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Autore: Adeia Di Elferas    26/07/2020    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
Capitoli:
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Galeazzo Sanseverino vinto con gli uomini al suo diretto servizio il primo scontro con l'esercito francese, ma si era reso subito conto che si era trattato solo di una mezza scaramuccia. Nulla, insomma, che potesse dare per indirizzata la battaglia.

Gli eserciti si erano spostati, poco per volta, come mossi da una mano invisibile, fino a raggiungere San Nazzaro, e inoltrarsi nel bosco. Gian Giacomo da Trivulzio guidava la retroguardia d'Oltralpe, ma sembrava essere il vero artefice delle mosse di tutte le truppe.

Anche se fino a quel momento i due fronti si erano costeggiati, senza mai cozzare, Ludovico Sforza, che se ne stava nelle retrovie, ma allungava di continuo l'occhio tra le piante per capire come si sarebbero mossi i nemici, aveva un brutto presentimento.

Era stata qualche frase di troppo origliata prima di schierare i soldati, quando aveva messo in prima fila cavalieri italiani e borgogni e in seconda i quattordicimila fanti svizzeri. Non aveva messo a parte nessuno dei suoi dubbi, ma lui non poteva non continuare a pensarci.

Quando finalmente i due eserciti vennero seriamente in contatto, l'impatto tra i fanti italiani che erano in avanscoperta e quelli francesi fu roboante. Dai rami delle piante si sollevarono interi stormi di uccelli e gli altri animali selvatici correvano ovunque, come impazziti.

Perrot Paynnes, il Sandricourt, La Tremouille, Roccabertino, Marco Antonio Cusano, il Cardonne, La Palice e quasi tutti gli altri comandanti francesi erano in prima fila, a spingere i propri uomini allo sfondamento delle falangi nemiche. Luigi d'Ars gridava come un pazzo, Don Giuliano di Ligny, sul fianco, sollevava la spada a indicare i punti più deboli della frangia italiana, Ettore di Salazart e Galeazzo Pallavicini facevano contenimento sul lato opposto, e Beaumont con Imbercourt e Ivo di Malherbe tenevano calma la cavalleria, in attesa che giungesse il momento di irrompere.

Yves d'Alégre e il Balì di Digione, invece, fiancheggiavano il Trivulzio, in attesa di decidere la prossima mossa.

I fanti italiani, seppur spinti da Gaspere di Silenen, Riccio da Parma, Rodolfo di Salice e altri, non avevano la forza per contrastare le incursioni nemiche. Ressero la posizione per pochi minuti e poi cominciarono a cedere.

“La cavalleria! La cavalleria!” gridò Zanetto di Mede, appena prima che un colpo di lancia gli trapassasse un occhio, uccidendolo sul colpo.

Come a voler veicolare la giusta idea del compagno appena caduto sul campo, sia Battista Visconti, sia Antonio Maria Crivelli cominciarono a urlare: “Cavalleria! Cavalleria!”

Ludovico tentennava, sudava freddo, teneva le redini del suo cavallo con una forza eccessiva, tale da fargli dolere le dita. Non si decideva a dare l'ordine. Guardò atterrito Francesco, il figliastro del suo defunto fratello Galeazzo Maria, che fremeva dalla voglia di buttarsi nella mischia, e poi Giovanni da Casale, che, invece, pareva paralizzato come lui.

Ambrogio Del Maino scosse con forza il capo e poi, rivolgendosi al Moro, gridò: “Per Dio! Date ordine alla cavalleria di intervenire! O non avremo più fanti di qui a mezz'ora!”

A quel punto lo Sforza parve come risvegliarsi. Richiamando l'attenzione di Galeazzo Sanseverino, che stava già muovendo verso di lui, diede ordine di far avanzare la cavalleria in soccorso dei fanti.

Il condottiero richiamò allora a sé i suoi, ma fu chiaro fin dalle prime mosse, che gli svizzeri non avrebbero alzato nemmeno un dito contro i connazionali. Gridavano frasi sconnesse, sull'impossibilità di uccidere altri elvetici, ma al Sanseverino bastò vedere il sorriso scaltro di alcuni suoi uomini per capire che, chissà come e chissà quando, tra gli svizzeri dell'una e dell'altra formazione era stato stretto un patto, e che probabilmente l'amor patrio non c'entrava proprio nulla.

Si ricordò di colpo quanto accaduto pochi giorni prima, quando, con promesse e buone parole, aveva convinto circa duemila elvetici a tornare dentro le mura di Novara. La volontà dei soldati di andarsene aveva poco a che vedere, pareva, con le paghe arretrate, quanto più con un comunicato veicolato da rappresentanti della dieta svizzera che erano giunti in città poco prima. Il Sanseverino aveva volontariamente sottovalutato la cosa, e si rendeva conto troppo tardi di aver commesso un grossissimo errore.

La confusione che seguì fu immediata. Alcuni tedeschi delle file sforzesche, e certi lanzichenecchi, si staccarono subito dalla colonna, imitando gli svizzeri, e cominciarono a uccidere gli italiani.

Ludovico aveva la netta sensazione di non poter più fare altro, per governare l'esercito. L'unica idea che gli venne fu quella di cercare la fuga andando in direzione del Ticino, ma gli bastò pensarlo per vedere l'esercito transalpino schierarsi come un sol uomo a sbarrargli proprio quell'unica via di fuga.

“In città!” si mise allora a gridare il Moro, con voce strozzata: “In città! In città per Dio!”

Le grida e i tonfi di quelli che rovinavano in terra al suo fianco, colpiti alle spalle dai dardi e dalle lance nemiche, servirono allo Sforza per mettere le ali al proprio cavallo, speronandolo sui fianchi con tanta furia da farlo addirittura sanguinare.

Nel rocambolesco rientro in città, anche molti svizzeri avevano seguito il Moro. Il campo ducale era preda della confusione e nessuno sembrava in grado di prendere in mano il comando.

Galeazzo Sanseverino era stato ferito da una sassata al sopracciglio sinistro, ma aveva ancora fiato in corpo sufficiente per accostarsi allo Sforza e fargli una proposta allettante. Ludovico, folle di paura, annuì subito e, chiamati a sé anche Antonio Maria e Gaspare Sanseverino, chiese loro di fare quello che avrebbe fatto lui.

Mentre i tedeschi e gli svizzeri che erano rientrati in Novara saccheggiavano i pochi beni dei soldati guasconi e italiani e si incolonnavano per lasciare la città, Ermes guadagnava le porte di Novara in sordina.

I fanti transalpini si stavano dimostrando più metodici e ordinati nel lasciare la città di quanto non fossero stati per tutta la durata della guerra. Parlottavano l'uno con l'altro, e ridevano come pazzi alle spalle del Moro.

Uno di loro, però, Hans Turmann, notò qualcosa di strano tre file davanti a sé. Avrebbe riconosciuto quel corpo mastodontico e quell'incedere un po' impacciato in armatura. Attese paziente, e, quando furono fuori dalla cinta muraria ed ebbero i francesi a tiro d'orecchio, decise di farsi avanti.

“Ludovico! Ludovico!” gridò, indicando il Moro, che si era travestito, come i Sanseverino, da fante tedesco, convinto di poter passare così inosservato e scappare alla prima occasione.

Lo Sforza sentì il cuore perdere un colpo e, pur sapendosi perso, provò a mettersi a correre, ma, dopo appena tre passi, inciampò e cadde, finendo facilmente preda dei francesi.

 

Caterina aprì con difficoltà gli occhi, ma subito li richiuse, infastidita come non mai dalla luce che filtrava dalla finestra.

“Cos'è successo?” domandò, con un filo di voce.

Aveva le labbra secchissime, ed erano bastate quelle poche parole per farle capire quanto anche la sua gola fosse riarsa, come se vi fosse passato del fuoco.

“State tranquilla...” la voce di Argentina l'accarezzò come una mano gentile, ricordandole per un fugace istante le cure di un'altra donna, molti anni prima, che le aveva prestato soccorso, unica in tutta Milano, dopo la notte più brutta della sua vita: “Avete la febbre alta.”

“Cos'è successo?” chiese di nuovo la Tigre, a un passo dal tornare incosciente: “Da quanti giorni sto così?”

“Riposate.” la invitò la serva, premendole leggermente il palmo della mano sulla fronte, per valutare quanto fosse alta la febbre: “Cercate di bere un po'...” la incitò, poi, porgendole con attenzione un calice d'acqua.

La Sforza, seppur con immensa fatica, riuscì a sorbire un paio di sorsi, ma poi, come stremata per quel lieve sforzo, crollò di nuovo sul cuscino, e perse i sensi.

Francesco Fortunati, che se ne stava in un angolo della stanza, scosse il capo con violenza, tentando di non cedere alle lacrime: “L'hanno avvelenata, ne sono sicuro.”

“Potrebbe essere malaria...” soppesò Argentina, restando seduta accanto al letto della sua signora, ma guardando il piovano: “Ne ha già sofferto, in passato...”

“Farò un appello al papa.” decretò Francesco, le braccia strette sul petto: “Che faccia chiarezza, che chiami i suoi medici e la faccia visitare. E che poi le permetta un assaggiatore.”

La serva sollevò appena le sopracciglia e obiettò: “Non sarebbe peggio, fare come dite voi? Far capire che crediamo che la colpa sia del papa, non metterebbe ancora più a rischio Madonna Sforza?”

Fortunati schiuse la labbra, ma poi si rimangiò quello che stava per dire. Ragionandoci a mente appena più fredda, doveva dare ragione ad Argentina. La mossa migliore, forse, sarebbe stato implorare il papa per avere un consulto medico, e sostenere a priori che probabilmente la Leonessa aveva qualche malattia, come appunto la malaria. Alessandro VI non avrebbe potuto certo rifiutarle quel genere di assistenza, non essendo lei ufficialmente sotto la sua protezione.

“Va bene, farò così.” concluse il piovano, avvicinandosi poi a Caterina, che, febbricitante, stava parlando nel sonno.

Anche in quello stato, i suoi incubi erano sempre gli stessi, e dalla sue labbra uscivano ossessivamente i soliti nomi: quello del suo amatissimo secondo marito e quello di Ludovico Marcobelli.

“Vi prego, Argentina – sussurrò Fortunati, sfiorando la spalla della Tigre – se cambiasse qualcosa, venite a riferirmelo.”

La serva annuì e poi, mentre il fiorentino se ne andava, tornò a fissare la sua signora. Le inumidì con cura le labbra e gli occhi, come aveva fatto continuamente in quei giorni. Si chiese fugacemente se non fosse un attacco di lue. In fondo, si disse, tutti sapevano che il Valentino ne fosse affetto. Si trovava, però, troppo ignorante in materia per poter avvallare o meno quell'ipotesi, perciò si dovette limitare a ricominciare a sgranare mentalmente un rosario, pregando che la sua signora si rimettesse presto e senza reliquati.

 

“Per certi gli anni di paga arretrata erano addirittura cinque...” soppesò Gian Giacomo da Trivulzio, puntando verso il Moro gli occhi appesantiti da spesse borse: “Credevate davvero che uomini che hanno patito tanto la vostra scorrettezza potessero esservi fedeli? E credo che anche i vostri più grandi sostenitori, alla fine, vi avrebbero lasciato. Sapete, per esempio, che la moglie del vostro caro Fracassa si trova a Ferrara e dicono abbia dovuto vendere la sua biancheria per comprarsi un sacco di frumento e non morire di fame?”

Ludovico Sforza era stato portato al cospetto del condottiero subito dopo la cattura. I Sanseverino erano tutti alle sue spalle, tranne Galeazzo, che era stato prelevato personalmente da alcuni fanti svizzeri, ed era stato portato in una stalla, dov'era stato picchiato quasi a morte, finché non aveva consegnato tutto il denaro che aveva con sé.

“Siete stato un vile, con vostra cognata Bona.” cominciò a elencare il Trivulzio: “Ma io vi ho servito con lealtà, così come avevo fatto con vostro padre Francesco e poi con vostro fratello Galeazzo Maria. Ho sempre anteposto il nome degli Sforza a tutto il resto. Ho combattuto per voi contro i de Rossi in Emilia, e cosa ne ho ottenuto? Solo di aver preso parte a una guerra sbagliata e ingiusta. E poi, quando è stato il momento, mi avete messo da parte, avete preferito altri e mi avete dimenticato. Alla prima occasione, avete confiscato tutti i miei beni, e ora io che dovrei fare, con voi?”

Mentre parlava, Gian Giacomo aveva estratto la spada. Il Moro, prostrato davanti a lui, era in lacrime, convinto che la sua vita sarebbe finita lì, in quel momento, nel sudicio padiglione di uno spergiuro.

“Devo consegnarvi al re di Francia, purtroppo...” soppesò il condottiero, infoderando di nuovo la spada: “Ma sarebbe stato bello, poter vedere il vostro sangue bagnare questo ferro...”

Ludovico si sentì quasi mancare per il sollievo. La prigionia era uno spauracchio notevole, ma tutto era meglio di una morte immediata e certa. Piagnucolando tra sé, l'uomo si accasciò su se stesso, ringraziando confusamente Dio per avergli concesso dell'altro tempo da vivere.

“Tiratevi in piedi.” ordinò il Trivulzio: “O mi convincerete a uccidervi davvero.”

Come se fosse stato punto da un tizzone ardente, il Moro si raddrizzò e si alzò subito. Quella scena sarebbe stata comica, per Gian Giacomo, se solo la sua rabbia verso quell'indegno erede di Francesco Sforza non fosse stata così tanta.

“Trovo sia un'ingiustizia che oggi siano morti cinquemila uomini per parte, per una guerra voluta da un uomo come voi.” dichiarò e poi, facendo un cenno a due soldati che non attendevano altro, lo fece portare via.

Avevano fatto importanti prigionieri, tra cui Marco da Martinengo, che era rimasto ferito sotto a un occhio, ma che di certo sarebbe ancora interessato ai veneziani, i Sanseverino, tra cui Gaspare, per cui avevano già pensato a una taglia da centomila ducati.

Erano scappati in molti, però, tra cui Giovanni da Casale e Lucio Malvezzi, due condottieri che, forse, sarebbero valsi un buon riscatto.

“Andremo a Tracate...” borbottò il Trivulzio, mentre Yves d'Alégre, alle sue spalle, aspettava una sua risoluzione sul da farsi: “Non mi piacciono le voci sui disordini che sono sorti per colpa dei nostri borgognoni, e dei tedeschi... Se vogliono la paga, gliela daremo.”

“E poi?” chiese il francese.

“E poi andremo a Milano, a riprenderci il predominio sul Ducato.” spiegò Gian Giacomo, con ovvietà.

“A Milano c'è ancora il Cardinale Ascanio...” provò a dire l'Alégre, che, per quanto l'altro avesse vinto la giornata, continuava a non approvare le sue scelte, specie dopo aver visto cadere così tanti uomini per una battaglia che, a suo modo di vedere, era stata gestita malissimo.

“Non me lo dite...” sbuffò il condottiero milanese, con tono affettato: “Sto tremando di paura...”

 

“Datemi retta...” disse Raffaello Maffei, scuotendo il capo: “Ho quasi cinquant'anni, e lo scricchiolare delle mie ossa non mente..!”

Michele occhieggiò oltre il vetro della finestra. Stava ancora diluviando, e ormai c'era buio. Aveva atteso anche troppo. Aveva sperato che la sera lo celasse meglio, ma aveva pensato che, per quell'ora, avrebbe almeno smesso di piovere.

La decisione, però, era presa e così disse al letterato che era arrivato a trovare proprio quel 12 aprile: “No, no, mi spiace. Devo andare, perché ho fretta. Anche se amo molto Volterra e la vostra compagnia, ho impegni urgenti che mi vogliono lontano da qui.”

“Come volete, come volete...” cedette subito il padrone di casa, seppur abbastanza contrariato: “Ma fossi in voi, eviterei di mettermi in strada con questo tempaccio. E poi è ancora la Domenica delle Palme... State attento che Dio non veda la vostra smania di andarvene come un'offesa e finisca per punirvi.”

“Credo che Dio, sempre che sia interessato a noi uomini, abbia persone più importanti di me, da tenere sott'occhio...” rispose il bizantino, cercando di non mettersi a ridere per il tratto superstizioso che Maffei aveva dimostrato più volte, nel corso della giornata.

“E dunque vi metterete in cammino per Livorno con questo tempo e con tanto buio?” borbottò Raffaello, accompagnando, suo malgrado, l'ospite alla porta: “Per tornare a Costantinopoli... Una città che, per quel che mi dite, nemmeno vi ha mai voluto...”

“Non pretendo che mi capiate.” sorrise Michele, ben felice che Maffei si fosse convinto che quella fosse davvero la sua destinazione: “Ora, se permettete, vado a far preparare il mio cavallo.”

“Non dimenticate la vostra bisaccia...” gli ricordò Raffaello: “Il volume di Lucrezio che portate con voi non potete certo lasciarmelo qui...”

Marulli ringraziò, prendendo il borsone che già stava recuperando ancor prima che gli venisse ricordato, e poi, rammaricandosi solo che quella sera non avrebbe avuto tempo di leggere il poeta latino, come invece aveva promesso alla moglie di fare ogni notte, lasciò il salone.

La stalla era pregna di odori, intensificati dalla pioggia battente che si infilava tra le assi di legno del portone. Uno stalliere, di cattivo umore per essere stato disturbato a quell'ora, si affrettò a sellargli il cavallo e poi gli augurò anche un buon viaggio, permettendosi di far presente che lui, al suo posto, non si sarebbe mai messo in strada, con quella pioggia.

Il bizantino non l'ascoltò. Anzi, mentre lo stalliere parlava, lui era tutto intento a sistemarsi i pezzi dell'armatura che aveva deciso di portarsi addosso. Quella scelta particolare era dettata da due fattori principali: innanzi tutto, non avendo bagagli con sé, l'armatura poteva portarsela solo addosso, e, in secondo luogo, non poteva dirsi sicuro, nell'attraversare le strade della Toscana.

Salito in sella, uscì subito dalla stalla. Passò davanti a Raffaello Maffei che, intabarrato come fosse dicembre, aspettava all'uscita del palazzo per salutarlo, e poi si mise a correre come un pazzo, sperando di arrivare al fiume prima che fosse in piena.

Era in strada da poco, aveva passato la Porta Etrusca e aveva già Volterra alle sue spalle, quando si rese conto di essere bagnato fino all'osso. Controllò con attenzione che il libro che portava con sé fosse ancora asciutto, e fu sollevato nel vedere che la bisaccia di cuoio, per il momento, stava reggendo.

Era arrivato ormai al Cecina, quando si rese conto che la visibilità era pessima. Di norma, a quell'altezza, si sarebbe potuto scorgere il mulino di San Lorenzo, e il paesaggio sarebbe stato sovrastato dalla torre del Cerreto. Invece non si riusciva a vedere nemmeno l'imbarcadero.

A memoria, Michele si avvicinò al punto in cui di solito partivano le chiatte per raggiungere la riva opposta. Vi trovò solo un guardiano, che, scuotendo con forza la testa e parlando con una cadenza tanto forte da mettere in difficoltà il bizantino, gli spiegò che per quella sera non sarebbero passati né uomini, né merci, né cavalli.

Preso alla sprovvista da quella novità, Marulli cercò subito un'alternativa. Si spostò lungo l'argine del fiume, fino a trovare un punto che di norma era percorribile anche guadandolo. Il greto, però, era stato reso gonfio dalle acque, e probabilmente il fondo era più scivoloso che mai.

“Non andate! Che fate?!” gridò un contadino che, assieme ad altri due mezzadri, era stato costretto a mettersi in strada sotto il diluvio, e stava cercando di arrivare in fretta a casa: “Per stanotte scordatevi di passare il fiume!”

“Ma io devo!” gridò il bizantino, cominciando a chiedersi cosa sarebbe successo, se non fosse arrivato in tempo a radunare le truppe per Caterina Sforza.

L'ipotesi più probabile era che, in sua assenza, ognuno sarebbe andato via, per i fatti proprio, e la speranza di riprendersi Imola e Forlì sarebbe sfumata senza possibilità di un secondo tentativo.

“Devo farlo e basta.” si ostinò l'uomo.

I tre contadini provarono ancora per qualche minuto a dissuaderlo, ma alla fine Michele fece di testa propria. Aveva con sé un cavallo molto atletico e giovane. Lui era diventato un discreto cavaliere. Potevano farcela. In quei mesi aveva affrontato anche di peggio, che un guado sotto la pioggia.

La bestia si piantò non appena il suo conducente provò a farla avvicinare all'argine. Così, con parole pazienti, le sussurrò all'orecchio qualche parola di incoraggiamento, usando la sua lingua natia.

L'animale, finalmente, parve placarsi. Il vento si era messo a fischiare, facendo in modo che la pioggia sferzasse come una frusta il viso di Michele e il muso del suo cavallo. Vedere qualcosa era quasi impossibile.

Avevano già fatto qualche passo, erano quasi nel mezzo del letto del fiume. L'acqua pareva più bassa del previsto. Marulli cominciava a permettersi di essere ottimista. Se il peggio l'avevano ormai alle spalle, sarebbero arrivati all'altra riva senza problemi.

Colpa di una folata più forte delle altre, o di un rumore sordo arrivato da chissà dove, la cavalcatura del bizantino si spaventò, mancò un passo e scivolò sul greto. Michele faticò a capire cosa fosse successo. Sentì solo l'acqua del Cecina riempirgli le narici e togliergli il fiato. Solo quando riuscì a respirare di nuovo si rese conto che il cavallo l'aveva travolto, e lo teneva intrappolato. Tra i flutti, tornò sott'acqua, si sentì perso, ma riuscì a emergere di nuovo.

L'armatura lo strascinava a fondo e la corrente lo stava portando via via dove l'alveolo si faceva più profondo. Le briglia si erano impigliate a tutto il ferro che portava addosso e sembrava impossibile dividersi dalla bestia, che continuava a dimenarsi, folle di paura.

I nitriti assordanti diedero una nuova forza a Marulli, che si mise a nuotare come meglio poteva, trascinando con sé anche il cavallo, malgrado la sua stazza notevole, trovando in sé una forza che non sapeva di avere. Il suo unico pensiero, in quel momento, era tornare vivo da Alessandra. Lo aveva promesso, e lo avrebbe fatto. Tutto passava in secondo piano, in quel momento. Contava solo tornare da sua moglie.

La riva gli pareva ormai vicina. I contadini che avevano cercato di dissuaderlo si erano messi lì ad aspettare di poterlo tirare in salvo. L'uomo allungava la mano, di quando in quando, ben sapendo di essere ancora troppo lontano. Le grida di incitamento di quelli che assistevano lo spingevano a provare il tutto e per tutto.

Poi si sentì un boato, qualcosa di simile al rombo di un tuono, ma che non arrivava dal cielo. Il bizantino, seguendo istintivamente la sorgente del rumore, guardò a monte. Quello che vide lo pietrificò: un'onda di piena, più simile a un muro di pietra che non ad acqua, stava correndo verso di lui.

Capì subito che non avrebbe fatto in tempo a salvarsi. Quando il fiume lo travolse, vincendolo una volta per tutte, Michele aveva davanti agli occhi una sola immagine: quella di Alessandra, la prima volta in cui l'aveva vista, giovane e dall'espressione intelligente, così dolce, eppure così decisa e sicura di sé, l'unica donna che avesse mai amato e che mai avrebbe amato.

Abbattuti, i tre contadini che avevano sperato fino alla fine di vedere il forestiero salvarsi, lo guardarono sparire nel buio assieme al suo cavallo, portato a valle con una velocità crudele e letale.

“Diamo l'allarme...” propose uno dei tre, stringendosi nelle spalle: “Che almeno nei prossimi giorni si cerchi il suo corpo...”

 

Bianca si stava rigirando nel letto. Non aveva preso sonno, e il fracasso che arrivava dalle vie di Firenze le impediva anche solo di provarci. Il ragazzo che stava al suo fianco, invece, dormiva senza problemi, il volto rilassato e le braccia un po' allargate sul materasso, come chi non aveva un problema al mondo.

La Riario ci aveva pensato molto a lungo, prima di decidersi a fare qualcosa. Aveva diligentemente assunto la sua pozione per giorni, e poi aveva chiesto il permesso a Suor Elena, come la stessa badessa le aveva imposto di fare in caso di necessità. Aveva chiesto a Suor Ubbidienza se fosse disponibile a tenerle i bambini per una notte, e la donna, come già le aveva anticipato tempo prima, era stata subito pronta a dire di sì.

Alla fine, quando non aveva proprio più resistito, Bianca aveva avvicinato il ragazzo che curava il giardino del monastero e si era accordata con lui. Quella notte, poco dopo le due, lui si era presentato nella sua stanza.

Era stato perfino più facile di quanto potesse credere. Si era sentita decisamente meno coinvolta rispetto a quando aveva accettato nel suo letto il soldato con cui aveva – se n'era resa conto in ritardo – intessuto una relazione abbastanza stabile. Quel dettaglio, per certi versi, l'aveva fatta sentire ancora più libera.

Il ragazzo ci aveva messo del mestiere, era facile capirlo. Si poteva intuire quanto fosse avvezzo a dare soddisfazione a quelle che probabilmente riteneva solo delle clienti. Si chiedeva se era quel genere di esperienza che sua madre aveva cercato, negli anni, quando aveva chiamato a Ravaldino un ragazzo che lavorava in un bordello. Anche se aveva cercato di tenere quell'abitudine nascosta, le voci erano corse rapide e anche la figlia ne aveva sentito profusamente parlare. Quel giovane, come probabilmente anche il ragazzo con cui si era accompagnata la Tigre, sapeva cosa fare e quando, e la Riario non avrebbe potuto esserne più felice. Aveva apprezzato il suo corpo tonico e asciutto, e la sua resistenza, così caparbia da risultarle quasi lusinghiera. Aveva amato le parole che le aveva sussurrato all'orecchio e, ancora di più, i lunghi momenti di silenzio, in cui c'erano stati solo i loro respiri veloci a riempirle la testa.

Eppure, alla fine, per quanto fosse stanca e soddisfatta, non era riuscita a rilassarsi abbastanza da prendere sonno. I corpo caldo del giardiniere accanto a lei le sembrava qualcosa di estraneo, come se non fosse stato lo stesso che fino a poco prima aveva cercato e aveva stretto a sé con furia.

Il caos che animava Firenze quella mattina non era normale. Era troppo, per essere quello di una comune giornata d'aprile. Bianca avrebbe voluto alzarsi e andare a chiedere a qualcuno che stesse accadendo, ma non aveva il coraggio di muoversi.

Non voleva svegliare il ragazzo, perché farlo, probabilmente, avrebbe implicato il fatto di scambiare qualche parola con lui, magari ripercorrere quello che era successo, e la giovane non aveva alcuna voglia di perdersi in chiacchiere. Aveva apprezzato molto quella notte, ma non conosceva abbastanza il suo amante da aver voglia di parlarne con lui.

Quando un paio di colpi che parevano di artiglieria fendettero l'aria, però, anche il giardiniere si svegliò di colpo. Il suo bel profilo era alterato dalla sorpresa, mentre, poco per volta, si ricordava dove fosse e con chi.

Di nuovo padrone di sé, si voltò verso la Riario e, puntellandosi un po' sui gomiti, mettendo in mostra il petto coperto da radi peli chiari, le chiese: “Sei sveglia da tanto?”

Un nuovo colpo – forse di spingarda – aveva fatto tremare la finestra. Il giovane, senza aspettare la risposta della ragazza, fece come se nulla fosse e le diede un bacio.

Bianca accettò quello slancio, ma l'interesse per quello che stava accadendo fuori era molto più pressante di tutto il resto, così, per togliersi di torno il giardiniere in fretta e potersi vestire per andare a chiedere numi a Suor Elena, gli domandò: “Quanto ti devo, per stanotte?”

Il giovane scosse il capo e, con un sorriso aperto, le rispose: “Per questa volta nulla. Ma promettimi che non sarà l'ultima.”

La figlia della Leonessa di Romagna sollevò appena l'angolo della bocca e rispose, sibillina: “Non dipende interamente da me.”

Il giardiniere sospirò, poi, senza fare altre domande, si mise un istante sopra di lei, sotto alle coperte, e, baciandole il collo, le sussurrò: “Comunque, sono abbastanza sicuro che quelle due bambine non siano figlie tue...”

La Riario ebbe un momento di confusione, prima di ricordarsi che, per tutti, tranne che per la badessa e Suor Ubbidienza, Giovannino era una femmina.

“Non sono affari tuoi, di chi sono figlie.” ribatté Bianca, scostandolo con un movimento deciso: “E ora, scusami, ma è tardi e ho da fare...”

Un po' sorpreso da quel tono perentorio, il ragazzo si allontanò immediatamente, dimostrando una volta di più di essere addestrato a ubbidire alla donna di turno senza fare storie e poi, alzandosi dal letto, cominciò a rivestirsi.

La Riario non poté fare a meno di osservarlo, mentre con pochi gesti sicuri si infilava il camicione, poi le brache e infine il giubbetto.

Lei, di contro, se ne stava ancora rintanata sotto le lenzuola. Malgrado ciò che avevano fatto quella notte, un po' si vergognava a farsi vedere nuda da lui, quindi avrebbe atteso che se ne andasse, prima di vestirsi.

Finalmente il giardiniere fu pronto e, salutandola con un un bacio da lontano, provò a farle promettere: “Dimmi che non sarà l'ultima volta.”

“Non posso promettere nulla.” ribatté la Riario, inespressiva.

Rimasta sola, si alzò, si guardò un momento nel piccolo specchio che aveva sulla scrivania, e poi si infilò l'abito nero con cui tutti dovevano scambiarla per una novizia. Mai come quella mattina le pareva inadatto.

Fuori si sentivano ancora grida e botti. Avrebbe voluto prima di tutto andare dalla badessa, ma poi si ricordò dei bambini che stavano con Suor Ubbidienza. Era già a metà corridoio, per andare a recuperarli, quando proprio Suor Elena l'apostrofò dalle scale.

“Bianca!” la chiamò, con serietà: “Ho bisogno urgente di parlarvi.”

La Riario comprese subito dal suo tono che dovesse essere accaduto qualcosa di grave. Dicendosi che Giovannino e Cornelia potevano aspettare ancora un po', seguì la badessa fino al suo ufficio.

“Avrai sentito la confusione che regna sovrana a Firenze, oggi.” le disse la donna, abbassando lo sguardo: “Ebbene, è stato proclamato un giorno di festa. Le botteghe sono state serrate e si bruciano i pannelli nelle piazze...”

“E come mai?” domandò, guardinga la figlia della Tigre.

“Pare che a Novara, o lì vicino, l'esercito del vostro prozio, Ludovico, sia venuto a scontro con quello francese.” spiegò la suora: “E dicono che il Moro sia stato fatto prigioniero, e che con questa cattura sia morta la causa sforzesca.”

“E come mai Firenze festeggia così tanto?” domandò Bianca, con la gola asciutta: “Siamo nemici sulla carta, questo è vero, ma...”

“Pare che il cognato di vostra madre, messer Lorenzo Medici – sospirò la badessa – sia stato tra quelli che hanno imposto di far festa fino a tarda notte. Che sia o meno un messaggio per qualcuno, io non posso saperlo e lascio agli uomini di mondo scoprirlo.”

La Riario chinò il capo, cercando di ragionare a mente fredda, ma non ci riusciva. Alla fine, tutto ciò che fu in grado di fare fu domandare a Suor Elena se vi fossero altre novità, ma la donna disse di no.

“Vi prego – concluse Bianca, mentre andava alla porta – se succedesse altro, informatemi.”

“Lo farò sicuramente.” assicurò la badessa.

La ragazza, lasciato l'ufficio di Suor Elena, tornò immediatamente nella proprio cella. Prima di riavere con sé Giovannino, voleva pensare. Si tuffò sul letto ancor sfatto, che portava l'odore della notte appena passata, e affondò il volto nel cuscino. Sapeva che Ludovico non poteva far nulla, ormai, ma si era illusa che lo slancio che aveva preso sarebbe servito anche a migliorare la posizione di sua madre a Roma.

E, invece, sembrava tutto perso. Un colpo d'artiglieria esplose in quel momento, seguito dalle grida dei fiorentini che inneggiavano alternativamente a re Luigi e a Cristo Re. La Riario si trovò a odiarli tutti, dal primo all'ultimo, e maledisse Luigi XII e perfino Dio, perché aveva permesso, a suo modo di vedere, al diavolo di vincere.

 
   
 
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