gli complicavano la vita e uno Stato in difficoltà economiche e dai confini troppo piccoli per essere davvero autorevole, si alzò. Lasciandosi la scrivania alle spalle, si allacciò le mani dietro la schiena, come il vecchio che a volte sentiva di essere già, e, borbottando tra sé, si mise a vagare per il suo palazzo senza una metà precisa, sperando che fare due passi l'aiutasse a dissipare la nebbia che aveva nella testa.

 

Caterina quel giorno aveva intuito che, in effetti, nella sua condizione stesse cambiando qualcosa, e apparentemente in meglio. Temeva, infatti, che si trattasse solo di un'ingannevole miglioramento, perché, per esperienza, sapeva che spesso, prima di dare il colpo di grazia alla propria preda, la si illude di star per ritrovare la libertà. Insomma, quel laccio che sembrava essersi un po' allentato, nel suo modo di vedere il mondo, era il chiaro segno che, presto, sarebbe arrivata la stretta finale.

Prima di tutto, quella mattina aveva ricevuto l'assistenza non solo di due dame di compagnia, ma anche di tre serve e di un giovane coppiere, uno di quelli che aveva fatto passare come suoi famigli, quando, invece, si trattava di un soldato alle prime armi.

Dopodiché, aveva ricevuto un lauto pasto – che però aveva mangiato con diffidenza, temendo sempre il veleno dei Borja – e infine le erano stati portati vestiti puliti e le erano state cambiate le lenzuola nel letto.

Non fosse stato che ormai la vista azzurra e fissa del cielo di Roma cominciasse a darle sui nervi, la Tigre avrebbe anche potuto ritenersi tranquilla, quel giorno. Benché il suo istinto la tenesse in guardia, e anche se non aveva ancora potuto avere le notizie che sperava riguardo molti dei suoi fatti prigionieri – Marulli, per esempio, o Scipione Riario – la Leonessa poteva ammettere di aver trascorso giornate ben peggiori di quella.

Perciò, quando verso sera sentì muoversi il chiavistello della porta, un brivido la percorse da capo a piedi. Convinta, quasi, di vedersi arrivare davanti il Valentino, punizione come contrappasso per quelle ore di calma apparente, la donna si era messa contro il muro, come se volesse sparire.

“Mi riconoscete?” la domanda di Fortunati era superflua, tuttavia, la Sforza si sentì in dovere di rispondere.

“Sì, vi riconosco.” sussurrò lei: “Credevo che non ci saremmo rivisti mai più...”

Il piovano era cambiato molto poco, dall'ultima volta in cui l'aveva visto. Era passato più o meno un anno, eppure il suo volto sembrava immutato nel tempo. L'unica differenza era la barba ingrigita, di norma ben rasata, tenuta un po' lunga, probabilmente per colpa del viaggio.

Mentre la porta si richiudeva alle spalle del fiorentino, Caterina sentì il pungente desiderio di abbracciarlo, di sentire di nuovo qualcuno di amico vicino. Aveva bisogno del contatto caldo con qualcuno che sapeva davvero dalla sua parte.

Perciò seguì il proprio slancio, mosse un paio di passi in avanti, staccandosi a fatica dal muro. Il piovano stava già rispondendo, allargando le braccia, pronto ad accoglierla, e a trovare egli stesso conforto dal loro abbraccio.

Eppure, quando fu a mezzo passo da lui, la Leonessa sentì qualcosa di imperioso frenarla. Era il ricordo ancora vividissimo e urente dei giorni e, soprattutto, delle notti trascorsi con Cesare Borja.

In quelle settimane le era difficile già accettare il contatto fisico con le donne del suo seguito, che la vestivano e lavavano come fosse stata una bambola di pezza... Abbracciare un uomo, per quanto un religioso, uno che, a detta di tutti, era quasi un santo immune a qualsiasi peccato della carne, lussuria compresa, le risultò un'impresa impossibile.

Francesco restò ancora qualche secondo con le braccia allargate e un debole sorriso sulle labbra, ma poi, appena capì che la Sforza non avrebbe colmato la breve distanza che ancora stava tra loro, desistette subito, senza insistere.

“Mi ritenete ancora colpevole, dunque.” sospirò, guardandola con gli occhi un po' tristi.

La milanese non capì subito. Il motivo per cui non l'aveva stretto a sé come avrebbe voluto fare era molto complesso da spiegare. La domanda del piovano le sembrava del tutto oscura e fuori luogo.

“Di che state parlando?” gli chiese, accigliandosi, e incrociando le braccia sul petto, dando al suo interlocutore la sensazione che si stesse mettendo ancor di più sulla difensiva.

“Messer Manfredi.” disse piano Fortunati, deglutendo a fatica: “Lo so che mi ritenete ancora responsabile per la sua morte, e mi spiace che non abbiamo mai potuto chiarirci prima, ma io...”

Di colpo alla donna tornò in mente tutto. Il dolore, mai realmente sopito, di aver perso in modo violento un altro uomo che aveva amato, tornò a pungerla con vigore, dopo tanto tempo. Ricordava benissimo l'odio subitaneo che aveva provato per Francesco, per la sua incapacità di difendere il faentino. Tuttavia, in quel momento, era come discutere di cose successe in un'altra vita.

“No, no... Non è quello...” si scusò lei, mettendosi poi a osservare l'abito scuro del fiorentino, che cadeva alla perfezione sul suo fisico asciutto.

Fortunati aveva poco più della sua età. Non era solita guardare con interesse agli uomini che fossero più vecchi di lei. Le era bastato Girolamo Riario. Dopo di lui, aveva sempre cercato ragazzi giovani, che le dessero sia la sensazione di poter guidare i giochi, sia la freschezza di una giovinezza che sentiva di aver perso troppo presto. Dunque per lei osservare con occhi interessato un uomo come Francesco era una novità. Non poteva nemmeno dire, però, che lo stesse squadrando come faceva quando era in cerca di compagnia: in quel momento, sentendosi ancora il tanfo del Valentino addosso, non avrebbe accettato un uomo nemmeno se fosse stata costretta. Lo stava, però, osservando con un'attenzione che non gli aveva mai concesso, e questo fatto la turbò.

“Come state?” le chiese il piovano, non sapendo bene come interpretare il lungo silenzio della Tigre.

“Come stanno i miei figli?” domandò lei di rimando, non volendo per nessun motivo rispondere.

“Bene, stanno tutti bene.” disse l'uomo, con un certo orgoglio, felice di poter aggiungere: “Quando ho lasciato Firenze, Madonna Bianca e il piccolo Giovanni stavano benissimo, e il loro nascondiglio alle Murate è ancora sicuro. Ottaviano, Galeazzo, Sforzino e Bernardino, invece, sono sempre da Madonna Scali, e, anche se voi mancate loro moltissimo, stanno facendo i bravi, e non danno problemi.”

“Mi state dando un grosso sollievo.” ammise la Leonessa, riuscendo a sorridere per la prima volta da quando aveva perso tutto.

“Ma voi, voi come state? Che vi hanno fatto?” riprovò il fiorentino, accorato, trovando lo spazio che li divideva ormai insopportabile, come se per mesi, anzi, per circa un anno, non avesse desiderato altro se non almeno sfiorare la sua signora.

“Come mai siete qui a Roma?” ribatté la Sforza.

Era stato, in realtà, un istinto quasi puerile, quello che aveva spinto Francesco a far fagotto e partire per l'Urbe. Era stato il desiderio di rivederla, di provare a far qualcosa di concreto per lei. Sapeva, in realtà, di essere poco utile, ma sperava di trovare appoggio in uomini come il Cardinale Sansoni Riario, o il letterato fiorentino Alessandro Braccio. In un modo o nell'altro, voleva far sì che la prigionia della sua signora fosse la più leggera possibile, e, se ci fosse riuscito, anche la più breve.

Non sapeva, però, come spiegarglielo senza suonare arrogante, o troppo ingenuo. A lui stesso il proprio progetto, a tratti, sembrava solo un castello costruito in aria. Perciò scelse accuratamente le parole, argomentando con fatti di cronache che Caterina ancora non conosceva, sui nuovi equilibri che si stavano formando, sulla ripresa sorprendente del Moro al nord, e sull'improvvisa debolezza del papato davanti al resto d'Italia.

“Insomma, calcolando tutto quanto – concluse il piovano, tenendo una mano stretta nell'altra e lo sguardo basso – potrei riuscire a fare qualcosa. Se non altro a permettevi di avere un po' più di libertà...”

La Tigre aveva ascoltato tutto con grande attenzione e, benché ritenesse Fortunati un uomo in totale possesso delle proprie facoltà mentali, qualcosa, nel suo lungo discorso, l'aveva convinta poco. Non voleva crederlo, ma cominciava a pensare che l'arrivo del fiorentino a Roma fosse frutto di un colpo di testa, più che di un progetto ragionato e studiato nei minimi dettagli, come, invece, lui voleva sostenere.

“Con che scusa siete qui, adesso? Come avete fatto a ottenere il permesso di vedermi?” indagò la donna, cauta.

Erano domande ovvie, forse le prime che, in un momento di maggior lucidità, la Sforza gli avrebbe rivolto. Era stata tanta, però, la sorpresa e, inutile negarlo, la felicità di vederlo, che erano passate in secondo piano.

Francesco sollevò appena l'angolo della bocca e rivelò, non senza un attimo di esitazione: “Ecco, io ho chiesto, tramite i francesi, di essere imprigionato come voi. Con voi.”

Quella risposta acuì la sensazione che la Tigre aveva provato poco prima, tanto che la indusse a domandare: “Se sarete prigioniero, come credete di potermi aiutare? Avete pensato a questo?”

Il piovano strinse un attimo le labbra, cercando le iridi verdi della sua signora: “Mi hanno detto che voi non siete prigioniera, ma un ostaggio – spiegò, evitando di rispondere ai quesiti che gli erano stati posti – e dunque, questa condizione, penosa, ma privilegiata, spetterà anche a me. Dovrò soggiornare assieme agli altri membri del vostro seguito di dame e famigli, che, per altro, non sapevo fosse così numeroso.”

“Avete visto chi compone il mio seguito?” chiese, retorica, Caterina: “Perché mai credete che abbia dichiarato che siano parte del mio seguito?”

Francesco si pentì di aver fatto un commento che, evidentemente, la sua signora aveva scambiato per una critica: “Sì, ho capito subito che si tratta solo di un modo per cercare di salvare più gente possibile.”

“Voi non sapete cos'è successo a Ravaldino, gli ultimi giorni. Non potete capire.” disse all'improvviso la donna, cambiando tono: “Non pretendo che ci riusciate.”

“Avremo tempo per parlarne, se vorrete.” propose il piovano.

“E comunque non mi avete ancora detto con che scusa siete potuto venire fino a qui, e io comincio a essere stanca, quindi rispondetemi e poi, per favore, lasciatemi riposare.” mentre diceva quelle parole, la Leonessa si era portata una mano alla gamba, come se le facesse male.

Fortunati aveva sentito dire che la Sforza era stata ferita, durante l'ultima battaglia a Ravaldino, e si chiese se non fosse stata colpita proprio a quella gamba.

“Ho dichiarato di essere il vostro confessore di fiducia, e che dovevo esservi accanto, per la salvezza della vostra anima. Il Vaticano non può dire di no a una simile richiesta.” spiegò l'uomo.

“Frate Lauro Bossi si è offerto come mio confessore.” ribatté, un po' fredda, la Tigre.

Il piovano era confuso dall'atteggiamento di colpo glaciale della milanese. Faceva del suo meglio per giustificarla, immaginando a fatica quali sofferenze dovesse aver passato nelle ultime settimane, ma era difficile far finta di nulla. Anche se la conosceva abbastanza bene da sapere che il chiudersi a quel modo era una parte integrante del suo carattere, faticava a non risentirsi per un trattamento tanto ruvido.

“A quanto pare – sospirò, raccogliendo tutta la pazienza di cui era capace – per il papa potete avere più di un confessore.”

“Probabilmente – disse subito la Leonessa, sedendosi sul letto con pesantezza, come se la gamba non la reggesse più – pensa che più contatti ho con l'esterno, più facilmente finirò per tradirmi e dirgli quello che vuole.”

Fortunati non volle avvallare quell'ipotesi, anche se improvvisamente parve anche a lui quella più sensata. Rendendosi conto che la donna che aveva davanti era oggettivamente stanca e desiderosa di pace, mise a tacere la parte di sé che, invece, avrebbe voluto restarle accanto per ore, senza più lasciarla.

Tentennò e poi, appena prima di congedarsi, chiese: “Posso almeno stringervi la mano per un istante?”

Avrebbe voluto aggiungere 'dopo tutta la strada che ho fatto per vedervi, almeno questo me lo dovete', ma si trattenne appena in tempo.

Caterina era indecisa. Aveva voglia di avere un contatto fisico con qualcuno a cui voleva sinceramente bene, ma il pensiero la repelleva. Tuttavia, vedendo la mano tesa del piovano, dritta e forte, capì di averne bisogno.

Accettando la sua stretta, la milanese avvertì un senso di calore così prepotente da farle venir voglia di piangere. Ritirò la mano quasi subito, come scottata da quel contatto, ma per quello Fortunati non si risentì: gli bastò vedere l'espressione della Leonessa per capire che davvero non poteva concedere di più.

Non trattenendo più le lacrime, la Tigre sussurrò: “Grazie per tutto quello che avete fatto per i miei figli e per me.”

Francesco non aveva mai visto la sua signora piangere a quel modo, silenziosamente, in modo mesto, quasi ci fosse ormai abituata. Vederla a quel modo lo spaventò. Era come trovarsi davanti a un familiare e non riuscire a riconoscerne il volto, pur essendo sicuri della sua identità.

“Vi tirerò fuori di qui.” concluse lui, sbrigativamente, desideroso, suo malgrado, di rifuggire a quell'immagine spiazzante, così dissimile dalla Tigre che conosceva, più una Madonna dolente che non una guerriera indomita: “Fosse l'ultima cosa che faccio...”

“Adesso andate.” gli disse la donna, accorgendosi di come il piovano si stesse lentamente avvicinando alla porta: “Quando potrete tornare qui, parleremo di nuovo.”

Francesco annuì e, prima di aggiungere altro, lasciò la stanza. Scese in fretta la torre, scortato da due soldati e venne portato negli alloggi del seguito della Sforza.

Anche se ci era già stato, quella mattina, al suo arrivo, per posare le poche cose che aveva portato con sé da Firenze, solo in quel momento poté rendersi conto di quanto frugali fossero. In confronto, la cella di lusso della Tigre, sul cucuzzolo del Belvedere, era una reggia.

“Spero non vi dispiaccia dividere la stanza da notte...” disse piano Baccino, che se ne stava in un angolo, seduto contro il muro.

Il piovano non si era nemmeno accorto di lui, ma, quando lo vide, fu tutto sommato contento di non essere solo. Anche se, per accordi precisi presi coi diplomatici di Alessandro VI, lui avrebbe avuto maggior libertà di movimento rispetto alla maggior parte degli altri membri del seguito della Leonessa, la notte doveva passarla tassativamente lì, e sapere di avere un compagno di stanza lo rendeva meno spaventato.

“No, anzi...” sorrise il religioso, invitando il cremonese ad alzarsi e avvicinarsi: “Sono felice che siate qui anche voi. Vi va di dirmi cos'è successo nelle ultime settimane? A Firenze arrivavano notizie, ma non so dire quanto fossero attendibili...”

“Siete stato da lei?” chiese Baccino, ignorando del tutto le parole di Francesco.

Il piovano sapeva benissimo a chi si riferiva, così, a voce bassa, annuì: “Sì.”

“Come sta? Come sta adesso? È da sola? Lui va ancora nelle sue stanze? Che vi ha detto?” la raffica di domande che uscì dalle labbra di Baccino lasciò un po' perplesso Fortunati che, a maggior ragione, gli chiese di nuovo cosa fosse successo in quelle settimane.

Con la voce strozzata e una fretta che diventava via via sempre più comprensibile anche al piovano, il cremonese spiegò di come fossero stati battuti e fatti prigionieri e di come Caterina fosse diventata una preda personale del Duca Valentino, che l'aveva pretesa come sua esclusiva proprietà per giorni.

“Dunque le ha usato violenza?” chiese alla fine Francesco, per essere certo di aver capito bene.

Le lacrime che velarono gli occhi giovani di Baccino furono una risposta più che eloquente, e l'imprecazione che gli sfuggì dalle labbra bastò per evitare altre domande.

“Lo dicevano – soppesò il religioso – ma io credevo che si esagerasse, che fossero chiacchiere di beffa nei suoi confronti, che il figlio non papa non avrebbe osato tanto...”

“Quello è un animale, non un uomo.” ringhiò il cremonese, furente: “E se non fosse stato che lei voleva salvarci la pelle a tutti quanti, la Contessa avrebbe dovuto ammazzarlo con le sue mani la prima volta che lui le ha messo un dito addosso..!”

Il fiorentino appariva confuso, ma in realtà era solo sopraffatto da tutta quella brutalità, dallo spettro che poteva vedere negli occhi del ragazzo che aveva dinnanzi, e dalla consapevolezza di ciò che la Leonessa aveva dovuto passare, e delle scelte che aveva dovuto fare, per salvare i suoi uomini e le dame della sua corte ormai distrutta.

“Giuratemi, piovano, giuratemi – disse Baccino, tra i denti – che voi che siete uomo di lettere e di cultura e sapete parlare con i potenti, farete tutto quello che si può per tirarla fuori da quella torre.”

Improvvisamente, malgrado tutta la baldanza e la cieca foga che l'aveva portato fino a Roma, Francesco si rese conto di non poter nulla o quasi, per salvare la donna che tanto stimava e per la quale tanto aveva rischiato. Si sentiva un debole, un inetto, un uomo che, della vita vissuta, non sapeva niente. Era come quando aveva visto morire Ottaviano Manfredi davanti ai suoi occhi senza essere in grado di difenderlo o aiutarlo in qualche modo.

Eppure, sentendosi gli occhi di Baccino puntati addosso, l'unica cosa che uscì dalle sue labbra, più simile allo squittio di un topo che non alla promessa di un uomo di quarant'anni, fu: “Sì, la tireremo fuori di lì, lo prometto.”

 
   
 
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