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Autore: Adeia Di Elferas    22/07/2020    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
Capitoli:
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Quel giorno Alessandra Scali aveva lasciato il palazzo prima che spuntasse il sole e aveva chiesto a Galeazzo – da lei ritenuto, malgrado l'età, il più adulto e responsabile dei quattro figli della Tigre che aveva sotto il suo tetto – di supervisionare sui fratelli, affinché la giornata passasse in modo tranquillo anche in sua assenza.

“Potrei tornare già in serata – aveva detto, appena prima di andarsene – ma è più probabile che mi trattenga fuori anche per la notte.”

Il Riario non aveva fatto domande, ma dall'entusiasmo fremente che aveva colto nella colligiana, si era chiesto se quella sua partenza improvvisa avesse a che fare con Michele Marulli che, dalle ultime notizie di cui era stato anche lui messo a parte, stava di fatto tornando in Toscana.

Era il compleanno di Ottaviano, e quel giorno il ventunenne sembrava più scontroso del solito. Si era svegliato di pessimo umore e, quando, suo malgrado, Galeazzo lo aveva informato dell'assenza della padrona di casa, aveva solo avuto parole avvelenate perfino per Alessandra Scali.

“Dovresti vergognarti, a parlare di lei in questo modo.” l'aveva ripreso subito il fratello, tenendo le braccia strette sul petto, in un'inconscia posizione di difesa nei confronti del maggiore, che, per quanto poco muscoloso e flemmatico, era capace di scatti d'ira repentini e abbastanza burrascosi da far paura.

Ottaviano, in tutta risposta, lo guardò per un lungo istante. I suoi occhi, cerchiati di scuro, si specchiarono in quelli verdi e pieni del fratello, ma non vi trovarono nessuno spiraglio di reale comunicazione.

Sogghignando, nascondendo come spesso faceva la propria rabbia e il proprio senso di inadeguatezza dietro una maschera di ironia e supponenza, il Riario più grande disse: “Io esco.”

“Non lo farai.” provò a opporsi Galeazzo.

Il tono deciso con cui il fratello aveva parlato, ebbe davvero il potere di bloccare Ottaviano. Da un lato, il giovane non aveva molta voglia di insinuarsi per le vie una città che non conosceva e di cui aveva paura. Aveva voglia, dopo tanto tempo, di bere quanto gli pareva e di cercarsi una donna che non facesse troppe storie e lo assecondasse come meglio preferiva. Nel palazzo della Scali poteva solo usufruire della caraffa che gli veniva fornita su gentile concessione della padrona di casa e, in quanto a trovarsi compagnia, aveva già individuato e provato un paio di sguattere abbastanza a buon mercato, ma con le quali non aveva potuto sfogarsi come avrebbe voluto, per paura di destare la contrarietà di Alessandra.

Dunque, da un lato, anche in virtù del fatto che fosse il suo compleanno, il Riario moriva dalla voglia di dedicarsi una giornata intera, abbandonandosi di nuovo ai suoi vizi, come aveva fatto per anni quando era alla corte di sua madre a Forlì. Tuttavia, la riluttanza che già provava nei confronti di Firenze, unita all'opposizione di Galeazzo, fece sì che si risolse per desistere dal suo proposito.

“Come preferisci.” sospirò, arrendendosi tanto facilmente da insospettire il fratello: “Ma sappi che se ci saranno problemi con la servitù, sarai tu quello da biasimare...”

“Che intendi?” chiese allora l'altro, cominciando a sudare freddo.

Il maggiore gli aveva già voltato le spalle e stava già camminando a passo svelto verso le scale, con l'espressione di chi ha in mente già qualcosa di preciso da fare.

“Che intendi?” chiese di nuovo Galeazzo, cominciando a credere di aver commesso un grosso errore a vietare a Ottaviano di uscire.

La cosa più probabile era che il Riario più grande volesse riversare su qualche serva di casa le voglie che fino a un momento prima aveva deciso di riservare a qualche donna di strada. Il quintogenito della Tigre si sentì improvvisamente troppo piccolo, per far fronte a una situazione del genere. Aveva provato a tamponare il fratello come meglio poteva, impedendogli di vagare per Firenze senza alcuno che lo controllasse, più di quello, onestamente, non pensava di poter fare.

Forse avrebbe potuto chiuderlo in camera, ma poi ne avrebbe subite le rimostranze una volta liberatolo. Inoltre, quella gli sembrava una strada meno praticabile delle altre. Sia lui, sia Bianca avevano notato negli anni come il fratello maggiore fosse insofferente in modo quasi innaturale alle stanze chiuse a chiave. La sorella sosteneva che tutto risalisse a quando la loro madre l'aveva rinchiuso in stanza dopo la morte di Giacomo Feo. Se fosse o meno così, Galeazzo preferiva non dover affrontare da solo le ire di Ottaviano.

Così, voltando platealmente le spalle a quello che riteneva un proprio dovere, il ragazzino decise di cercare Bernardino e Sforzino, convinto che, almeno su di loro, sarebbe stato più semplice esercitare il proprio ascendente.

Stava ancora ragionando sul fratello maggiore, interrogandosi senza trovare soluzioni, quando vide Bernardino sfrecciare come un fulmine verso una delle porte di servizio.

“Dove stai andando?” gli chiese, cominciando a temere che pure il fratello minore avrebbe trovato il modo di sfuggirgli.

Il bambino, ben lungi dal nascondere i suoi piani, rispose, un po' sulla difensiva: “Voglio vedere le Murate.”

“No.” tentò di opporsi il Riario.

“Madonna Alessandra è partita.” ribatté il Feo: “Una delle serve mi ha detto che forse non torna fino a domani. Non verrà mai a sapere che sono uscito di nuovo.”

Paradossalmente, Galeazzo si rese conto di potersi fidare di più di un bambino di nove anni che non di un uomo di ventuno. Così non provò nemmeno a opporsi di nuovo, dicendosi che, da che erano a Firenze, Bernardino era già uscito di nascosto ben più di una volta, ed era sempre stato abbastanza coscienzioso da tornare tutto intero e senza aver combinato disastri.

“Perché vuoi vedere le Murate?” chiese il Riario, guardando con un velo di benevolenza il fratellino.

“Perché là ci sono Bianca e nostro fratello Giovanni.” rispose con ovvietà lui.

“E sai come arrivarci?” si informò il maggiore.

“Me lo sono fatto spiegare.” annuì il bambino: “Ho un'amica, nelle cucine, che...”

Come ripensandoci all'improvviso, il Riario scosse con forza il capo: “No, no, non ci andrai. È troppo pericoloso, e poi ho promesso a Madonna Scali che...”

“Ma io...” balbettò il più piccolo.

Galeazzo gli posò una mano sulla spalla e ripeté, scandendo bene le parole: “Ti ho detto di no.”

Il Feo parve arrendersi, ma l'altro intravide un luccichio nei suoi occhi che non prometteva nulla di buono. Tuttavia, similmente a come gli era capitato poco prima con Ottaviano, sentiva di non aver ancora abbastanza autorevolezza per imporsi a quel modo su un fratello, benché, in questo caso, fosse anche più giovane di lui.

“Farai come ti ho detto?” domandò, inclinando appena la testa di lato.

Il bambino non disse nulla, per non dover infrangere una promessa. Fece appena un cenno con il capo, che voleva dire tutto e niente.

Il Riario deglutì e poi, capendo benissimo che il fratellino sarebbe uscito comunque, che lui lo volesse o no, preferì mostrarsi morbido, con lui, a patto che non gli mentisse.

“Vai pure.” soffiò: “Ma dimmi esattamente che strada farai e a che ora pensi di tornare e, appena sarai rientrato in casa, voglio che tu venga a cercarmi.”

Il Feo sembrava un po' confuso da quell'improvvisa concessione, tuttavia sentì come un peso andarsene dallo stomaco, nell'avere l'approvazione del fratello, uno dei pochi che stimasse davvero.

Annuì e cominciò a spiegare al Riario che strada avrebbe fatto e come sarebbe poi tornato dalle murate fino al palazzo di Alessandra Scali.

Abbastanza soddisfatto dell'esaustivo resoconto del fratello, Galeazzo gli disse di andare pure, ma gli ricordò i patti: doveva tornare per tempo e non fare disastri.

Mentre Bernardino si infilava nella porta che portava ai locali della servitù, il maggiore sospiro e andò a cercare Sforzino. Lo trovò intento a leggere uno spesso tomo che parlava di teologia. Gli chiese, quasi distrattamente, che progetti avesse per la giornata.

Il fratello, spostandosi un po' sulla sedia, facendola cigolare sotto il suo peso di tutto rispetto, gli rispose che voleva leggere ancora una ventina di pagine del libro che aveva per le mani, e poi passare a un'agiografia che aveva intravisto in biblioteca il giorno prima.

Galeazzo, confortato nel vedere che almeno Sforzino manteneva la sua indole tranquilla, si lasciò sprofondare in una delle poltrone e, sperando che quel giorno finisse presto, ringraziò il cielo di avergli dato almeno un fratello che non avesse ereditato il sangue caldo e irriverente della loro madre.

 

Era da tutto il giorno che Caterina sentiva la testa pulsare. Aveva anche un leggero senso di nausea e un peso sullo stomaco. In tutta onestà non riusciva a capire quale fosse la causa di un tale malessere, dato che non aveva fatto nulla di diverso dal solito, in quelle ore, e quindi si sforzava di spiegare il tutto con il prolungato confinamento tra quattro mura.

Con quello che aveva passato prima a Forlì e poi lungo la via per Roma, e infine lì nell'Urbe, verosimilmente chiunque alla fine si sarebbe trovato un po' spossato.

Era pieno pomeriggio e, anche quel giorno, sulla città dei papi incombevano minacciosissime nuvole scure. Siccome la donna aveva fatto presente di non sentirsi troppo bene, il suo consueto seguito era stato ridotto ad appena due serve e Fortunati.

Per ingannare il tempo, le due donne stavano facendo un gioco strano con un mazzo di carte e, benché Francesco avesse provato a chiedere alla Tigre di unirsi con lui alla partita, la Leonessa aveva rifiutato categoricamente. Forse, in effetti, provare a giocare l'avrebbe distratta abbastanza da farle passare il pomeriggio più facilmente, ma il malessere che l'aveva presa le rendeva insopportabile anche solo l'idea di concentrarsi su qualcosa.

Così, mentre le due serve discutevano a bassa voce mentre pescavano una carta dopo l'altra, la Sforza si limitava a stare vicino alla finestra e a guardare fuori, inseguendo le ombre e i rigonfiamenti delle nubi. Il piovano, che dapprima se n'era stato un po' in disparte per non disturbare, le si era poi avvicinato.

Solo quando si era reso conto di come fossero profonde le occhiaie della sua signora, aveva deciso di parlare: “Ho riflettuto molto su quanto mi avete detto. Sul fatto che non posso capire quello che è successo gli ultimi giorni a Ravaldino...”

Caterina lo guardò un solo istante, gli occhi verdi appesantiti da qualcosa che al fiorentino sfuggiva. Poi, come se quell'argomento le risultasse solo fastidioso, agitò un momento una mano in aria, quasi a chiedere di non parlarne più.

Fortunati, però, non voleva lasciar cadere la questione. Era un momento straordinariamente tranquillo, nella cella della sua signora, e sapeva che difficilmente avrebbe avuto un'altra occasione simile.

“Raccontatemi quello che è successo quando è caduta Ravaldino.” la implorò, mettendosi appresso a lei, seduta al suo fianco sul sedile di pietra della finestra.

La donna deglutì un paio di volte. La nausea cominciava a farsi più insistente. Forse, si disse, provare a non concentrarvisi sopra l'avrebbe attenuata un po'.

“Davvero volete sapere quello che è successo?” chiese, stringendosi una mano nell'altra.

Il piovano annuì e così, con un sospiro, la Tigre cominciò a raccontare. Non si dilungò su ciò che aveva provato lei, o su quanto fosse rimasta delusa dal comportamento di Giovanni da Casale. Non fece nemmeno cenno alle notti confuse che aveva passato con Pirovano, o Vangelista Monsignani, tanto meno con Baccino. Il suo sembrava uno stringato resoconto bellico, degno di uno scrittore latino.

Fortunati ascoltava in silenzio, facendo del suo meglio per immedesimarsi e figurarsi ogni cosa, dalle esplosioni, ai tradimenti, agli assalti in piena notte al campo francese. Eppure, forse per il tono quasi freddo con cui la Sforza stava parlando, vuoi perché lui in una battaglia vera non si era mai ritrovato, ebbe la sensazione di non poter cogliere appieno ciò che la milanese gli stava raccontando.

“Quando siamo usciti e mi hanno portata a braccio fuori dalla rocca ormai distrutta – concluse Caterina – camminavamo sui cadaveri. Non c'era un palmo di terreno che non fosse coperto di sangue e carne.”

Francesco, nel provare a immaginare quella scena, avvertì un brivido istintivo, ma si rese altrettanto conto di essersi fatto di certo un'idea edulcorata della situazione. Non era facile comprendere che significasse, calpestare i corpi di uomini con cui, fino a pochi momenti prima, si era vissuto e combattuto fianco a fianco.

“Avete capito adesso?” chiese infine la Leonessa, con un respiro molto profondo.

L'uomo annuì, la bocca asciutta mentre, squadrando il volto della sua signora, si domandava quanto altro avessero visto quegli occhi così profondi e per lui ancora così imperscrutabili.

La Tigre, di contro, stava osservando lo sguardo tutto sommato limpido del piovano. Anche se era un uomo maturo, ormai, e anche se aveva viaggiato e aveva avuto contatti con molte realtà, dimostrandosi sempre di grande intelligenza e intuito, i suoi occhi erano ancora due specchi. Non avevano la nota torbida di quelli della maggior parte degli uomini che la Sforza conosceva, né la medesima cupa profondità di coloro che avevano visto qualcuno morire per mano propria.

Siccome la nausea non solo non l'aveva lasciata, ma stava peggiorando, e sentiva anche di avere la febbre, Caterina decise di chiudere davvero la questione e mettersi un po' stesa a letto, sperando che bastasse per riprendersi da quello strano malanno. Si rendeva conto di avere la testa un po' confusa e avvertiva un lieve tremore alle mani. Non era abbastanza presente per chiedersi di preciso che altro sentisse e da lì provare a fare una diagnosi, anche solo approssimativa, del male che la stava facendo vacillare a quel modo.

Così, facendo un debole sorriso, si rivolse a Fortunati dicendo: “Non credo abbiate capito davvero ma dubito che potrete mai farlo... La guerra è quel genere di disavventure che si capiscono solo quando vi ci si ritrova in mezzo...”

La donna aveva appena finito di parlare, e si stava alzando dalla seduta in pietra, quando, di colpo, perse i sensi. Se non fosse stato per i pronti riflessi di Francesco, che l'aveva subito presa tra le sue braccia, sarebbe crollata in terra rovinosamente.

 

Alla fine, Alessandra Scali era davvero rimasta fuori anche per la notte. Michele era arrivato al punto del loro incontro con una puntualità sorprendente, dicendo subito che il tempo stringeva e che dovevano seguire il piano in modo serrato.

Tuttavia, non appena marito e moglie si erano chiusi nella stanza che avrebbe dovuto fare loro da alcova per qualche ora, decisero subito di restarvi almeno fino al mattino seguente.

Era passato così tanto tempo, da quando si erano visti l'ultima volta, che all'inizio le parole erano state solo un orpello superfluo. Avevano lasciato che i baci e il calore dei loro corpi spiegasse all'altro quanto era stata difficile la lontananza, quanto sofferta la solitudine e quanto penosa l'attesa di un nuovo incontro.

Non c'era stato spazio per i loro consueti richiami letterari, per giocare assieme componendo qualche verso improvvisato in greco antico, tanto meno per ricoprirsi di lodi, richiamando gli anni in cui quei lazzi erano la miccia più potente che conoscevano per far scoppiare la passione.

Erano bruciati insieme come due ragazzini, incuranti di tutto quello che si erano ripromessi, interessati solo a sfamare quella parte della loro anima che per troppi giorni e troppe settimane avevano tenuto a digiuno.

Solo dopo, a notte tarda, c'era stato spazio per le parole. Michele aveva raccontato alla moglie quello che era successo, come fosse riuscito a farsi liberare e quello che aveva intenzione di fare di lì in poi. Chiese notizie dei figli della Tigre e, con mal celato orgoglio, Alessandra poté assicurare che tutti stavano bene e che Giovannino era ancora al sicuro, ben lontano dalle grinfie di Lorenzo Medici.

Quando era parso a entrambi di aver esaurito gli argomenti più urgenti, erano tornati a cercarsi, senza più tutta la fretta di qualche ora prima. Erano come tornati indietro negli anni, a quando, tesi e un po' titubanti, all'idea di quello che la Firenze che contava avrebbe detto di loro, si trovavano comunque a cedere al desiderio, andando a completare quell'unione che già avevano raggiunto spiritualmente e intellettualmente. Quella notte, però, c'era in loro la sicurezza solida e trionfale che avevano acquisito con il tempo, rafforzati dalla consapevolezza che il loro amore bastava loro per far fronte a tutto il resto.

“Ripensi mai ad Agnolo?” chiese Marulli, di punto in bianco, mentre stringeva a sé la sua donna, e le scostava silenziosamente una ciocca di capelli corvini dalla fronte.

Rievocare così all'improvviso il fantasma di Poliziano suscitò l'inquietudine della donna. Puntando gli occhi scuri in quelli del marito, Alessandra fece un breve cenno, che lui interpretò come un sì riluttante.

Erano passati da tempo i giorni in cui lui e Agnolo si erano contesi le attenzioni, il tempo e il cuore della Scali, eppure a volta Michele aveva ancora il sentore che lei avesse dei dubbi sulla scelta finale che aveva fatto.

Come capendo le perplessità del bizantino, la donna gli diede un lungo bacio sulle labbra e poi, tornando ad accoccolarsi tra le sue braccia, gli fece presente: “Agnolo è morto da anni. È normale che ogni tanto mi torni in mente.”

Marulli non volle aggiungere altro, e, vedendo che i primi raggi del sole arrivavano dalla finestra, si trovò a dire: “Tra poco devo rimettermi in marcia... L'esercito da riorganizzare non è una cosa semplice...”

“Sono pronta a scommettere che pioverà tutto il giorno...” disse piano la donna, quasi sperando che tanto bastasse a scoraggiare il marito a partire: “Sono nata tra queste colline, so bene che quando a quest'ora c'è questa luce strana, finisce sempre a piovere...”

Michele sollevò le folte sopracciglia e poi, sistemandosi un po' sotto il corpo caldo e accogliente della colligiana, ribatté: “Non c'è tempo da perdere. Si deve sfruttare il momento.”

“Perché?” chiese, ostinata, la Scali.

“Perché adesso i francesi sono distratti al nord, e il figlio del papa è con suo padre a Roma. Ora possiamo davvero riprenderci Forlì.” spiegò lui, ben sapendo che la domanda della moglie era solo retorica, ma volendo sottolineare l'importanza di quello che voleva fare.

“Questa non è la tua guerra, non la è mai stata.” si oppose lei, stringendolo un po' di più: “Non ha senso continuarla.”

“La è, invece. È la mia guerra, così come dovrebbe essere la guerra di tutti gli uomini nati liberi che hanno provato che significa vivere in cattività.” la corresse lui: “Ovunque si combatta per una giusta causa, è giusto dare il proprio contributo. Sai che la mia infanzia è stata un disastro, sai che ho assaggiato l'amarezza di vivere da esiliato e non posso pensare che anche Madonna Sforza patisca la stessa sorte.”

“Quella donna...” cominciò Alessandra, ma poi non continuò.

“Non sono mai stato uno dei suoi amanti, se è questo che vuoi sapere.” rispose lui, senza scomporsi: “E non avrei potuto esserlo in alcun caso. Ho una moglie e il mio cuore è rimasto sempre a Firenze con te.”

“Però hai deciso di rischiare ancora la vita per lei.” fece notare la Scali.

“Se la conoscessi, capiresti.” ribatté lui, sibillino: “Sapevi che uomo ero, quando hai scelto me.”

Alessandra affondò un momento il viso nella spalla di lui, sentendo l'odore della sua pelle e chiedendosi quando l'avrebbe potuto sentire di nuovo. Sforzando di non pensare che quella avrebbe anche potuto essere l'ultima volta, gli sfiorò il mento con le labbra, trovando strana la sensazione della barba vecchia di qualche giorno contro la sua pelle. Di solito Michele teneva sempre il viso ben rasato, era difficile trovarlo in quello stato di trascuratezza.

“Lo so.” sussurrò lei: “Sei un soldato, prima ancora di essere un poeta e mio marito. E conosco i tuoi principi e li condivido.”

“Allora sai perché devo andare.” concluse lui, accettando un bacio e avendo cura di farne subito seguire altri.

Trascorsero ancora un po' di tempo assieme, angosciati, entrambi, dalla prospettiva di potersi anche non rivedere mai più. Alla fine, però, si forzarono a lasciare il letto e a rivestirsi.

“Allora adesso andrai prima a Volterra, giusto?” chiese Alessandra, passando il giubbone al marito.

Il bizantino annuì: “Lo sai, devo incontrare Raffaello Maffei. È un letterato, ma anche un chiacchierone. È quello che mi serve per completare il tutto. Mi crederanno tutti pronto ad andare a Livorno per imbarcarmi per Costantinopoli, e invece sarò in marcia, in armatura, per recuperare gli uomini che hanno accettato di sposare la causa della Tigre.”

La Scali annuì e poi, smettendo per un attimo di vestirsi, si mise davanti al suo uomo e, prendendogli il volto tra le mani, gli fece presente: “Fai tutto quello che puoi per tornare da me.”

Michele deglutì e ribatté: “Fai tutto quello che puoi per tenere in vita i figli della Leonessa.”

“Portami con te. Almeno fino a Volterra.” lo pregò Alessandra, con un tono quasi distratto, tornando a occuparsi del proprio abito.

“No.” rifiutò categorico Marulli: “Devi tornare a Firenze. Mi fido solo di te. Voglio che tu stia al nostro palazzo a vegliare sui ragazzi.”

Alessandra strinse appena le labbra, poi borbottò: “Speriamo almeno di non star facendo tutto questo per niente...”

Il bizantino non commentò, ben sapendo che la moglie non stava alludendo a un'eventuale remunerazione per i loro servigi, ma a un riscatto morale, un momento in cui avrebbero potuto dire di aver trionfato e di essere sempre rimasti dalla parte giusta, fin dal principio.

“Stai attenta, tornando a casa.” le disse, dandole un lungo bacio: “Se davvero dovesse piovere, fate attenzione ai fiumiciattoli. Sono insidiosi.”

“Hai sempre il tuo libro di Lucrezio?” chiese lei, ricambiando il bacio e poi abbracciandolo.

L'uomo indicò la bisaccia che aveva appoggiato al muro la sera prima: “Sì, l'ho sempre.”

“Domani sera, quando ti coricherai, alle undici leggi le parti che preferiamo. Lo farò anche io.” gli disse Alessandra, con un filo di voce, cercando di non piangere: “Saremo un po' meno lontani.”

“Lo farò.” promise lui.

 

“Vostro fratello Galeazzo è riuscito a risolvere il problema?” chiese Ludovico Sforza, posando il grasso indice su una delle torri, ma aspettando a fare la propria mossa.

Gaspare Sanseverino, gli occhi fissi sulla scacchiera, sollevò un sopracciglio e rispose: “Così mi ha detto.”

“E come avrebbe fatto?” chiese il Moro, cambiando strategia, e lasciando la torre per andare invece a muovere il cavallo e mangiare un alfiere del suo avversario.

Il Fracassa si schiarì la voce, mentre faceva seguire alla mossa dello Sforza un proprio assalto ben calibrato che andava a mettere senza preavviso il re sotto scacco: “Nella fanteria che gli avete affidato ci sono gli svizzeri peggiori di tutti – spiegò, mentre il suo signore tratteneva una bestemmia, nel vedersi mettere in croce dopo appena due minuti di partita – gli scarti delle fanterie svizzere, diciamocelo pure... Ecco, mio fratello sa come ragionano, quelli. Li ha convinti a rientrare in città per le buone. Anche se, per come la vedo io, finché non verserete davvero loro le paghe, non saranno mai affidabili.”

Ludovico strinse le labbra e poi, scuotendo il capo, disse: “Ricominciamo la partita. Non ero concentrato.”

Ben lungi dal voler contraddire il Duca, Gaspare si affrettò a rimettere tutte le pedine in posizione di partenza e poi attese che il milanese facesse la prima mossa, avendo scelto i bianchi.

Novara, quel giorno, sembrava tranquilla. La mattina prima c'erano state delle piccole scaramucce appena fuori città, ma lo Sforza non vi aveva dato peso. Anche se erano formalmente sotto assedio, per il momento i francesi, a suo dire, non avevano ancora fatto nulla che indicasse una loro reale intenzione di attaccarli.

Sembrava quasi che il Trivulzio, che era al comando dell'esercito di Luigi XII, volesse solo mostrare un po' i muscoli, per poi raccontare al re di quanto fosse stato determinato e tenace, ma di come avesse poi dovuto retrocedere per la strenua e impenetrabile difesa dei ducali.

“Comunque – borbottò il Moro, dopo un po' – quegli svizzeri non sono il nostro unico problema.”

“Che intendete?” chiese Fracassa, sorvolando su come Ludovico continuasse a fare una mossa e poi tornare sui suoi passi, indeciso com'era nella vita, e muovere un'altra pedina.

“Intendo dire che quelli che sono arrivati dalla Romagna stanno creando confusione.” spiegò il Duca, maledicendo la sorte, quando il Sanseverino gli mangiò un pedone: “Mio nipote Alessandro, per esempio, che anche se è ferito si ostina a voler partecipare a tutto... O quel Boschetti, per tacere di Francesco, il figlio illegittimo di mio fratello Galeazzo Maria... Solo perché erano a Forlì quando è caduta la rocca di mia nipote, si credono chissà cosa. Vanno in giro a dire a tutti di cosa sono capaci i francesi, e mi spaventano le truppe.”

“Io credevo che servissero a motivare gli altri, invece...” disse Gaspare, accigliandosi: “Anche il vostro pupillo, Giovanni da Casale... Sono due giorni che non fa altro che elogiare vostra nipote Caterina, chiedendo ai soldati di ispirarsi a lei...”

“Un esercito che deve ispirarsi a una donna..! Questo fa capire quanto stiamo cadendo in basso, al giorno d'oggi...” sospirò il Moro, spostando la torre, ma poi cambiando idea e riversando le proprie attenzioni sulla regina: “In più, mia nipote è prigioniera, se non vado errato, mentre io sono qui, vivo e vegeto e a un passo dal riprendermi tutto quello che è mio. Se vogliono un esempio da seguire, prendano me.”

Il Fracassa lo guardò solo un istante. Malgrado fossero sotto assedio, Ludovico vestiva di raso e pelliccia, e portava al fianco una spada lunga dall'anima troppo esile per servire davvero in una battaglia aperta. Se era lui, l'esempio da seguire, allora sì che l'esercito era messo male.

“Avanti..!” sbottò lo Sforza: “Tocca a voi muovere!”

Gaspare si scusò e tornò a concentrarsi sulla scacchiera, quando sentì le trombe suonare come impazzire e i tamburi nemici battere il ritmo di carica in lontananza.

“Che diamine succede?!” sbottò il Moro.

“I francesi!” gridò Ermes, arrivando di corsa nel salottino per chiamare all'ordine lo zio: “I francesi stanno attaccando la città! All'armi! All'armi!”

 

 
   
 
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