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Autore: Adeia Di Elferas    19/07/2020    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Gian Giacomo da Trivulzio aveva ratificato, previo pagamento della cauzione, la scarcerazione di Giovanni Pirovano, fatto prigioniero dai suoi uomini poco fuori Mortara. I soldi erano stati consegnati in fretta e senza che si potessero fare troppe domande su chi li avesse versati. In merito, si potevano fare per il momento solo ipotesi.

“Sappiamo almeno chi ha pagato il suo riscatto?” chiese il comandante, togliendosi la cuffietta di cuoio e mettendosi seduto sullo sgabello da campo che si era fatto sistemare davanti al fuoco.

Nel padiglione di Don Giuliano di Ligny, dove si erano radunati tutti i graduati per decidere le prossime mosse, faceva freddo, malgrado tutta la legna che era stata messa ad ardere. Al Trivulzio sembrava impossibile che a marzo ci fosse ancora quella temperatura. Tutte le promesse di primavera dei giorni addietro parevano essersi volatilizzate, spazzate via da un vento gelido che aveva fatto seccare i primi timidi fili d'erba che erano spuntati sulla strada. Erano nell'accampamento del Balì di Digione, appena fuori Mortara, ormai, ma, se Gian Giacomo non l'avesse saputo, avrebbe potuto giurare di trovarsi su un ghiacciaio svizzero.

“Sembra sia stato Giovanni Bentivoglio.” borbottò il Ligny, le braccia strette al petto: “Quattromila ducati.”

Il Trivulzio sporse in fuori le labbra e disse: “E poi non mi vengano a dire che Bologna non si è schierata apertamente... Io non li ho versati, quattromila ducati per liberare Giovanni da Casale...”

“E dicono che Pirovano, appena libero, si sia messo in cammino per raggiungere gli sforzeschi a Novara.” volle precisare Don Giuliano.

“Io comunque, non capisco cosa ci trovino in lui tutti quanti...” si intromise Yves d'Alégre.

Il francese, da poco entrato nei quadri del Trivulzio, dopo la cavalcata difficoltosa che dalla Romagna lo aveva portato in Lombardia, sentiva di essere l'unico, in quel padiglione, a poter davvero giudicare Giovanni da Casale. Aveva combattuto, anche se non in prima persona, fino all'ultimo con l'esercito della Tigre e aveva capito molto facilmente quanto Pirovano fosse inadeguato e quasi ridicolo, al confronto della sua signora e degli altri condottieri su cui quella donna aveva potuto contare.

Vedere come oltre alla Leonessa di Romagna, anche il Moro di Milano fosse pronto a spendere e rischiare pur di averlo al proprio fianco in guerra lo innervosiva e basta. Era, a suo modo di vedere, il più grosso spreco che si potesse fare.

Anche Antonio di Baissay aveva potuto vedere da vicino i pasticci di Giovanni da Casale, a Forlì, ma, al contrario del suo compare, preferiva starsene zitto. A suo modo di vedere, la questione era molto semplice: quella cagna della Leonessa di Romagna aveva voluto Pirovano a tutti i costi solo per tenerselo come amante, mentre il Moro era pronto a pagare tanto oro per quanto pesava al solo scopo di poter dire che, alla fine, era stata lui a spuntarla, e non sua nipote.

“Sia come sia – tagliò corto Gian Giacomo, che si sentiva ancor investito del comando dell'esercito francese in Italia – incontrerò domani dei rappresentanti dei novaresi.”

“Parlare con i novaresi!” sbottò l'Alégre: “Avete già perso tempo a sufficienza, mi pare, infierendo sui nemici qui fuori da Mortara!”

Il Trivulzio rimase molto stupito da quell'attacco improvviso. Personalmente, non credeva affatto di aver perso tempo, anzi, riteneva che aver sbaragliato gli uomini di Giovanni da Casale con tanta facilità avesse avuto un effetto benefico sulle sue truppe, ridando loro fiducia e infondendo un nuovo entusiasmo.

“Cunctator, ecco come andreste chiamato!” insistette Yves, sdegnoso.

“Mi dite che sto perdendo tempo – ribatté, con calma, Gian Giacomo – ma senza questi giorni preziosi, non avrei potuto prendere contatti con gli svizzeri al servizio del Moro, né potrei ora chiedere ai novaresi di arrendersi ai ducali a patto di non subire alcun saccheggio.”

“E che ce ne viene a noi, se Novara si risparmia un saccheggio?” si intromise il Balì di Digione, che cominciava a parteggiare in modo netto per l'Alégre.

Il Trivulzio represse uno sbuffo. Quando aveva a che fare coi francesi, gli pareva sempre di discutere con un muro di pietra spessa tre braccia. Possibile che dei condottieri tanto rinomati non capissero?

“I fanti svizzeri con cui ho avuto contatti – spiegò, imponendosi di non perdere la pazienza – mi hanno riferito che Ludovico Sforza ha, ovviamente, promesso il sacco di Novara, in caso di vittoria, e tutti i soldati non aspettano altro, dopo mesi di fatiche. Quindi, se il Moro, pur di prendere la città senza combattere, accettasse di evitare il sacco, si troverebbe l'esercito contro senza nemmeno accorgersene.”

“Sia come sia – concluse l'Alégre, una mano sollevata a voler chiudere in fretta la questione – noi avremo quasi diecimila cavalli, settemila fanti svizzeri e tremilacinquecento fanti tra guasconi e italiani, non appena Luigi d'Ars, La Palice, Cardonne e tutti gli altri ci raggiungeranno. Lo Sforza cos'ha? Tredici o quattordicimila soldati mal contati, comandati da incapaci come quel Pirovano che tanto piaceva anche alla Tigre di Forlì, e ricordatevi pure che la sua fanteria svizzera è composta dagli scarti della nostra. Detto questo, non credo che servano, tutti questi sotterfugi...”

“Voi non ragionate da stratega.” lo rimproverò Gian Giacomo, guardandolo, mentre il francese si avvicinava all'uscita del padiglione.

Yves sputò una bestemmia nella sua lingua e poi, guardando il milanese rinnegato, sentenziò: “E voi non ragionate da uomo d'onore.”

 

Quell'aprile stava cominciando sotto la pioggia, a Roma. Caterina non era più sola come i primi giorni, ma, suo malgrado, si trovava a sopportare a fatica la compagnia imposta delle donne e dei sedicenti servi – tranne Baccino e altri giovani uomini che non erano ancora stati ammessi alla sua presenza, chissà per quale strategia borgiana – che aveva fatto portare con sé a Roma nella speranza di salvarli.

Non le dispiaceva vederli tutti in salute, specie Argentina, che aveva di nuovo avuto il permesso di occuparsi di lei, ma le loro chiacchiere e la loro mera presenza le impedivano di concentrarsi su tutti i pensieri che le attanagliavano la mente. Forse sarebbe stato meglio anche per lei scrollarsi di dosso tutto, e rassegnarsi ad aspettare e basta, però non ci riusciva.

Solo quando si avvicinava la sera, solo allora veniva di nuovo lasciata sola o quasi, e poteva provare a rilassarsi. Perciò, ogni mattina, quando sentiva toccare la porta, non riusciva a trattenere un sospiro pesante. Di norma il suo seguito arrivava quando lei era già sveglia da un po', strappata al sonno da uno dei suoi incubi ricorrenti, ma aveva l'abitudine di farsi trovare ancora svestita e a letto, in modo che ci fosse qualcosa da fare, ovvero vestirla e sistemarla, per passare un po' la mattinata.

Quella mattina non era ancora sorto il sole e la pioggia scrosciante lasciava intendere che ci sarebbe stato buio per tutto il giorno. La Tigre si stava rigirando tra le lenzuola, madida di sudore, l'immagine del corpo sfatto di Ludovico Marcobelli, rivista vividissima in sogno, che ancora la tormentava.

Immaginava che mancassero almeno un paio d'ore, prima dell'arrivo delle sue dame, perciò stava cercando di trovare di nuovo una posizione comoda e riposare ancora un po'. Scattò a sedere sul letto, quindi, quando sentì la porta aprirsi lentamente.

Richiudendosi subito l'uscio alle spalle, Francesco Fortunati la salutò con un cenno del capo e sistemò la torcia che aveva portato con sé su uno dei ganci a muro. Quella, pensò la Sforza, era un'altra piccola libertà che fino a pochi giorni prima non sarebbe stata concessa a nessuno: entrare con una fiamma viva nella sua stanza poteva essere pericoloso, agli occhi dei Borja, perché avrebbe potuto usare la torcia come un'arma e provare a guadagnarsi la libertà.

“Come mai siete qui a quest'ora?” domandò la Tigre, restando a letto, la coperta che le arrivava alla vita.

Il piovano aveva uno sguardo circospetto, e, nell'avvicinarsi, si curvò un po' in avanti, come a sottolineare la segretezza e l'importanza di quello che stava per riferire alla sua signora.

“Durante il giorno – spiegò, prima di tutto – non riesco mai a parlarvi a quattrocchi e così questo genere di cose ho voluto dirvele adesso.”

“Parlate, non tenetemi sulle spine.” lo incitò la donna, asciugandosi, intanto, il sudore freddo che ancora le imperlava la fronte.

Preoccupato da quel gesto, e notando solo in quel momento quanto la sua signora apparisse stremata, benché avesse teoricamente appena passato una notte di sonno, Fortunati si informò, accorato: “Ma vi sentite bene?”

A sorpresa, con un gesto abbastanza stizzito, la Sforza si levò di dosso le lenzuola e, sollevando la veste da notte quel tanto che bastava per mostrare la ferita alla gamba, esclamò: “Mi ha dato fastidio tutta notte, non ho chiuso occhio!”

Non era quello, in realtà, il motivo che l'aveva fatta riposare poco, ma al fiorentino sembrò una spiegazione convincente, tanto, almeno, dallo stringersi le mani al petto, in segno di compatimento e sussurrare: “Perdonatemi, non immaginavo...”

“Per favore, Francesco...” soffiò a quel punto la Leonessa, apparendo ancora più stanca e provata di prima: “Ditemi quello che dovete.”

“Volevo dirvi che sto prendendo contatti con il Cardinale Giovanni Medici.” rivelò Fortunati, aspettando una reazione della milanese.

Questa, accigliandosi, ribatté con un misero: “Ah.”

Il suo defunto terzo marito le aveva parlato molto di rado di quel cugino che stava facendo carriera in Vaticano. Di lui sapeva, quindi, poco. Doveva avere circa venticinque anni, era figlio di Lorenzo il Magnifico e aveva avuto un buon successo negli studi teologici. A parte quello, però, Caterina non avrebbe saputo dire altro.

Anzi, in quel momento, avere contatti con quel fiorentino non le sembrava una mossa troppo saggia. Innanzitutto rappresentava una città che, comunque la si guardasse, le si era dichiarata ostile in ogni modo. In secondo luogo, era il figlio di colui che aveva depredato i Popolani dei loro beni, quindi, in senso lato, un possibile nemico anche per Giovannino. Ultimo, ma non meno importante, non aveva mai avuto contatti con lei e sembrava assurdo che avesse degli interessi nell'aiutarla in una situazione tanto difficile e pericolosa.

“Il Cardinale Medici ha idee...” cominciò a dire Fortunati, cercando le parole più adatte: “Ci sembra che abbia idee molto ambiziose per Firenze. Sembra che voglia ridare lustro alla sua famiglia, e non possiamo certo dire che suo fratello Piero, quello che tutti chiamano il Fatuo, abbia avuto grande successo, nel far grandi i Medici.”

“A Firenze c'è mio cognato Lorenzo.” lo liquidò Caterina, categorica: “Il potere lo detiene lui. E finché sarà in vita, per noi Firenze non sarà una città amica.”

Il piovano si morse il labbro. Ancora una volta stentava a riconoscere la donna che aveva servito a Forlì. Razionalmente, specie dopo tutte le cose che Baccino gli aveva raccontato, poteva capire lo stato d'animo della Tigre, poteva anche scusare la sua aggressività e la sua apparente apatia nei confronti della propria situazione. Tuttavia, non poteva evitare a se stesso di provare una sorta di rabbia, nel vederla così spenta e vinta, così incapace di assecondarlo e collaborare alla sua stessa liberazione.

Stringendosi una mano nell'altra, Francesco si diede una rapida occhiata in giro. La stanza – molto grande in realtà – che dominava il Belvedere era in ordine e pulita, ben diversa dalla cella in cui Caterina avrebbe potuto essere rinchiusa. Calcolando la guerra a cui era scampata, le battaglie sanguinosissime a cui era sopravvissuta e la prigionia dura da cui, almeno per il momento, sembrava essere stata salvata, Fortunati proprio non capiva come, una donna del genere, non sentisse il pungolo della vita bruciare nel proprio petto e spingerla a combattere di nuovo, questa volta per la libertà.

Le lanciò uno sguardo indagatore. La Sforza stava fissando il pavimento, le labbra incurvate verso il basso e la fronte solcata da una serie di piccole rughe contrariate. Non era difficile capire che quel silenzio, per lei, equivaleva a una richiesta di restare sola.

Promettendosi di lavorare comunque al suo massimo per intessere amicizie e guadagnarsi fiducia presso chi in Vaticano contava abbastanza da poter avere un peso nella questione della Leonessa, il piovano si disse che non era il caso di insistere. La donna che aveva deciso di servire per il resto della sua vita era ancora come l'animale selvatico che era stata prima della disfatta. Solo che questa volta era stata ferita, nel profondo, e quindi, per fidarsi ancora, ci avrebbe messo ancora parecchio tempo.

“Devo farvi portare qualcosa?” chiese l'uomo, andando verso la porta.

La Tigre si sentiva in colpa nel provare un senso di sollievo, all'idea che il fiorentino stesse per andarsene. Non avrebbe voluto essere così ruvida con lui, dopo tutto quello che aveva fatto per lei, eppure non poteva evitare di comportarsi a quel modo.

“Avete notizie di Luffo Numai?” chiese.

Francesco, che dalla Leonessa non aveva sentito nominare il forlivese nemmeno una volta da che era lì, rimase un attimo spiazzato e poi rispose: “Da quello che so è sempre nel nuovo governo istituito dal Valentino.”

“Bene.” sussurrò lei: “Meglio così.”

“Avete bisogno nulla?” ribadì il piovano, già pronto ad andarsene.

“Sì.” rispose la milanese: “Vorrei vedere frate Lauro, se non fosse troppo incomodo.”

Fortunati sentì una stretta al cuore che non gli piaceva affatto. Quella richiesta, per lui, era un colpo basso.

Malgrado ciò, con il suo miglior sorriso, ribatté: “Lo farò presente.” e se ne andò.

Il domandare di frate Lauro Bossi non era stato casuale. Come le era successo altre volte in vita sua e come, immaginava, spesso accadeva a Bernardino, quando sembrava voler tirare la corda tanto da vedere se si sarebbe davvero spezzata, Caterina aveva chiesto a Fortunati di poter vedere il frate milanese al solo scopo di carpirne la reazione. Non aveva senso, specie non dopo tutti i rischi e le tribolazioni che il piovano si era accollato per lei e per i suoi figli, ma per la Leonessa era necessario.

Aveva sperato di vederlo indisponente, magari perfino arrabbiato, in ogni caso irritato nel capire che lei avrebbe preferito la presenza di un frate quasi sconosciuto alla sua. E invece, pacato e accomodante come sempre, l'uomo aveva sorriso e aveva ubbidito senza fare una piega.

Massaggiandosi lentamente il collo, Caterina si mise dapprima a sedere sul letto e poi si alzò. Quel giorno, pensò, si sarebbe fatta trovare dalle sue dame di compagnia già vestita e pettinata.

Aveva passato una vita intera in mezzo agli uomini, ai soldati, ai diplomatici. Non sopportava, ora, di trascorrere così tante ore al giorno circondata quasi solo da donne. Non avevano gli stessi discorsi, non avevano lo stesso modo di ragionare. Si era sempre trovata a suo agio con le truppe, molto più che con le nobildonne sue pari. Doversi abituare a quella nuova fauna, per lei, era un motivo ulteriore di sofferenza.

Passate un paio d'ore, già in abiti da giorno e con il letto rifatto, Caterina sentì la porta aprirsi di nuovo e in pochi istanti le sue dame di compagnia e un paio di sedicenti paggi erano già al suo fianco. Accettò di buon grado i commenti delle donne, che si complimentavano per come fosse riuscita a vestirsi da sola, e poi si mise sul sedile in pietra ricavato nella rientranza della finestra, fingendosi interessata alle chiacchiere delle presenti.

Era stata così presa nel tentare di apparire calma e per nulla infastidita, da non essersi accorta subito che uno dei due paggi era Baccino. Quando se ne avvide, lo fissò con insistenza, in silenzio.

Anche lui, che aveva appena finito di versarle da bere, le puntò gli occhi addosso.

Nello specchiarsi l'uno nelle iridi dell'altra, sembravano lanciarsi un messaggio di aiuto. Erano come pesci fuor d'acqua, ma, grazie alla presenza l'uno dell'altra, riuscivano a sentirsi un po' meno soli.

 

La pioggia non accennava a smettere ed Elisabetta Gonzaga cominciava a credere che avrebbe fatto meglio ad ascoltare la cognata, Agnesina, presso il quale marito – Fabrizio Colonna – la donna era ospite.

Aveva piovuto tutta notte e aveva continuato per buona parte della mattina, tuttavia, quando verso mezzogiorno la pioggia si era placata, Elisabetta aveva insistito per fare una nuova visita a San Pietro. Peccato che poco dopo la loro partenza, avesse ripreso a piovigginare e infine a diluviare tanto da rendere loro impossibile lasciare la loro vettura.

Agnesina, esasperata da uno scossone – l'ultimo di tanti – della carrozza in difficoltà sulla strada scivolosa, sbottò: “Che tempo impossibile!”

La Gonzaga, invece, sollevò le sopracciglia, trattenendo per sé un commento velenoso sulla cognata, che, pur se trentenne, si atteggiava sempre a donna ormai anziana: “Io trovo che Roma, sotto la pioggia, sia molto bella.”

“Forse. Se non si pensa alle strade piene di fango.” borbottò l'altra, per poi esclamare, mentre la carrozza ondeggiava di nuovo in una curva: “Santo cielo!”

A Elisabetta scappò una risata, e la cognata, per quieto vivere, lasciò cadere il discorso, limitandosi ad aggrapparsi con più forza al bordo del sedile, pregando che il cocchiere le riportasse a palazzo il più in fretta possibile.

Erano in silenzio da quasi dieci minuti quando, occhieggiando fuori, tra la pioggia, la Gonzaga scorse quella che tutti chiamavano 'la torre dei Borja', un Belvedere eccezionale, una sorta di nido d'aquila che affacciava sulle vigne private del papa.

Senza bisogno di introdurre in qualche modo la sua domanda, la sorella del Marchese di Mantova chiese: “Ma allora dite che è davvero là dentro, la Tigre di Forlì?”

Le due donne ne avevano discusso più volte, specie alla sera, quando si mettevano davanti al camino a chiacchierare, prima di andare a coricarsi. Agnesina aveva partorito relativamente da poco un bel bambino grosso e vivacissimo che aveva chiamato Ascanio e così solo di rado il marito, Fabrizio Colonna, la reclamava per sé, lasciandola molto più volentieri all'amica e cognata.

Era stato proprio parlando di Fabrizio che le due donne erano arrivate a discorrere di Caterina Sforza per la prima volta. Agnesina aveva riferito che il marito aveva combattuto contro la Leonessa quando lei ancora aveva sì e no una ventina d'anni, e che ne servava un ricordo spaventoso.

“Vent'anni, una donna e per di più incinta – aveva sentenziato la moglie del Colonna – eppure a uomini grandi e grossi come Fabrizio faceva una paura folle, checché ne dicessero tutti!”

E da quella volta era capitato spesso che la nominassero, specie dopo il suo ingresso a Roma da vinta.

“Sì, dovrebbe essere in quella torre...” confermò Agnesina, di colpo non più interessata alla strada sconnessa, ma con lo sguardo che inseguiva quello della cognata.

“Dev'essere una donna molto interessante.” commentò, quasi tra sé, Elisabetta.

“Probabilmente sì.” prese le distanze l'altra: “Ma io avrei paura, ad avere a che fare con una belva del genere.”

La Gonzaga ci pensò un momento e poi sussurrò: “Credete davvero che abbia avuto centinaia di amanti?”

La cognata sospirò e poi, scuotendo il capo, quasi sconsolata, rispose: “Centinaia di amanti... Sì, potrebbe anche averli avuto. Eppure qui, per ora, non ne vedo nemmeno uno venuto a salvarla.”

Quella costatazione pesò su entrambe come una nuvola scura, simile a quelle che ingombravano il cielo incurante e lontano di Roma. Appena la carrozza si intrufolò in un vicolo, il Belvedere sparì dal loro campo visivo e tanto bastò a entrambe per cambiare discorso.

“Vi fermerete fino a fine mese, voglio sperare...” sorrise Agnesina.

“No, non così tanto... Credo che resterò ancora una settimana, dieci giorni al massimo...” dovette deluderla Elisabetta: “Mio marito mi lascerebbe qui quanto voglio, anche se lo so pazzo di gelosia, ma mio fratello mi ha già scritto una volta intimandomi di far durare questo pellegrinaggio il meno possibile... Non posso farlo arrabbiare più dello stretto indispensabile.”

Mentre le due donne ridevano assieme come due ragazzine, la carrozza prese un'altra svolta e si avviò, finalmente, in modo deciso verso il palazzo di Fabrizio Colonna.

 

Gian Giacomo da Trivulzio aveva voluto muovere in fretta le truppe. Non gli piaceva il clima che si stava creando al campo, quando erano vicino a Mortara, e così aveva preso con sé millecinquecento lance, seimila fanti francesi e diecimila svizzeri ed era partito per Vercelli.

La notizia che Gaspare Sanseverino avesse sorpreso una loro colonna di trecento fanti diretta a Lodi e che avesse ucciso praticamente tutti, aveva dato al Trivulzio uno slancio ulteriore.

Era convinto, profondamente convinto, che il Moro non avesse né la forza né la capacità di ribaltare davvero le sorti della guerra. Nell'intimo era certo che dopo quel piccolo ritorno di fiamma, il Ducato sarebbe caduto di nuovo facilmente nelle mani di Luigi XII. Tuttavia, quell'affondo del Fracassa lo aveva spaventato.

Se prima era stato quasi convinto dalle parole dell'Alégre, che l'aveva tacciato di essere troppo prudente, ora si sentiva ancor più legittimato a fare le cose in modo accorto e studiando accuratamente la strategia migliore.

Avrebbe voluto avere accanto a sé qualcuno con cui confrontarsi senza invidie e rancori, qualcuno come Troilo de Rossi, ma il suo amico era ancora nel parmense, a cercare di rimettere ordine in una situazione che, specie con il ritorno di Ludovico Sforza a Milano, pareva a un passo dallo sfuggirgli di mano.

Così chiamò al suo padiglione Galeazzo Pallavicini, uno dei pochi italiani che aveva ancora sotto il suo comando, e decise di mettere lui a parte del suo progetto.

“Divideremo in due il nostro esercito – gli spiegò, indicando sulla mappa prima Vespolate e poi Trecate – e ne manderemo una parte qui e una qui, in modo da tagliare i viveri ai soldati del Moro.”

Galeazzo, che il mese addietro era stato contattato proprio dallo Sforza, che lo voleva disperatamente dalla sua parte, guardò con un certo scetticismo Gian Giacomo e poi chiese: “Ma ritenete davvero saggio, dividerci? I milanesi resteranno compatti...”

“Poi ci riuniremo...” assicurò il Trivulzio: “Ma prima dobbiamo far fare loro la fame. Questa guerra, amico mio, non la vinceremo solo sulla punta delle picche, ma soprattutto grazie ai malumori dell'esercito sforzesco.”

Il Pallavicini era rimasto convinto solo a metà, tuttavia il suo ruolo nei farraginosi ingranaggi dell'esercito francese era di gran lunga inferiore a quello del suo interlocutore, perciò piegò il capo e sussurrò, non senza una punta di ironia: “Come dite voi, mio signore.”

 

Caterina quel giorno aveva ricevuto la visita di frate Lauro. Anche se erano passati ormai un paio di giorni, da quando aveva chiesto a Fortunati di portarle il religioso, la milanese non si era risentita per il ritardo, specie perché lo stesso Bossi le aveva raccontato di quanto fosse stato difficile ottenere il permesso per quella visita, ora che il suo confessore ufficiale, ovvero il piovano, era arrivato a Roma.

Le avevano permesso di restare sola con il frate per circa mezz'ora, e in quel lasso di tempo il religioso le aveva spiegato meglio quello che intendeva fare.

Il progetto, per quanto molto complicato, alla Tigre sembrava ugualmente più sensato di quello di Fortunati. Se Francesco le aveva infatti dato l'impressione di essere giunto a Roma con poco più che una vaga idea di come muoversi, Bossi era stato in grado di farle con precisione nomi e ipotizzare date, prospettandole, in vari scenari, quello che sarebbe potuto accadere se avesse accettato.

“Per fare tutto quello che mi avete detto – aveva fatto presente la donna, quando il frate non aveva avuto altro da aggiungere – serviranno sicuramente soldi, e io, al momento, non ne ho, con me.”

“I soldi serviranno, certo.” aveva risposto lui, con un sorriso aperto, come se quello fosse solo un dettaglio trascurabile: “Ma mi accontenterei di un vostro pagherò. Posso trovare il modo di anticipare quello che serve.”

“Ma se mi prendessero – aveva ribattuto la Leonessa, sforzandosi di capire quanto fosse in buona fede il religioso – di certo mi ucciderebbero, e voi non vedreste nemmeno un ducato.”

“Se dovessero davvero scoprire la fuga, imprigionarvi di nuovo e addirittura uccidervi – aveva detto allora lui, facendosi di colpo serissimo – significherebbe che la mia missione è fallita miseramente e non ci sarebbe più motivo di vivere nemmeno per me.”

Per il momento, pur molto colpita dalla determinazione di frate Lauro, la Sforza aveva preso ancora tempo, dicendo che prima voleva vedere cosa avrebbero fatto altri suoi amici che avevano contatti nella Curia. Bossi non si era risentito, anzi, aveva assicurato che, nel caso fosse riuscita a trovare un modo più diplomatico e meno pericoloso per salvarsi, lui ne sarebbe stato solo felice.

Precisi come un orologio, due dei soldati che la sorvegliavano, dopo mezz'ora esatta avevano riaperto la porta, spingendo dentro le dame di compagnia della Tigre e Bossi era stato invitato ad andarsene.

Arrivata a sera, Caterina era stata lasciata di nuovo sola. Le sembrava di vivere ormai su una ruota, in cui il giorno e la notte si inseguivano senza fermarsi mai, identici l'uno all'altra, resi irriconoscibili, se non per qualche goccia di pioggia o qualche tramonto dai colori memorabili.

C'era già buio e la sua stanza era immersa nell'oscurità, quando sentì bussare alla porta. Subito dopo la voce di una delle guardie riprese l'ospite, ricordandogli che non era il caso di mettersi a picchiare alla porta, con una prigioniera.

La voce di Fortunati si scusò e poi l'uomo fece capolino in stanza, portando con sé una torcia, come aveva fatto un paio di sere prima.

“Ci sono novità?” chiese Caterina, restando ferma dove stava, vicino alla finestra.

Il piovano scosse il capo, indugiando forse più del dovuto sull'abito da notte un po' troppo trasparente e leggero, a suo dire, per una notte di inizio primavera.

“E allora come mai siete qui?” la Leonessa aveva posto quella domanda con voce acuta, allarmata.

Si stava dando della stupida da sola, ma con la luce malferma della torcia, lo sguardo di Fortunati le sembrava strano. Aveva passato attimi troppo brutti, momenti troppo dolorosi, per colpa del Borja, per riuscire a guardare perfino un uomo che a lei non aveva mai fatto altro che bene in modo disteso.

Il piovano parve intuire qualcosa e così restò il più possibile vicino alla porta, nel dire: “Sono venuto fin qui solo per ricordarvi che domani è il sei aprile. Forse lo sapevate già, ma ho pensato che tra quattro mura come queste si possa finire a non sapere nemmeno più in che giorno si è.”

La Tigre schiuse le labbra, ma prima che potesse ringraziare in qualche modo il fiorentino per la sua gentilezza, l'uomo se n'era già andato, ripiombando la stanza nel buio quasi assoluto.

La mente della donna, di colpo, parve svuotarsi da tutte le parole di frate Lauro, e perfino dalla sensazione spiazzante che aveva provato poco prima nello scrutare il volto di Fortunati. L'unica cosa che vedeva davanti a sé era il viso di suo figlio Giovannino, il più piccolo, quello che aveva potuto conoscere meno.

Ricordava benissimo i suoi occhietti allungati, gli stessi che avevano illuminato il viso di suo padre Giovanni, ma di un verde tanto scuro da sembrare color pece. Poteva quasi sentire la morbidezza della sua belle e la stretta già forte delle sue piccole mani, un po' tozze, ma così belle ai suoi occhi.

Con un sospiro si domandò se mai l'avrebbe rivisto. Da quando era stata catturata dal Borja, aveva sempre creduto che sarebbe morta a breve, in un modo o nell'altro. Da quando era a Roma, però, cominciava a intravedere qualche timidissimo spiraglio di speranza.

Lanciò uno sguardo all'inginocchiatoio. Benché ufficialmente avesse ben due confessori, non aveva ancora provato nemmeno una volta a rivolgersi a Dio. Fu tentata di provare, ma sapeva che in una notte tanto buia, non ci sarebbe comunque riuscita.

Preferì tornare alla finestra, cercando la luna tra le spesse nubi nere, che sembravano avviluppare il cielo di Roma come delle catene di seta. Si chiese come fosse diventato il suo piccolo leone. Non lo vedeva ormai da circa cinque mesi, e per un bambino di appena due anni si trattava di un'enormità.

Provò a immaginarselo correre a destra e a sinistra, perché di certo ormai correva, e se era agitato come quando l'aveva in pancia, era probabile che non stesse mai fermo un solo istante.

La confortava saperlo sotto le vigili cure di Bianca, al sicuro in un convento di monache che dovevano la loro fedeltà tanto a lei, quanto a Fortunati. Là dentro, suo cognato Lorenzo non avrebbe potuto nemmeno sfiorarlo.

Con un sospiro dolente, dopo ore intere passate a osservare il cielo e lasciare libera l'immaginazione di figurarsi il viso del suo piccolo, la donna provò a coricarsi.

L'addolorava pensare che Giovannino non avrebbe ricordato nulla di lei. E più ci pensava, più si chiedeva se fosse tanto egoista, provare davvero a scappare, mettendo a rischio tutti quelli che facevano parte del suo seguito.

Lasciando che una lacrima le rigasse la guancia e finisse a inumidire il guanciale, Caterina si impose di non prendere decisioni sull'onda emotiva, ma di aspettare ancora qualche giorno.

Mentre si sforzava di ricostruirsi un calendario mentale, prendendo come punto fermo il compleanno di Giovannino, si ricordò che il 7 aprile sarebbe ricorso un altro anniversario di nascita, a lei molto meno caro: quello del suo primogenito Ottaviano.

Il ricordo di quel giorno, così lontano ormai nel tempo, bastò ad avvelenarle quel che restava della notte e, quando sorse il sole, malgrado la voglia di pensare ancora al suo figlio più piccolo e dimenticare quello più grande, trovò quasi conforto nel seguire le chiacchiere vacue delle sue dame di compagnia.

Tra queste, solo Argentina, intorno a mezzogiorno, mentre le serviva da mangiare, ebbe lo spirito di dire: “So che oggi è un giorno importante, per voi, mia signora. Non l'ho scordato.”

La Leonessa le prese un momento la mano, stringendola con forza e poi sussurrare un ringraziamento.

Mentre la serva faceva un sorriso in rimando, allontanandosi un po' dalla scrivania su cui aveva lasciato il piatto e il calice d'acqua, Caterina sentì la gola stringersi e gli occhi pungere. Fu tanto lo sforzo di non piangere, che quasi non si accorse del sapore amaro e inconsueto della minestra di pasta e verdure.

 
   
 
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