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Autore: MaikoxMilo    04/08/2020    4 recensioni
La serie principale di Saint Seiya dagli occhi di Sonia, allieva di Milo. La sua vita, il suo percorso, i suoi ricordi che si intersecano e coesistono con la vita dei Cavalieri d'Oro al Santuario di Atene prima, dopo e durante la Battaglia delle 12 case fino ad arrivare al 2011, il nuovo corso per tutti, la conseguente rinascita.
Dal cap. I:
“Ti manca tuo fratello, vero?”
La fisso imbambolata per qualche secondo... giusto, mio fratello Camus! Ecco il perché di questo mio malessere, ecco a cosa stavo pensando prima, a lui... come ho potuto scordarmelo, anche se per pochi, brevi, istanti?!
“Sì, ma tu come lo sai?”
La ragazza mi sorride ancora una volta, sedendosi poi vicino a me.
“Sono tutte uguali le persone che soffrono la perdita di qualcuno, affettiva, o più banalmente fisica, è irrilevante .. si mettono in disparte e guardano il vuoto, sperando di rivedere il volto del proprio caro. Lo capisco bene, sai? Milo era così quando ha perso Camus nella battaglia delle Dodici Case...”
Per comprendere meglio la storia, è necessario aver letto la mia serie principale: "Passato... presente... futuro!", buona lettura!
Genere: Angst, Fluff, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Aquarius Camus, Cygnus Hyoga, Kraken Isaac, Nuovo Personaggio, Scorpion Milo
Note: AU, OOC | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Passato... Presente... Futuro!'
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Capitolo 14: L’Anatema della rovina (seconda parte)

 

 

N.B: Il capitolo è piuttosto corposo e lunghetto, pari solo, forse, al capitolo 37 di Sentimenti che attraversano il tempo, ma può essere diviso agevolmente in due parti, la prima, narrata al presente dal punto di vista di Camus, la seconda nuovamente al passato. Buona lettura a tutti!

 

 

Neksikan, chilometro 651 della strada della Kolyma, 4 febbraio 2008

 

 

Il mio sguardo sconfortato, vittima della desolazione dello stesso luogo, è catturato da una zona di terreno congelato completamente rivoltata, come tomba scoperchiata e abbandonata alle intemperie. Lentamente mi avvicino, accucciandomi e cominciando a raspare sul duro permafrost, rompendo il ghiaccio più resistente grazie al tacchetto delle scarpe. Finalmente ciò che aveva attirato precedentemente la mia attenzione, viene fuori alla debole luce, permettendo alle mie dita, un poco tremanti, di entrarci in contatto. Occorre non poca attenzione per disincrostarla senza danneggiarla più di quanto già non sia, ma riesco nel mio intento, alzandomi poi in piedi nel guardarla. Un velo di tristezza sento scaturirmi spontaneamente dal cuore.

Una foto sbiadita in bianco e nero. Un ricordo di qualcuno. La morsa sul mio cuore si fa per un attimo più accesa, prima di assopirsi.

Me la rigiro tra le mani nel tentativo di riesumare più informazioni possibili. Sul retro c’è una vecchia scritta che recita: “21 Dicembre 19… Nina e la sua f...miglia, con affetto, i nonni Pi… e Kl...” il resto è illeggibile, danneggiato dal fuoco. Torno ad osservare i soggetti raffigurati. Volti sorridenti, che tengono in braccio una bambina di un paio d’anni che guarda la fotocamera e la indica con il ditino. Frammento incastonato nel tempo, fossilizzato, reso imperituro nell’esatto momento in cui il fotografo ha premuto il tasto.

E sono rimasti ancora qui, immobili, congelati, come questo villaggio.

Non conosco i soggetti, non ho informazioni per stabilire una datazione corretta e precisa, ma… sospiro, osservando ancora il sorriso eterno con cui mi scrutano nel loro mondo fatto di immobilità: la madre tiene la bimba da sotto le ascelle, le sue labbra sono piene, emanano una gioia indescrivibile; indovino, data la tonalità del nero, che abbia i capelli corvini, il marito invece stringe la mano destra della piccola, sembra più contenuto nei modi, ma ugualmente felice, gli zigomi sono sollevati in una manifestazione di serenità, i capelli certamente chiari, probabilmente sul biondo, forse qualcuno già tendente al bianco. Le loro bocche sembrano sussurrare un “saluta i nonni” che fa scoppiare, di riflesso, la bambina in una sonora risata.

Una nuova fitta al cuore mi investe, come se l’intensità del ricordo colpisse anche me. La lascio scivolare via, obbligando il mio essere a ricondursi alla calma. La mano si abbassa istintivamente, pur stringendo sempre la presa sulla foto. Guardo nuovamente i dintorni.

Non c’è altro che desolazione qui, scheletri di case, un tempo piene di vita, spazzate via dal fuoco e, ancora prima, dagli uomini… terreno smosso, divelto, come se il grembo della terra fosse stato stuprato in profondità per poi essere lasciato lì, nudo, a cielo aperto, tributo oltraggioso e temerario di uomini che probabilmente si credono padroni dell’intero mondo, al punto di decidere arbitrariamente cosa è necessario lasciare e cosa invece far scomparire dalla faccia della Terra in base ad un unico, scellerato, criterio: l’utile.

Abbandonato, vacuo… un luogo che, un tempo, era gremito di vita, e che ora invece reca con sé solo il vessillo della profanazione, e che presto scomparirà, sommerso dalle bufere quasi perenni che, lentamente, ma con costanza, copriranno questo posto per sempre.

Neksikan è ormai un zamerzshaya derevnya, uno dei tanti villaggi congelati che, una volta terminata la sua funzione di approdo dei giacimenti auriferi, essendo collocata sopra una riserva aurifera, ora esaurita, è stata semplicemente abbandonata al suo destino: gli abitanti trasferiti, le case distrutte, le strade divelte, e poi... incendiata, per farla scomparire dalla vista. Il ghiaccio ha fatto tristemente il resto.

Per tutto il territorio della Kolyma sono diverse centinaia, forse anche di più, i paesi che hanno condiviso questo tetro destino, del resto, è così anche per le cose e le persone, perché mai dovrebbe essere diverso per un villaggio? Non sei più utile allo scopo? Alla causa? Devi sparire, non rimarrà nulla di te. Per molti esseri umani questo è il criterio assoluto, vale per gli oggetti, come per le relazioni. Una cosa rotta si butta, non si prova ad aggiustare, sarebbe solo una perdita di tempo. Si lascia. Si va avanti. Si rimuove.

Andare avanti è giusto, mai lasciarsi soverchiare dal passato, eppure l’interscambiabilità di ogni cosa, di ogni persona, mi spaventa, così come la facilità all’annichilimento dell’altro. Sospiro, scrollandomi via anche questi pensieri, deve essere il luogo a rendermi così malinconico, più di quanto già non sia.

I miei passi sul permafrost producono uno scricchiolio sinistro, mi dirigo verso ciò che rimane di un muro perimetrale di una vecchia casa, passata dal fuoco e ormai diruta. Mi chino di nuovo, rompendo il ghiaccio nuovamente con il tacchetto prima di scavare una piccola buca ben profonda, posarci la foto e ricoprirla con cura. Le mie dita raschiano sul terreno indurito dal ghiaccio, ma tempo pochi minuti e la foto è tornata al luogo che le spetta di diritto. Mi rialzo, un vento gelido mi muove i capelli e il mantello mentre contemplo un’ultima volta ciò che rimane di un paese un tempo gremito di vita. Trovo infine il coraggio di voltarmi e ritornare così sulla strada, riprendendo la via per cercare e trovare Zima Siyaniye, colei che nei tempi antichi veniva soprannominata “il Vento del Nord”, e che ora, pare, sia la causa primigenia di questa endemia che colpisce i Figli di Siberia a cadenza regolare.

E’ giorno, ho ancora qualche ora di luce davanti a me, ma le ombre già si allungano e sembrano avvolgere i dintorni, gli alberi, persino le rocce, con le loro dita oblunghe e sottili.

Solo nel Nord della Siberia, in inverno, c’è una luce come questa. Sembra quasi che lo spazio e l’aria abbiano un colore, è difficile persino da descrivere, se non lo si vede con i propri occhi, ed io non posso definirlo in altro modo che prendendo in prestito un’espressione di una poesia di Pascoli: ‘tenebre azzurre’. Ecco, le tenebre azzurre sono intorno a me, malgrado il sole ancora sopra l’orizzonte. Sono avvolto da questo celeste imperituro, come quando si è sott’acqua in una piscina all’aperto, poco dopo il tramonto. Lì è il cloro a creare quella dissonanza frastagliata di celeste, qui l’atmosfera; è l’atmosfera qui a vibrare, possedendo una trasparenza incredibile, ma minacciosa, sinistra, una sorta di sfumatura di blu, eterea ed implacabile al tempo stesso.

Mi giro ancora una volta, l’ultima, a vedere il villaggio che si distingue appena, così assediato dai ghiacci, un ultimo sussurro di malinconia, prima di girarmi senza più alcuna esitazione.

“Il tempo stringe, devo sbrigarmi! Avrora e gli altri bambini hanno bisogno di una cura urgente” dico tra me e me, cercando di farmi coraggio e ricacciare indietro la stanchezza che purtroppo si fa già sentire.

Sono giunto qui alla Kolyma partendo da Magadan, sul Mare di Ochotsk, la capitale, poiché è da lì che si contano i 2025 chilometri che compongono la strada federale della Kolyima -anche se in alcune parti non è nulla più che una pista!- che arriva fino a Jakutsk, la città che viene detta la più fredda del mondo, anche se sarebbe più corretto dire, forse, per rendere l’idea, la meno vivibile del pianeta, dato l’immenso divario termico tra l’estate e l’inverno causato dal rigido clima continentale.

Io ne vengo dalla città più a nord del mondo, Pevek, nel circondario autonomo della Cukotka, dove gli inverni sono stemperati dalla vicinanza al Mare della Siberia Orientale, e le estati più fresche ad opera dello stesso.

Il mio obiettivo è ben saldo nella mia mente, non faccio che ripetermelo passo per passo su questa strada lastricata di ghiaccio, è il mio cuore a non essere completamente sereno, non del tutto convinto dei modi da attuare affinché questo scopo venga perseguito. C’è qualcosa che non torna, più proseguo nel mio cammino più ne sono convinto, ma… cosa?

Elisey mi ha schiettamente ordinato di trovare questa creatura malvagia, chiamata Zima Siyaniye, e distruggerla completamente, in modo che l’Anatema della rovina cessi di mietere vittime tra i bambini e venga così spezzato il ciclo. Lo ha sottolineato più volte, ripetutamente, con quella strana luce negli occhi, che è l’unico modo, ma… rimuginandoci da quando sono partito, mi è sovvenuto anche del racconto che Hyoga mi aveva narrato quando era ancora un bambino. Gli era stato riferito come favoletta dalla madre, e lui ne era entusiasta, carpito da quelle descrizioni con cui la creatura era stata tratteggiata. Io, in principio, non ci avevo dato troppo peso, attribuendogli lo spessore scrittorio di una mera leggenda, tuttavia la descrizione che ne ha fatto Elisey combacia su tutti i particolari con quelli del mio allievo, meno uno.

La creatura mitizzata da Hyoga è sostanzialmente un canide buono e giusto, dal manto fulvo di color celeste, legato al bene; quella di Elisey, invece, pur mantenendo i connotati fisici identici, è avulsa dal male nero, putrida, malvagia, portatrice di rovina, eppure… persino dalle sue parole spietate, dai suoi occhi neri che emanavano scintille inquietanti e dalle labbra ispide, ho come percepito una discrepanza tra il significato e il significante, una sorta di amore e odio che in Elisey, così lontano dagli standard del mio amato maestro, non avevo mai percepito.

Zima Siyaniye… al di là del proverbiale “Vento del Nord”, che ha origini persino più antiche, in russo è così che viene definita l’aurora, lo splendore invernale, per l’appunto, o anche il meraviglioso luccichio della notte più buia. Per secoli è sempre stata motivo di rassicurazione per gli abitanti della tundra e della steppa, quasi la promessa del sole di ritornare, regalando lo spettacolo più bello visibile a queste latitudini… perché ora dovrebbe essere diverso? Perché ora la creatura che rappresenta la grande, immensa, Aurora del Nord, dovrebbe essere spietata?! Perché causare un’endemia di simili proporzioni per punire i propri figli; i figli della Siberia, punirli per cosa?

Per aver infranto la promessa, figliolo, per aver deluso le sue aspettative. Successe molto tempo fa, un giovane uomo infangò il giuramento preesistente con la creatura, essa reagì con la perdizione eterna della città, causandone la sua rovina. La sua sventura permea ancora questi luoghi dilagando a cadenza regolare e ciclica, provocando vittime tra i figli di tutti coloro che, un tempo, appartenevano al popolo di Blue. Il nome della città eternamente dannata è Bluegrad, la Leggendaria, un luogo importante per gli Sciamani. Non sai dove si trova, vero? Non crucciarti, è normale, in inverno restano visibili solo pochi, sparuti, brandelli di muro, è in estate che ritorna ad essere visibile, perché il ghiaccio, che l’ha distrutta, la preserva ancora. L’ubicazione è remota, irraggiungibile, forse anche per questo è considerata sacra, una meta di pellegrinaggio. Ricorda il suo nome, Camus; il nome di una città morta, che un tempo risplendeva...

Le parole di Elisey mi risuonano in mente, con quel suo tono strascicato e apparentemente privo di calore, eppure una sfumatura di tristezza l’ho percepita anche io, è giunta al mio cuore che, al solo udire quel nome, ha perso un battito. E un altro ancora.

Bluegrad, la Leggendaria…

Mi poso una mano sopra il petto pesante e un poco affannoso, tentando di scacciare l’ennesimo giramento di testa che mi ha colto nel ripensare a quella città che per me dovrebbe essere sconosciuta, ma che al solo riproporsi alla mia mente, mi fa salire un magone crescente. Sono costretto a placarlo con respiri profondi proprio nel torace, dove si attorciglia, facendomi ancora più male. La dolcezza di quel suono, Bluegrad, mi spinge quasi alle lacrime, che rifiuto categoricamente, volgendo il mio pensiero ad altro.

Non c’è comunque modo per estrapolare informazioni dalla gente di qua, ci ho provato a Magadan, non ne sanno nulla, né di Zima né di questo male, i bambini sembrano stare bene, non si sono verificati episodi insoliti. Ci ho provato anche a Debin, ad Jagodnoe, ma tutti sembrano affaccendati nella ricerca dell’unica ragione per cui si trovano qua in massa: l’oro dei giacimenti auriferi. Pochi pescatori, poca gente per bene... la maggior parte degli uomini che ho incontrato sono cercatori, delinquenti, alcolisti, qualche medico, molti razziatori, che privano i paesi in stato di abbandono, o che stanno per essere “congelati”, con le loro scorribande, assolutamente privi di morale, disposti a tutti pur di fregare il prossimo.

“E il problema sarebbe Zima, Elisey… mi hai mandato in un posto timorato dagli dei, disseminato di morti, pregno di malvagità, dicendomi che il fulcro di tale principio oscuro è la creatura, ma io, qui, non trovo altro che esseri umani della peggior specie, vuoi farmi credere che è stata Zima a ridurli così?” mi interrogo ad alta voce, come mi capita soventemente. Ci sono solo io in queste lande sperdute, mi aiuta a schiarirmi le idee.

Qui nessuno sa niente, ognuno è dedito alle proprie faccende, ai propri egoismi. Non so bene dove devo andare, ma sono piuttosto sicuro di dover continuare su questa strada, e che le risposte giungeranno presto. Lo sento.

Torno quindi sulla strada principale, una striscia d’asfalto sommersa dal gelo, piena di buchi, fosse che recano disturbo non solo al viaggiatore che procede a piedi, ma anche alle poche autovetture che si avventurano su questa via desolata. Sono principalmente camion per i rifornimenti e poco altro, se si è fortunati ne possono passare 5 o 6 nell’arco di tutta la giornata, spesso l’unico modo per procedere è l’autostop, ma io sono avvantaggiato, sono abituato a camminare senza stancarmi e posso contare sulla velocità della luce per spostarmi da una località all’altra, in cerca di informazioni che fatico a reperire. Maledizione, il tempo stringe, ma non posso permettermi di farmi avvolgere dall’ansia e sragionare, preda delle troppe emozioni, ne va della salute di quei piccoli, devo sforzarmi di mantenermi più distaccato possibile, solo così potrò trovarla!

Sono a buon punto, ormai, dovrei proseguire per Ust-Nera, continuando a fiancheggiare queste montagne quasi perennemente ghiacciate ancora e ancora, senza mai fermarmi, non sono permessi passi falsi e…

“Uh?”

Mi lascio scappare un mormorio sommesso nel distinguere in lontananza, proprio lungo l’asfalto, una figura in movimento. Sulle prima penso trattarsi di un orso, o un alce, o ancora un cane inselvatichito, poiché qui ce ne sono tanti, ma poco dopo mi rendo conto che ha sembianze del tutto simili alle mie, cammina in postura eretta. Un… essere umano? Qui, vicino a Bolsevik? Con le tenebre che stanno calando sempre di più?

Mi avvicino il più discretamente possibile, gli occhi fissi sui suoi movimenti, cerco di definire ogni suo più piccolo passo, ogni gesto, ogni particolare della sua figura.

E’ una donna avvolta da una pesante pelliccia, imbacuccata dalla punta dei piedi fino ai capelli, che ricadono parzialmente fuori dal cappuccio in leggere ciocche bionde. E’ all’angolo della strada, continua a muoversi per non morire assiderata, è evidente. Le mani, prive dei guanti, sono tenute vicino alla bocca alla disperata ricerca di un calore che le viene sottratto. Non si è ancora accorta della mia presenza, ciò mi permette di compiere ancora qualche passo, pur mantenendo una certa distanza.

Assottiglio le labbra, socchiudo le palpebre, capisco. Intuisco il suo mestiere dalla gonna corta che indossa, nonché dai collant spessi ma.. particolari... per non parlare dei tacchi alti che la slanciano ancora di più. E’ fuori da ogni logica girare con quel tipo di scarpe in queste lande ghiacciate, come è fuori da ogni logica aggirarsi qui, lei, una donna, con il maschilismo che regna sovrano in questi luoghi e gli innumerevoli pericoli, come gli orsi, oltre che ai malviventi.

Sospiro. Questo incontro avrei preferito evitarlo, mi rallenterà ulteriormente, più di quanto non faccia la stanchezza, ma non posso lasciarla qui, da sola, non è un comportamento da Cavaliere e nemmeno da uomo.

“Non dovresti… essere qui!” le dico in tono confidente, fermandomi sui miei passi, a distanza per non spaventarla e per farle capire che non ho cattive intenzioni.

Lei sussulta, voltandosi verso di me e spalancando la bocca, incredula. Si immobilizza, mantenendo le labbra, colorate con un rossetto viola fin troppo scuro, aperte nel vuoto, quasi boccheggiante davanti alla mia figura.

Non aggiungo nient’altro, limitandomi a contraccambiare la sua espressione con una più neutra possibile. Ci fosse Milo le regalerebbe un sorriso dolcissimo, invitandola a seguirla, ma io non ne sono capace, non so come potrebbe reagire lei, senza contare che non riesco ad essere così aperto con una sconosciuta, sebbene, data la sua situazione, mi faccia quasi tenerezza.

Lei continua ad osservarmi con gli occhi azzurri, chiarissimi, due pozze di due laghi, ma le palpebre sono eccessivamente truccate per i miei gusti, porta persino delle ciglia finte, che rendono ancora più grandi le sue iridi che non avrebbero di certo bisogno di simili espedienti per folgorare un uomo. E’ una bella ragazza, d’altronde, non comprendo perché si sia ridotta così, in un posto simile, ma non mi sembra comunque il caso di indagare, del resto non sono affari miei.

Dopo una lunga pausa di sguardi, vedo le sue pupille passare dal mio volto al busto, scendendo sempre di più e soffermandosi…

Mi nascondo istintivamente il ventre con una mano, maledicendo Elisey per avermi affibbiato un costume simile.

Uno Sciamano deve essere più vicino possibile alla natura! L’ombelico è situato, come ben sai, in posizione mediana sull’addome, è un punto centrale di accumulo delle energie psico-fisiche, nondimeno è la prova di essere venuti al mondo, la prova stessa di essere esistiti. Un Guaritore si adopera in favore della vita per mezzo del tocco e del respiro, principali vettori per trasmettere le proprie energie e cure alla persona che ha bisogno di aiuto. Ragazzo, non temere di mostrare il tuo fulcro vitale, non temere di mostrare il tuo ventre, sei uno Sciamano, devi recare in te sia il Maschile che il Femminile! Tu solo hai la capacità di generare qualcosa dal nulla, non sto esagerando, prima o poi capirai cosa intendo...

Al diavolo i tuoi sproloqui, Elisey! Ero tanto a mio agio con la tenuta di addestramento! Non certo con questa sorta di… di… non lo so nemmeno io!

La ragazza, grossomodo della mia età, o poco più grande, sembra finalmente ridestarsi, la vedo scrollarsi per darsi un tono, ricordandosi di chiudere la bocca. Finalmente i suoi occhi smettono di guardarmi là sotto, risalendo nuovamente sul mio viso.

“Beh… che dire, non mi aspettavo che, tra di voi, ce ne fossero di così belli...”

“Come, prego?”

“Mietitori… - mi accontenta, placida, imbacuccandosi ancora di più nella pelliccia, deve avere molto freddo… - Sono morta, vero? Ipotermia, oppure… ci sono quasi, e tu mi sei venuto a prendere!”

“No, guarda, io non sono venuto a prendere nessuno, mi devo recare verso Ust-Nera e da lì proseguire ulteriormente, ho una ragione molto importante per muovermi...”

“Oh, devi mietere altre anime oltre alla mia?”

Sospiro rassegnato, evidentemente pensa davvero di avere le allucinazioni e mi deve catalogare come tale. Che fare? Per il momento, è meglio che continui a parlare e a muoversi, il clima di questi luoghi non perdona e a giudicare dalle sue mani bluastre, le estremità del suo corpo stanno già cominciando a congelarsi.

“Cosa fai qui? E’ pericoloso!” provo a chiederle, tentando di stabilire un primo, dialogo.

“Oh, diciamo che il mio ultimo cliente non era proprio un galantuomo e, una volta fatto il lavoro, mi ha lasciato qua in mezzo al nulla, portandosi via anche i miei guanti che avrebbe poi regalato alla moglie, così mi ha detto, prima di mollarmi su due piedi” mi dice in tono neutro, quasi fosse un trattamento normale nei suoi confronti. Nel dirlo, mi mostra proprio le mani come a dimostrare la veridicità delle sue parole.

Devo agire in fretta, lo capisco con un unico, attento, sguardo. Posso ancora fare qualcosa contro il gelo che le si sta avvinghiando, ma il tempo è prezioso, più minuti passano più perderà l’uso delle stesse a partire dalle dita. Non ho altri vestiti con me per riscaldarla, se ci fosse sempre Milo, al mio posto, non esiterebbe un secondo, saprebbe già come agire per… fermare il congelamento e, probabilmente, fare anche qualco’altro.

Sorrido tiepidamente, mentre il viso del mio migliore amico si fa strada, per un secondo, nella mia mente, facendomi percepire per un attimo, come fitta acuminata, la sua mancanza. Da quand’è che non lo vedo, un anno? Di più? E la piccola Sonia? Come se la staranno cavando Isaac e Hyoga, si staranno allenando all’isba? Scaccio in fretta quei pensieri, anche se mi riscaldano il petto.

Con una leggera torsione del busto, prendo tra le mani il mantello, più lungo dietro che davanti, e mi soffermo un attimo a pensare sul da farsi. Elisey mi ha detto che è fatto di un materiale speciale, introvabile in natura, o meglio, nella natura di questa dimensione chiamata Terra, ha specificato, in tono enigmatico, sbigottendomi, anche se dovrei essere ormai avvezzato alle sue frasi strampalate da vecchio squinternato. Pare che conservi il calore come nessun altro abbigliamento. Non dovrei quindi sgualcirlo, figurarsi strapparne un lembo, ma se non faccio qualcosa le mani di questa ragazza rischiano di…

Improvvisamente avverto qualcosa di gelato posarsi sul mio addome, premendo un poco sopra l’ombelico prima di salire con l’intento di levarmi il mantello. Mi irrigidisco di colpo, prima di scostarla da me con gesto delicato ma fermo al tempo stesso. Se nella pratica riesco ad essere sufficientemente tollerante, lo stesso non posso dire nel tono e nella mia espressione che, perentoria, si imprime nella sua:

“Che diavolo fai?!” esclamo, secco, cercando di mascherare il rossore delle mie guance dietro un tono più alto del normale. Automaticamente le mie mani corrono a difendere la zona scoperta. La ragazza mi fissa con espressione stranita, indietreggiando di un passo.

“Oh? Pensavo che dal tuo modo di vestirti fossi un tipo caliente, uno di quei clienti focosi, che bramano qualcosa di più nella performance. Volevo toglierti quell’impiccio di dosso, anche se ti rende dannatamente sexy e misterioso, e partire così dall’alto, ma forse… hai altre preferenze?” mi sorride maliziosamente lei, tentando un nuovo approccio. Ho giusto il tempo di capire a cosa stia alludendo, che la avverto di nuovo su di me. Stavolta non perde tempo a salire, va direttamente sotto, tra le due cosce. Sussulto, prima di scansarla per la seconda volta con gesto delicato ma ugualmente deciso e allontanarmi io da lei, di tre passi.

“Non ci siamo capiti...”

“Sembri un tipo difficile… dov’è la tua vettura? Ti va se ci spostiamo al caldo? Dopo farò tutto quello che vuoi!” riprende lei, guardandosi intorno alla disperata ricerca di un rifugio dove riscaldarsi e attuare le sue pratiche, convinta di avere un cliente davanti. Sospiro, ricercando difficoltosamente le parole per farle capire che non sono qui per questo.

“S-solo sbrighiamoci, c-comincio ad avere davvero troppo freddo per...” inizia lei, tentando il terzo assalto su di me, ma stavolta la fermo anzitempo, bloccandola per le spalle prima che lei mi possa toccare di nuovo.

“Non ci siamo capiti, non sono qui per richiedere i tuoi… servigi… non sono quel tipo di uomo!”

“E allora sei davvero un Mietitore, un...”

Non le lascio il tempo di finire la frase, semplicemente prendo le sue mani con gesto impacciato, avvolgendole poi con l’estremità dietro del mantello e trattenendole lì, per riscaldarle. La ragazza continua a guardarmi, sempre più sconcertata dai miei atteggiamenti, prima di scendere con gli occhi di nuovo sul mio addome e sostarci a lungo.

Faccio finta di niente, sebbene le sue continue occhiate al mio ventre mi mettano profondamente a disagio. E’ di gran lunga troppo vicina al mio corpo, i suoi occhi azzurri sembrano sondarmi centimetro per centimetro, ma almeno le sue mani sono ferme ora, si stanno scaldando, tra le mie.

Una ragazza così giovane, sfruttata probabilmente da altri, che svilisce la sua vita, il suo corpo, al punto di non curarsi di rischiare l’ipotermia e proseguire a fare le funzioni per le quali è stata iniziata. Ha detto che il suo ultimo cliente l’ha lasciata qui, ma ne ha parlato come se fosse una cosa normalissima e questo… questo non lo posso accettare, nessun essere umano dovrebbe avere una considerazione così bassa di sé stesso!

“Come ti chiami?” le chiedo, cercando di addolcire il mio tono.

“E-eh?”

Sembra incredula persino di udire domande normali, abituata come è ad agire solo come un oggetto sessuale, o poco altro.

“Il tuo nome...”

“Ta-Tamara!”

“Bene, Tamara, dove eri diretta prima di… di essere lasciata qui?”

“Non ho una direzione… non ce l’ho da un po’, la mia vita è ricolma di caos e confusione...” mi risponde, arrossendo un poco e discostando lo sguardo.

“Quanti anni hai?”

“22...”

Tre più di me, anche se con quel trucco sembra molto più grande, eppure, lo vedo bene dai suoi occhi ora che ce l’ho così vicina, deve averne passate di cotte e di crude e aver visto già le brutture della vita.

“Sei giovane, per non avere una meta dove andare...” commento, sempre in tono cordiale, mentre, al limite dell’imbarazzo, le sfrego le mani per accelerare il riscaldamento. E’ un qualcosa che Camus dell’Acquario non farebbe mai, ma non è quello il mio ruolo ora, non qui. Mi sforzo di essere un poco più come Milo, almeno dal punto di vista umano.

“Qui, o lì… non cambia, intanto mi trattano tutti in ugual maniera, ovunque vada, nella Kolyma, sono riconosciuta come la prostituta di Susuman, questo è il mio scopo, null’altro!”

“E desideri continuare così?” le chiedo a bruciapelo. I suoi occhi azzurri si spalancano per lo stupore, e la vedo la luce che scorga dal fondo. C’è ancora speranza per lei, per il suo futuro, basterebbe allontanarsi da qui, ricominciare da principio. Può ancora farlo...

“Non… non sono avvezza a seguire i miei reali desideri, mi considero già spacciata...”

“Ne vieni da Magadan? O da Susuman?”

“Magadan...”

“E dove vorresti andare?”

“Non ho… speranze… di andare da qualche altra parte che non sia qui!”

“Non ha importanza, dove vorresti andare?” le chiedo ancora, serio in volto.

Gli occhi della ragazza si fanno lucidi, il suo corpo trema per qualcosa che non è il freddo. Davvero non è abituata a così tante domande e interessamenti sulla sua persona, è lampante. Esita un po’, prima di rispondermi ancora.

“Se solo potessi andrei via... via da qui, a Mosca, ho ancora uno zio là, il fratello minore di mio padre, ma… non ho abbastanza soldi!”

“Ho capito… - ancora una volta è la mia voce a catturare il suo sguardo, che ora mi sembra smarrito come quello di una bambina – Chiudi gli occhi!” le consiglio, prima di farle appoggiare la fronte contro la mia spalla e avvolgerla con il mio cosmo dorato.

E’ il suo turno di irrigidirsi, forse non abituata ad un gesto simile, mentre i contorni dell’ambiente scompaiono per riapparire sotto un’altra forma. Nel giro di mezzo secondo arriviamo nel luogo designato, la lascio libera e la vedo incespicare nei piedi, mentre, confusa, si guarda intorno, spaesata. Finalmente i suoi occhi sembrano riconoscere un qualcosa in lontananza, ma questo non la aiuta a tranquillizzarsi, la agita ancora di più. Non le posso dare torto…

“Ma quella… QUELLA! No, non è possibile, non...” mi fissa, sconvolta. Una ragazza normale, probabilmente, sarebbe scappata in quarta, allontanandosi da me il più in fretta possibile, lei no, deve averne viste di stranezze in vita sua, perché è sbigottita, incredula, ma continua a fissarmi.

“Quella che vedi là in fondo è Mosca, sì, sei alle porte della città...”

“Ma non è poss… eravamo alla Kolyma fino a due secondi fa! Non… E’ INCONCEPIBILE!”

Mi allontano di qualche passo, dandole le spalle, devo ripartire anche io.

“Ora puoi scegliere… tornare indietro a Megadan, con un volo economico, andare da questo tuo zio, oppure… lavorare un po’ qui e andare altrove, fino a quando non troverai il tuo posto nel mondo. Sarai artefice della tua vita, da adesso in avanti, stampatelo a caratteri cubitali in testa, sei fuori dal giogo a cui ti hanno costretto, considerati libera!” le dico, facendo per andarmene ma lei mi prende lestamente per il polso, costringendomi a voltarmi nella sua direzione. I suoi occhi sono più lucidi di prima, traboccanti di un qualcosa che li rende ancora più attraenti.

“Chi… chi sei? Un mago, uno… - il suo sguardo passa un’ultima volta su di me, da capo a piedi – Uno Sciamano?” arriva alla conclusione, fremendo.

“Non ha importanza chi io sia, l’importante è trovare la tua via, io sono solo un sassolino sul tuo percorso. Comincia a pensare che non ne hai solo una, di strada davanti a te, non devi essere obbligata a perseguire quella voluta da altri, puoi fare tutte le deviazioni che desideri, puoi fermarti, sostare per un tempo più o meno prolungato dove vuoi, ripartire, tornare indietro. La vita è la tua, non permettere più a nessun altro di dettare legge su di te. Sei un essere umano… gli esseri umani hanno il potere di cambiare il proprio destino, sempre!”

La ragazza sembra ancora più confusa, guarda imbarazzata in ogni dove, con la mano libera si tocca nervosamente un ciuffo biondo, mentre con l’altra mi stringe ancora più forte il polso. Avverto appena le sue dita sulla mia pelle. Che strano, non la conosco, ma avverto il calore di quel gesto, le sue paure, il suo smarrimento, non è una sensazione spiacevole.

“E’ normale avere paura, ora… se vuoi un consiglio, va da questo tuo zio, datti tempo, prima di decidere, hai tutta una vita davanti, non darti per persa. Sei viva, respiri… è tutto ciò che ti serve sapere. Il domani è misterioso, ma è proprio grazie a questo che possiamo combattere, ora, nel presente, sperando in un futuro migliore!”

Faccio per darle le spalle e andarmene. Non sono davvero nessuno per dirle cosa fare e dove andare, ma mi è sembrata talmente tanto smarrita che non potevo fare a meno di intervenire.

“Nessuno mi ha mai trattata così, nessuno mi ha mai trattata da… essere umano! - la sento biascicare in tono rotto, dietro alle mie spalle, probabilmente sta piangendo – Il tuo nome… posso saperlo?”

Mi volto a mezzo busto nella sua direzione, sostando a lungo con lo sguardo, un’ultima volta. Come avevo percepito, ha le guance rigate dalle lacrime, l’espressione un poco tirata tipica di chi non ha la più pallida idea di dove andare, provando solo e soltanto un’autentica paura, quella dell’attimo prima del grande balzo, quando il cuore accelera nel petto e, per un istante, la terra manca da sotto i piedi.

“Mi chiamo Camus, sono uno Sciamano e… ti auguro, anzi, sento distintamente che troverai infine la tua via, Tamara...”

“Non è il mio vero nome, quello...”

“E quale è quello autentico?”

“Nina...”

“Nina?!” ripeto, come colpito da una folgorazione, il mio respiro muta di intensità.

“Sì… è un nome un po’ patetico, vero?”

“No, no… affatto, mi piace molto, invece! – riesco infine a sorriderle, mentre i suoi occhi si spalancano, sorpresi – Ti auguro ogni bene da adesso in avanti, Nina!”

 

Dopo la breve, ma necessaria, deviazione per condurre fuori dal giogo inumano quella ragazza dagli occhi troppo spaventati e disillusi per avere solo 22 anni, sono tornato sulla strada della Kolyma, che ho ripreso a percorrere con passo svelto. Pensavo di uscire fuori dall’asfalto e ricercarmi un bivacco dove dormire un paio di ore, stante l’arrivo delle tenebre, ma sono stato fortunato e ho beccato una macchina sulla statale. Questa, senza che facessi cenno, si è fermata a poca distanza da me, rivelando un uomo da un largo sorriso, che mi ha detto di chiamarsi Bobik, e il suo giovane cane, una femmina di razza laika che, poco dopo, ho scoperto chiamarsi molto fantasiosamente Laika. Mi hanno offerto un passaggio, sono diretti a Ust-Nera, ed io, condividendo la loro direzione, ho accettato.

In verità la macchina rallenta non poco i miei movimenti, non sono abituato a girare su una vettura, ma ho percepito distintamente che Bobik e la sua Laika non sono esseri viventi comuni, a cominciare dal fatto che si sono fermati loro per primi a ‘soccorrermi’, cosa assolutamente non da russi, data la tempra di indifferenza che contraddistingue questo popolo.

“Allora… hai detto di chiamarti Camus, giusto? - mi chiede conferma lui un paio di minuti dopo aver ripreso il nostro tragitto, al mio cenno di assenso continua il suo discorso – Cosa ci fa un uomo non ordinario come te in giro da solo per la Kolyma?”

Non sono abituato a discorrere con gli sconosciuti, né tanto meno a raccontare i fatti miei, ma questa persona, Bobik, mi ispira fiducia, avverto provenire una forte aura positiva da lui, come non mi capitava da molto tempo.

“Da dove provengo io… molto a nord e molto a est, è scoppiata un’endemia che colpisce i bambini e, nei casi più gravi, li conduce alla morte. Ho sentito di questa leggenda, di questa creatura che, si dice, rappresenti l’aurora, e che...”

Non ho il tempo di finire, Bobik inchioda, costringendomi ad attaccarmi al sedile per evitare di essere sbattuto contro il vetro, persino Laika, comodamente posata con il muso tra le mie gambe, in un gesto di estrema confidenza non tipica di questa razza canina, sussulta, cominciando ripetutamente ad abbaiare.

Mi giro verso Bobik, il sopracciglio inarcato, le labbra assottigliate nella mia tipica espressione di biasimo. Bobik mantiene gli occhi spalancati verso la strada ancora per una manciata di secondi, poi si volta verso di me, sostando a lungo sul mio viso.

“I tuoi vestiti… la reazione della mia Laika, che si è fidata immediatamente di te, avrei dovuto capirlo subito, ma avevo ancora dei dubbi. Mi hai dato proprio ora la conferma definitiva...”

“E…?”

“Sei uno Sciamano… e ti trovi qui per rintracciare Zima Siyaniye...”

E’ il mio turno di guardarlo incredulo, è il primo essere umano che mi parla di lei, ho fatto bene ad accettare un passaggio, finalmente, forse, comincio ad avere una pista un po’ più definita di quella che mi ha dato Elisey.

“Conosci… la sua leggenda?!”

“Per sentito dire. Mia nonna invece alla perfezione… vivo con lei, sai? Lei conosce la leggenda perché… non lo so neanche io perché, è sempre stata molto… riservata... sull’argomento! – ammette, rimettendo in moto la macchina, che altrimenti rischia di non ripartire più a causa del rigido freddo – Il nostro incontro non è stato casuale, noi… dovevamo conoscerci, in qualche modo! Discorri con mia nonna, quando arriviamo, ti sarà più chiara la via da intraprendere per arrivare alla creatura” mi dice, ammutolendosi poco dopo.

Ho come la sensazione che non mi stia dicendo tutta la verità, di certo parte del mito lo conosce anche lui, non saprebbe così bene del suo nome, altrimenti, ma lo capisco, le mie parole devono averlo sconvolto e non siamo in confidenza, o forse, chissà, non riesce a dire a voce il tumulto che riesco distintamente a percepire nel suo cuore.

Passo i successivi minuti in silenzio, non sapendo come ravvivare il discorso, non sono mai stato un buon oratore, anche se, come Sciamano, mi sto sforzando di essere più aperto con gli altri essere umani, ma non mi riesce ancora bene, con gli animali è molto più facile. E a proposito di animali, Laika mi sta festosamente sbavando sui pantaloni, osservandomi con occhi vivaci e la lingua penzoloni di fuori. Non c’è verso di discostarla da me, non che a me dia fastidio, ma Bobik ci prova, ogni tanto, a convincerla a retrocedere, niente da fare, è testarda. Ad un certo punto, tenendo il volante solo con una mano, prova a spingerla via, ma lei ringhia un poco, mostrando i canini, per poi tornare a posare il muso tra le mie gambe.

“Sei proprio innamorata, eh!” commenta Bobik, accendendo gli abbaglianti, perché le tenebre hanno ormai contaminato i dintorni. Sorrido tra me e me regalandole una veloce carezza sulla testa, lei piega il muso nella mia direzione, mentre, con la zampa, ne chiede altre, ghiotta.

“Attento che non te la schiodi più e… mi è indispensabile per il mio… lavoro!” mi avverte Bobik, scherzoso, ma non posso fare a meno di notare la pausa prima dell’ultima parola.

Torno con lo sguardo sul suo musetto adorante, cercando difficoltosamente le parole (penso forse che me le possa dare lei, che è una cagnolina?!), prima di farmi coraggio e porgli la domanda che mi ronza in testa dall’inizio del viaggio insieme a lui.

“Bobik, quale è il tuo mestiere?”

“Si può dire che sia un crocifero...”

“Un crocifero?” ripeto, convinto di non aver capito bene.

Lui annuisce, qualcosa passa nei suoi occhi, rapido. Una strana luce. Non parla per un altro po’, ed io rispetto questo suo volere.

Ognuno porta la sua croce, qualunque essere vivente sia, non importa se maschio o femmina, vecchio o bambino; quella croce, molto spesso, affonda nella nostra stessa esistenza, ci è indispensabile per vivere, ma per Bobik, tale termine, sembra indicare qualcosa di più.

“Ascolta… sai perché è tristemente famosa la Kolyma?”

“Sì, Stalin e… tutto il resto” accenno, non volendo approfondire l’argomento. Molti di quelli che vivono ancora qui sono reduci dei Gulag, o figli di questi, è un taglio vistoso, incurabile, che si cerca di ovviare affogando nel presente o protraendosi verso il futuro. Una croce, per l’appunto, un supplizio… e Bobik sembra perfettamente intessuto in tutto questo, non voglio quindi ricalcare una piaga che, a viva forza, è stata richiusa alla ben meglio.

“E allora saprai senz’altro che il territorio è disseminato di morti, a volte situati solo a pochi metri dal suolo. Capita che, in estate, con il disgelo sempre maggiore, questi cadaveri senza tomba vengano riportati in superficie...”

Non dico nulla, in attesa che prosegua.

“Ma questo accade in estate, quando il disgelo libera quei poveri diavoli privi di nome, resti di ciò che erano, privati del nome, della dignità, dei vestiti, di qualunque altra cosa… in inverno che succede, invece? Il ghiaccio ricopre tutto, li nasconde alla vista, al punto che o vengono tirati fuori a seguito di qualche perizia per l’oro, sai, il motore è quello, oppure rimangono incastonati nella terra, così, soli...”

Mi permetto di buttare un occhio dietro, sui sedili posteriori, comprendendo finalmente il motivo di così tanti attrezzi da falegnameria. Ora mi è chiaro cosa si sia imposto di fare Bobik, il suo vessillo, il peso che si è imposto. Una nuova fitta al petto mi investe, ma la ricaccio indietro. Essere Sciamano mi permette di percepire tutto intorno a me, persino il dolore, i sentimenti, le vicissitudini degli altri. A volte persino i ricordi. E’ gravoso da portare, in perfetta antitesi con il mio ruolo di Cavaliere di Atena, secondo il quale mi devo ergere sopra le emozioni allo scopo di proteggere la vita.. Qui invece è tutto l’opposto, sono intessuto negli altri, per gli altri, collegato a loro, alla Terra, al Cielo, come se il loro respiro passasse tramite me, come se il battito del mio cuore fosse il mare, le sue onde, o lo stormire delle foglie, o ancora l’ululato di un lupo. Non è sempre facile reggere -e sorreggere- tutto questo...

“Quindi tu… vai in giro a dare una tomba a questi poveri diavoli” sussurro ad un verto punto, in una intonazione un poco incrinata.

“Sì, e Laika mi aiuta, sai? Lei fiuta i morti, ha un olfatto acutissimo, quando li percepisce comincia a scavare, io lo faccio con lei, finché… i resti non tornano a galla. A volte sono cadaveri completi, altra volte solo qualche sparuto osso mangiucchiato… sai anche, immagino, che gli orsi bianchi sono tremendi, qui… Comunque, riporto alla luce quel che rimane di un uomo, o di una donna, o… di un bambino... e scavo un’altra buca, se possibile sotto un albero, o sotto un masso, insomma, un posto che possa piacere e… lo risotterro, ponendoci sopra la croce”

Guardo fuori dal finestrino per non far vedere che i miei occhi si sono fatti lucidi. Persino la mia vista da Sciamano e da Cavaliere non riesce a distinguere bene i dintorni fuori, come se davvero fossimo talmente prossimi alla morte da rendere indistinguibile il resto. In fondo la Kolyma è esattamente così, una terra a pochi centimetri dal baratro, dove la vita si approssima alla fine e, proprio per questo, è più intensa che mai.

“Bobik… perché lo fai? Perché ti sei prefissato questo gravoso compito?” gli chiedo, mascherando alla ben meglio il mio tono strascicato.

Bobik sembra rifletterci un po’ su, le sue labbra tremano e, per due volte, apre la bocca senza riuscire a pronunciare alcunché, le sue mani stringono il volante con intensità.

“Perché… se capitasse a me vorrei che qualcuno facesse con me la stessa cosa, che mi regali una tomba, anche senza nome, ma… pur sempre una tomba, dove riposare finalmente in pace, e… e… - prende una nuova pausa, raschiandosi la gola, prima di proseguire – Quando drizzi una croce, è come se, per un solo istante, smettessi di essere un’entità terrena, diventi come… come uno spirito, un tutt’uno con i morti su cui hai posto la croce, è un po’ come sussurrare al morto che prenderai su di te la sua vita, le sue speranze, il futuro stesso che gli è stato strappato. E’ così, sai? Io non credo più di essere solo Bobik, ormai, ma… molti altri, e finché sarà vivo vivrò anche per loro!”

Avverto un nuovo peso farsi strada nel mio cuore. Sono le parole accorate di Bobik, la sua esistenza, che si è intersecata con quella dei morti su cui ha posato una croce e ora anche con la mia. Per sempre. Le sento quasi dentro di me queste anime irrequiete, ne fanno parte. Prendo un profondo respiro, cercando di riportarmi alla calma, perché il petto mi fa male e non sono ancora abituato a sorreggere così tante vite in me, anche se fa parte dei miei doveri da Sciamano. Attendo un po’ prima di parlare, il tempo necessario per permettermi di comunicare con lui in tono fermo.

“Bobik, per quello che può valere, giacché io sono uno sconosciuto per te… - inizio, gli occhi puntati verso il buio davanti a noi – Sappi che, nei momenti di maggiore sconforto, quando non so se ciò per cui combatto sia giusto, quando mi rendo conto che lo stesso vivere implica il strappare qualcosa agli altri, e brancolo così da solo nel buio… sono uomini come te che mi danno la forza di continuare a perseguire la mia strada, dovunque essa porti!”

 

Ust-Nera, chilometro 1007 della strada della Kolyma, casa di Bobik

 

“...E beviamo alla salute, a Putin, all’amicizia e alla Siberia!” esclama per l’ennesima volta Bobik, alzando il bicchiere e tracannando la vodka contenuta al suo interno in un solo colpo.

Ormai ho perso il conto di quanto abbia bevuto, sarebbe meglio che si fermasse, perché, per quanto abbia sangue russo, nelle vene, anche il suo fisico ha un limite, che sta raggiungendo. E’ ben oltre l’essere alticcio, eppure non accenna a fermarsi.

“Beviamo, Camus!” mi sollecita infatti, passandomi un nuovo bicchiere per invitarmi a proseguire nei festeggiamenti.

Sospiro, ben sapendo che non si rifiuta mai quando un russo offre da bere. Mai. Vale a Pevek come qui, come a Mosca. Non posso quindi oppormi e quindi, come acqua, scende giù anche il quinto bicchiere di vodka. Comincio a percepire un leggero cerchio alla testa, malgrado sia abituato a bere.

Bobik è una brava persona, l’avevo già percepito in macchina, ne ho avuto ulteriore conferma nei suoi discorsi, ma come tutti, qui, ha il male tipico dei russi: l’alcool. Non so se sia per i suoi continui legami con i morti, non so se stia scappando da un passato che lo tormenta, ma tende ad alzare troppo il gomito, i suoi reni ed il suo fegato devono essere costantemente posti sotto pressione e questo deve pesare sulla sua salute. Sembra in effetti più vecchio di quello che è, visto che mi ha detto avere una quarantina d’anni e dimostrarne almeno una cinquantina. Non sono affari miei, certo, ma mi dispiace che una persona straordinaria come lui si riduca così, ad un colabrodo.

Sbatto più volte le palpebre, rendendomi conto di star perdendo a mia volta lucidità, nonché il motivo della mia venuta qui. Nel mio campo visivo appare un braccio che posa un piatto di spiedini di renna sul tavolo.

“G-grazie...” farfuglio, prendendone maldestramente uno e cominciando a masticarlo con lentezza.

La mano che me l'ha posto appartiene a Nana, la nonna di Bobik, colei che dovrebbe sapere di Zima e che tuttavia non ha spicciato parola con me, da quando sono qui, anzi, non ha proprio aperto bocca, ciò mi mette in perpetuo disagio.

Dovrei sbrigarmi, lo so bene, ma le tenebre sono profonde fuori, non posso muovermi prima dell’alba e mi hanno offerto ospitalità, in più…

Mi alzo in piedi, barcollante, appena finito di mangiare tre spiedini, forse anche io ho alzato troppo il gomito, oggi, non riesco quasi più a… eppure in genere ho una resistenza agli alcolici molto più ampia.

Bobik, ancora bello arzillo, mi è subito con il fiato sul collo, mi circonda le spalle in atteggiamento amichevole, in un gesto che io permetto solo a Milo perché siamo in confidenza e amici da una vita. Mi scosto infatti da lui con educazione ma un pizzico d’urgenza, lui mi offre ancora da bere, non posso rifiutare e quindi accetto, dicendogli però che quella è l’ultima, perché sono stanco, e devo partire alle prime luci dell’alba per rimettermi in cammino. Bobik, ubriaco com’è, ciondola, appoggiandosi completamente a me, prima di ravvivarsi di nuovo, dicendo che capisce, di andare a riposarmi, che è stato un piacere fare la mia conoscenza. Io ribatto che per me è stato uguale… credo… perché ho una sorta di blackout totale, nel mio cervello, e mi ritrovo nella camera che è stata adibita per me, senza spiegarmi come abbia fatto. Le gambe sono molli, il cerchio alla testa aumenta invece di diminuire, mi devo sorreggere alla parete laterale, dove chiudo momentaneamente gli occhi.

Rimango lì per un tempo indefinito, almeno finché i miei sensi non mi mettono in allerta nell’avvertire una presenza vicina a me. Spalanco le palpebre, provando a raddrizzarmi, ma rischiando miseramente di finire per terra, se non fossi sorretto da due braccia robuste; troppo robuste per appartenere a…

“Attendevo che facesse effetto… sei mingherlino ma hai una resistenza apprezzabile, sai? Presumo sia merito della tua forza di volontà, non c’è altra spiegazione!”

“Co-cos...” riesco appena a farfugliare, impiegando tutte le mie forze per riconoscerla: è Nana, la nonna di Bobik.

“Sdraiati!”

Mi dice, secca, accompagnandomi su un giaciglio morbido e sistemandomi lì. Il cambio di posizione mi provoca un giramento di testa che mi confonde ancora di più. Serro le palpebre, cercando mentalmente di non agitarmi. Poco dopo viene accesa una lampada ad olio. Contraggo ancora di più gli occhi, tentando di combattere il senso di oppressione che mi ha appena investito, non posso cedere, non voglio cedere, odio essere alla mercé di qualcun altro e… e… perché questo, perché mi ha…

“Perché ti ho drogato, ti chiedi? - finisce la frase lei per me, portando il mio corpo a sussultare – E’ perché solo così puoi raggiungere Zima Siyaniye”

Come lo sa? Glielo ha riferito, Bobik? Come può conoscere la ragione della mia venuta qui?

“Io posso conoscere molto, con un unico sguardo, è stato così anche per te, sei uno Sciamano Guaritore molto prossimo all’essere un Evocatore, ma sei tu che rifiuti quest’ultimo passaggio, vero?”

Vorrei potermi muovere liberamente, chiedere delucidazioni, ma non avverto quasi più il mio corpo, solo la testa è ben salda, rifiutandosi di cedere. Il cuore mi batte all’impazzata nel petto, lo sento quasi in gola, mi toglie il respiro.

“Calmati, non ti fa bene reagire così!” mi dice con voce melodica lei, girandomi il volto nella sua direzione.

Il mio braccio destro è a penzoloni, mollo, avverto un tartufo umido picchiare più volte sul palmo, seguito poi da un pelo ispido che si struscia su di me.

“L-Laika…” balbetto, percependola tramite il contatto, riaprendo difficoltosamente gli occhi. Poco dopo il suo musetto marroncino fa capolinea nel mio campo visivo, posandosi poi sul mio petto. Respiro con maggior regolarità, ma continuo a non riuscire a muovermi.

“Laika ti aiuterà a rilassarti… - mi avverte Nonna Nana, mentre si permette di accarezzarmi i capelli con le mani nodose. Mi irrigidisco di riflesso – Non sembra tu sia abituato a scioglierti, sei molto turbato alla sola idea che qualcuno possa toccarti, figurarsi farsi possedere dagli Eoni, per questo non vuoi diventare Evocatore, per questo ti sei fermato prima?”

Vorrei farle notare che è un po’ difficile distendersi in una situazione simile, sono sdraiato su un giaciglio, senza possibilità di muovermi, neanche un dito, il mio addome, la zona che considero più fragile, è scoperto, perché Elisey mi ha voluto dare questo stra-maledettissimo costume e, in ultimo, mi ritrovo con una persona che non conosco e che però sa tutto di me, potendo disporre di me come meglio crede.

“Se la vivi così, immagino tu abbia tutte le ragioni per rimanere teso. Cercherò di essere più breve e delicata possibile, allora, ma dipenderà da te...” mi dice ancora lei, totalmente serafica, leggendomi nella mente, mentre con una mano scende proprio nella zona che più mi da problemi. Avverto il mantello sollevarsi ulteriormente, scoprendomi l’intero addome fin quasi allo sterno.

“N-NO!” riesco ad oppormi nell’esatto momento in cui sento le sue mani sfiorarmi la pelle. Un movimento repentino, il mio, la mia schiena si piega nel goffo tentativo di alzarmi e svicolare via, ma le forze mi mancano e sono costretto a ricadere tra le coperte, il fiato corto, mentre le sue dita riprendono da dove si erano fermate, solcandomi il ventre nudo per poi fermarsi sul fianco destro, dove formano dei movimenti ondulatori sempre uguali a sé stessi. Il mio respiro accelera di nuovo, il corpo inizia a tremare, a nulla valgono gli uggioli di Laika che, credo, provi a farmi coraggio, vorrei alzarmi e allontanarmi da lei, ma so di non averne la facoltà, e questo mi fa sentire male al solo pensarci.

“Purtroppo per te, devo dirti che solo gli Sciamani Evocatori possono arrivare al cospetto di Zima”

“Mi è stato detto che non ne esistono più...”

“E’ quasi completamente corretto, neanche io lo sono, sono semplicemente una Sciamana Gialla, né più né meno...”

“Io devo salvare quei bambini...” ripeto, deciso, riuscendo finalmente a riaprire gli occhi, che sono comunque feriti dalla luce, quella che, sbatto le palpebre, incredulo, vedo sgorgare dal palmo di Nana, posato sopra il mio fianco destro.

“Lo so, per questo sto ricreando un bypass sul tuo corpo, che ti permetta di giungere a lei non solo con la tua forma spirituale ma anche con quella fisica” mi spiega, nell’esatto momento in cui avverto un bruciore netto e invasivo proprio su quella zona, come se qualcosa mi tagliasse la pelle. Non strepito, non urlo, ma la sensazione è netta, mi sembra quasi di essere perforato da qualcosa di pungente e affilato. Ho appena le energie sufficienti per voltare la testa di lato, prima che la sua mano, ultimati i preparativi, non si stacchi dal mio corpo.

“La tua anima era già precedentemente collegata a Zima, ora lo è anche la tua corporeità...”

Non capisco bene quello che voglia intendere, vorrei alzarmi, piegarmi su me stesso, perché il dolore che avverto è terribile, ma una stanchezza colossale mi investe, mi sento quasi svuotato, prosciugato, ancora più in balia degli eventi rispetto a prima. Occorre uno sforzo disperato solo per mantenermi vigile.

La sento di nuovo su di me, le sue dita sostano sul mio ombelico per un tempo imprecisato, procurandomi una spiacevolissima sensazione di profanazione, prima di passare oltre.

“Che Fulcro Vitale buffo, che hai, ha davvero una forma insolita!” commenta con naturalezza, prima di sistemarmi ordinatamente il mantello fin dove arriva. Io provo l’impulso di coprirmi quella zona con una mano, ma gli ordini del mio cervello sono fiacchi, non sembrano neanche raggiungere il braccio, che sussulta appena, non si alza.

“E ora… rilassati, chiudi gli occhi e preparati per il balzo, devi slegare la tua mente dalla tua fisicità, sei Sciamano, dovresti sapere come fare. Ah, ti avverto, aggrappati a qualcosa di bello, di veramente bello, per te, perché...”

“Ascolta… - la fermo, desideroso di sapere una verità prima di abbandonarmi alle tenebre sempre più lusinghiere – Tu sembri conoscere molto bene la creatura, puoi dirmi se Zima Siyaniye ha davvero distrutto Bluegrad?”

“Lo ha fatto, sì...” mi risponde lei, in apparente tono neutro, nonostante le sue pupille, un poco ottemperate dall’età, tremino un poco.

“Perché? E’ davvero un essere malvagio?”

“Questo lo scoprirai da te, non manca molto, ragazzo… chiudi gli occhi! - mi dice, stavolta con voce premurosa, passandomi due dita sopra le palpebre per farmele chiudere – Tra poco sarai al cospetto della creatura che cerchi...”

Faccio quindi per rilassarmi alla ben meglio, ricacciando indietro i pensieri, i timori, persino la mia stessa essenza, che si miscela con qualcosa di grande, di totale, come se tutto il mio essere ne fosse collegato. Riesco finalmente a muovere difficoltosamente una mano, che si posa finalmente sopra la pancia, facendomi percepire il mio respiro, nuovamente un poco accelerato per l’agitazione.

“Ah, ancora un avvertimento, l’ultimo… - odo appena la voce di Nana, la sua mano è di nuovo tra i miei capelli, me li accarezza, stavolta regalandomi un poco più di serenità – Sentirai un fastidioso strappo all’ombelico, nel momento del grande balzo, soprattutto per te potrebbe essere disagevole e un poco doloroso, aggrappati a qualcosa di bello, ad un ricordo, a qualcuno...”

“Mmh, Isaac e Hyoga...” farfuglio, mentre i loro volti ancora un poco bambineschi si affacciano alla mia mente, portando un sorriso tra le mie labbra.

“Ci sei proprio legato, eh, a quei due...”

“Sono… la mia vita!” ammetto, meravigliandomi un poco nel rendermi conto che ho proferito con naturalezza una verità che, invece, geloso che possa essere carpita, celerei sempre nel cuore.

“Lo so, è la gioia di un maestro, lo capisco bene, anche per Fyodor tu eri… tutto!”

“Co-come?!”

I contorni intorno a me perdono conformità, i miei sensi si affievoliscono, i movimenti del mio torace sono perfettamente cadenzati con il mio respiro, non sento più nulla, eppure qualcosa mi preme sulla fronte, qualcosa di delicato, come i petali una margherita, sono le labbra di Nana, le riesco a percepire, mi rassicurano. Emanano lo stesso, delicato, profumo, di quelle del mio maestro. Vorrei chiederle chi è realmente, come faccia a conoscerlo, che legame avesse lei con lui, ma tutto va sfumandosi, come in un sogno. Perdo definitivamente coscienza…

 

Il ruscello dello Sciamano, chilometro 1459 della strada della Kolyma, 5 febbraio 2008

 

Tossisco più volte, ripetutamente, mentre un odore pungente, perforante, mi investe le narici. Mi sento quasi mancare l’ossigeno nei polmoni nel costringermi ad alzarmi faticosamente in piedi. Le gambe non mi reggono bene, ma non mi do per vinto e poco dopo riesco finalmente nel mio intento, anche se mi gira nuovamente la testa.

“Solfuro di idrogeno...” dico tra me e me, riconoscendo il classico odore di uova marce proprio di questo idracido.

Mi guardo confusamente intorno, stordito, mi bruciano gli occhi, quasi me li sento lacrimare… in che concentrazione è qui, lo zolfo? A giudicare dalla spessa nebbiolina che permea questo luogo potrebbero essere dosi quasi letali per ogni sventurato essere umano che capiti qui e sosti per più tempo del necessario. Un Cavaliere non farebbe differenza, uno Sciamano, forse, un poco sì, ma, sul lungo andare, avrebbe comunque grosse ripercussioni.

Un altro sciame di colpi di tosse… quasi cado a terra, la gamba destra si piega, mentre la sinistra si divarica per mantenere l’equilibrio.

Da quanto sono qui? Nana mi ha fatto chiudere gli occhi e poi… un buco nero di nulla! Non riesco a quantificare il tempo trascorso tra l’ultimo ricordo stampato nella mia mente e il risveglio.

Deve essere primo mattino, lo capisco dalla debole luce che filtra in questa radura. Odo un leggero suono d’acqua, nelle vicinanze, mentre davanti a me vi è una grande grotta dalla quale scaturisce questo vapore acqueo che puzza di uova marce. Sta diventando insopportabile, persino per me.

Faccio per accennare un passo, ma il movimento mi provoca istantaneamente un bruciore al fianco destro, quasi mi fa ricadere per terra. Divarico entrambe le gambe per non crollare, tastandomi la zona con la mano. Il dolore invece che diminuire aumenta, do un’occhiata, scostandomi il mantello per vedere meglio la ragione di un tale male. Sul fianco destro, all’altezza dell’ombelico, forse un poco più in su, esattamente dove Nana aveva tracciato quei segni ondulatori, è comparso una sorta di tatuaggio che, proprio in questo momento, si sta illuminando, quasi come se si trattasse di un richiamo. Lo ricalco con l’indice e il medio, resistendo al dolore immane che mi provoca questo gesto. Sembrano… due grosse gocce di rugiada che si intersecano l’una con l’altra, rassomiglianti quasi, per come sono poste, alla stilizzazione di un cuore. Che significa? Cosa mai…?

Non so come tu sia giunto qui, ragazzo… ma ti consiglio di andartene! Questo posto non fa per te, qui la concentrazione di acido solfidrico è fatale anche per un Guaritore come te…

Sussulto nell’avvertire una voce nella mia testa, mi raggiunge direttamente tramite telepatia. Non c’è nessuno intorno a me, ma è come se il suo timbro vocale sbattesse nelle pareti del mio cervello. Il suo è un tono acre, venefico, esattamente come il vapore acqueo qui intorno, ma avverto anche una nota di sofferenza, profonda, tremenda, incurabile.

“Sei Zima? Zima Siyaniye?” tento, guardandomi nervosamente nei dintorni, come a cercare di capire da dove la creatura possa apparire.

Un tempo avevo molti nomi, quell’appellativo mi riempie il cuore di malinconia, ma… è tardi. Non sono più chi cerchi, il tuo viaggio è stato inutile, e ora vattene, ragazzo, torna da dove sei venuto e lasciami in pace.

“Non lo farò, non prima di farti spezzare la maledizione...”

La maledizione?

“Quella che hai causato ai tuoi figli; ai figli della Siberia!”

Ah, quella maledizione…

Silenzio, non la sento più parlare, il che mi spinge ad alzare il tono della mia voce di due tacche, sforzandomi comunque di mantenere la calma, sebbene le condizioni di Avrora e degli altri bambini mi facciano infuriare.

“Devi spezzare il ciclo, Zima, stai portando alla morte creature innocenti! Io sono qui per fermarti, non voglio farti del male, ma sarò costretto a farlo, se non annullerai l’endemia!”

Non posso…

“Ma hai distrutto tu Bluegrad, hai maledetto tu i figli della...”

Bluegrad… non parlare di cose che non sai, ragazzo! C’eri tu più di 250 anni fa?! No! Sai come sono andate le cose? No! Ma a voi esseri umani piace credere alle cose ‘per sentito dire’. Non conoscete niente, ma avete la presunzione di giudicare tutto e tutti dal piedistallo che vi siete creati! Siete così boriosi… più passano i secoli più peggiorate, anziché migliorare. Non sapete cosa siano i limiti, del resto, li avete ormai travalicati tutti.

“Io sono qui… per scoprire la verità sul tuo conto! Mi hanno detto che sei malvagia, Zima, io non lo voglio credere, deve esserci una spiegazione alle tue azioni. Raccontami quel che successe per davvero e, fatto questo, salva quei piccoli insieme a me, in modo tale che il tuo onore venga ristabilito!” esclamo con forza, sebbene lo sforzo mi provochi un altro sciame di colpi di tosse. Sta davvero diventando difficile respirare, l’aria che mi entra nei polmoni mi provoca fitte, ma non posso desistere, non qui: sono alla meta finale del mio viaggio.

I tuoi occhi sono limpidi, sei sincero, ma… non posso fidarmi. Gli esseri umani, che prima amavo tanto, mi hanno tradito e io, perdendo il controllo, ho tradito loro. Ora nessuno riesce più a sentire la mia voce…

“Lo farò io per loro, ascolterò la tua voce! Mostrati a me, se puoi, affinché io ti possa guardare negli occhi e capire, perché tu non sei malvagia, Zima!”

Silenzio, per l’ennesima volta. Non so da dove mi venga questa consapevolezza, ma è come se la avvertissi in me, come verità legata alla mia anima. Ho comunque bisogno di vederla, per certificare se il mio sentore sia vero oppure no. Passano secondi, poi minuti, in cui tutto sembra bloccarsi. Temo di aver fatto un passo falso, temo di averla fatta fuggire via, ma poco dopo odo uno zampettare nei dintorni, che diventa poi uno scricchiolio sul permafrost. Finalmente vedo un’ombra uscire dalla grotta, ancora non riesco a distinguerla bene, complice il vapore acqueo, la posso solo percepire con gli altri sensi, si sta approcciando nella mia direzione, diradando la spessa nebbiolina che permeava i dintorni.

Sgrano gli occhi, mentre la creatura si ferma a breve distanza da me, fissandomi con i profondi, e tristi, occhi color marrone spento, che, forse, un tempo, vibravano di rossi bagliori gremiti di vita.

E’ come sosteneva Hyoga… la descrizione generale è esattamente come quella che gli fece sua madre, ovvero un canide di grosse dimensioni, con una criniera fulva, in perenne movimento, continuamente smossa dai venti del Nord e con il manto di un celeste intenso… un tempo forse!

Ora, in verità, sebbene questi connotati siano ancora presenti in lei, si percepiscono appena, perché tutto il suo corpo è appesantito da una spessa sostanza viscosa e nera, che gocciola per terra formando una pozza sempre più estesa. Rabbrividisco.

“Petrolio… no, liquami! Liquami delle industrie!” arrivo infine alla conclusione, sussultando.

Non è solo Zima ad aver contaminato l’uomo per motivi a me sconosciuti, è anche e, soprattutto, l’inverso.

Mi si stringe il cuore a vedermela così, in una manifestazione così patetica e piegata dal dolore. E’ lampante che la creatura stia soffrendo, da un po’, un bel po’, forse addirittura secoli, dall’avvento della Rivoluzione Industriale, in poi, forse… è avvelenata, soffre delle conseguenze di una brutta intossicazione, quella che l’uomo, per nome del progresso, ha riversato nella natura, plasmandola e distruggendola con il suo Ego smisurato.

Provo ad avvicinare una mano al suo muso, ma lei mi ringhia sommessamente, scrollando la testa come ad avvertirmi che non vuole essere toccata. Si è mostrata a me, fidandosi, ma ha paura.

Se hai capito la mia situazione, ti consiglio di andartene, non sono più in grado di purificare nulla, ho perso quella dote, e tu… tu, se continuerai a sostare qui, rimedierai dei grossi danni da avvelenamento...

Ha ragione, il mio respiro è sempre più dispnoico, anche il battito del cuore sta diventando irregolare, e ho un cerchio alla testa sempre più persistente.

Ma non posso cedere!

Ora che me la vedo qui, capisco una volta in più che non c’è nulla di malvagio in lei, nel profondo. Deve aver perso il controllo, in qualche modo, per qualche ragione, non può più fare alcunché, nelle sue attuali condizioni. Sono venuto ad implorare il suo intervento, ma, in verità, è lei ad avere un disperato bisogno di aiuto.

“Non intendo andarmene, Zima… stai soffrendo, sono qui per aiutarti, e poi, insieme, salveremo quei bambini, spezzando il ciclo una volta per tutte”

Che insistente! Vattene, o sarò costretta a prendere provvedimenti! Hai disturbato la mia quiete e hai capito che non posso farci niente, lasciami in pace, o…

“Non lo farò, no, non ti lascerò più da sola, perché...”

Non ho il tempo di finire la frase, una potente aria congelante mi colpisce l’addome, proiettandomi all’indietro fino a collidere contro un masso di grande dimensioni. La mia schiena sbatte violentemente, il mio respiro, già difficoltoso, si mozza nei polmoni, ma i miei piedi non toccano terra, rimangono sospesi, perché c’è una gigantesca forza telecinetica che mi tiene sollevato, come se fossi legato.

“...sei rimasta sola anche fin troppo a lungo, anf!” riesco solo a biascicare, socchiudendo gli occhi e reclinando la testa in avanti, del tutto incapace di sostenerla.

Il veleno mi sta uccidendo, lentamente, togliendomi le forze e inibendo la respirazione mitocondriale, so bene come agisce. Contraggo le palpebre, sforzandomi di mantenermi vigile. Zima si è nuovamente avvicinata a me e ora mi scruta dal basso verso l’alto con quei suoi occhi marroni, che ora mi sembrano quasi rossi, come un tempo…

I suoi pensieri giungono a me come telepatia, la sua bocca non si muove, ma ha un’espressione straordinariamente umana, per essere un animale.

Perché sei così ottuso, ragazzo? Stai morendo, te ne rendi conto? C’è un motivo per cui io mi sia rifugiata qui, questo era un luogo sacro per i pagani, per gli Sciamani, inaccessibile ai più. Mi sono nascosta qui per recarvi meno dolore possibile. E’ vero, ho distrutto io Bluegrad, ho lanciato io la maledizione sul vostro popolo, m-ma… non volevo, davvero non volevo, ne ho perso il controllo, ero folle di rabbia, dovevo fargliela pagare in qualche modo, non avevo idea di quello che avrei causato. Non… VOLEVO! E ora, in queste condizioni, non c’è più nulla che possa fare. Un tempo purificavo l’acqua… ora la maledizione ha avvolto anche me, è esterna al mio volere. Non posso spezzarla! Nessuno crede più in me, ho perso fiducia nelle mie capacità.

“Va tutto bene, lo so… l’ho capito durante, il viaggio, anf. Io… io credo in te, Zima! - le dico, provando a sorriderle, in tono più chiaro possibile, anche se mi è sempre più difficile – Eri furibonda e hai agito umanamente, con l’ira, volevi distruggere, distruggere e ancora distruggere, quando ti sei resa conto di quello che stavi facendo, ti sei fermata, ma… era troppo tardi! Il Patto tra te e gli uomini era stato spezzato, inequivocabilmente infangato, avresti voluto ricrearne un altro, un’altra, solenne, alleanza, ma… più nessuno era in grado di ascoltarti a quel punto, la tua voce non poteva più raggiungerli e… sei fuggita via. Via, via… lontana dagli uomini, che a loro volta si sono allontanati dalla natura. I liquami, gli scarichi, le industrie hanno fatto il resto. Tu ci hai provato, con tutte le tue forze, a purificare quanto potevi, ma eri sola, le tue energie si sono esaurite, hai solo potuto prendere su di te quanto rimaneva della maledizione, tentando disperatamente di prolungare il ciclo, perché da sola non hai più i poteri di cancellare l’endemia...”

Tu… come sai questo? Come riesci a leggere così bene nel mio cuore?

“Sinceramente, anf? Non lo so… lo sento, lo percepisco, Z-Zima… - le dico, non riuscendo a mascherare una smorfia di dolore – E voglio aiutarti! Anf, anf, per favore, liberami e...”

Vuoi salvarmi?! Salvare… me?!

Sembra incredula, lo sono anche io. Non mi è mai capitato di sentire, senza sforzo alcuno, i battiti della vita di qualcuno, come se fossero i miei, è una sensazione che mi da una vertigine di paura, quel senso di vuoto sotto i piedi che si sente fin dentro il petto, non potendo far altro che tremare. Questa creatura è legata a me, soffre, è incompresa, proprio come me…

“La-lascia che ti aiuti, f-fatti toccare, andrà tutto bene. Insieme… troveremo un modo per salvare quei bambini. Non sei più sola, Zima… non più!”

Perché ti importa così tanto di me?! Tu dovresti…

Ma si blocca, una strana luce negli occhi, che si spalancano nell’individuare un dettaglio che prima molto probabilmente non aveva notato. La vedo fremere, mentre tento di indovinare la direzione del suo sguardo, che ora mi sembra ancora più umano. Che stia osservando… gli orecchini che mi ha dato Elisey?!

Quelle piume… sei… sei TU! Quel… quel ragazzo!

Non capisco cosa intenda per ‘quel ragazzo’, ma qualcosa è di nuovo cambiato nei suoi occhi, sempre più stanchi, ma lucidi, come di ricordo lontano appena riaffiorato. La vedo approcciarsi a me, avvicinando il muso al mio addome, annusandomelo con cura, prima di darci delle affettuose musate. Avverto il suo tartufo umido sulla mia pelle, ne sento il respiro appena tiepido, In particolare si strofina sul tatuaggio che mi ha fatto Nana sul fianco destro, quelle due gocce di rugiada intersecate l’un l’altra, che proprio ora hanno smesso di emanare luce propria e che avverto simboleggino il legame tra me e lei. Anche il bruciore ha smesso di darmi fastidio.

Chiudo gli occhi, stremato, faccio sempre più fatica a respirare, ma nonostante questo la mia mano sinistra, prima bloccata, riesce finalmente a muoversi nella sua direzione. Le accarezzo la linea del muso, soffermandomi poi sulla criniera, che è impiastricciata dai liquami, ma non me ne curo. Devo pulirla, devo purificarla, in qualche modo, sta soffrendo molto…

“Stai tranquilla… - biascico a fatica, mentre lei si avvicina a me, al mio petto, e il mio viso si posa sul suo pelo, che, nonostante tutto, profuma ancora di fresco ed è morbido – Credo in te, Zima, adesso siamo in due...” sussurro, in tono sempre più fievole. Sto… perdendo coscienza?

Devo condurti via da qui, Camus… se già pesantemente intossicato, se continuerai a respirare questo vapore acqueo, nemmeno tu potrai…

“STAI LONTANO DA LUI, MALEDETTO!”

Trasalisco a quell’urlo ricolmo d’ira, riconoscendone il timbro vocale inconfondibile. Spalanco gli occhi al limite dell’umano possibile, mentre un’aria congelante spaventosamente forte colpisce il masso poco sotto i miei piedi, laddove prima c’era Zima, la quale, con un agile scatto, ringhiando si è allontanata bruscamente da me. Mi sento cadere a terra, non ho forze per oppormi, mi accascio, annaspando nella difficoltosa ricerca di ossigeno.

“Maestro!!!” una seconda voce, ugualmente inconfondibile come la prima, di nuovo mi sento fremere, mentre tento disperatamente di alzarmi almeno al sedere, ma i miei movimenti vanno a vuoto.

Voci intorno a me, confusione di luci e colori che non capisco siano causate dal solfuro di idrogeno o da altro, ma una cosa mi è chiara, i cosmi che avverto bruciare nelle vicinanze non possono essere che i loro.

Qualcuno mi prende tra le braccia, percepisco la sua mano solcarmi il fianco destro, come a sincerarsi delle mie condizioni, prima di soffermarsi sul tatuaggio, premendomelo leggermente per capire di cosa si tratti. Mi scappa un gemito di dolore, il bruciore ha ricominciato a farsi sentire, persino più netto di prima. Quel qualcuno che mi sta tastando con mille e più premure possibili, mi richiama, sempre più preoccupato. Alla fine riesco difficoltosamente ad articolare una frase di senso compiuto, sebbene la mia coscienza va svanendosi:

“C-cosa fate… qui… Isaac… Hyoga?!”

 

 

* * *

 

 

 

“Hyoga! Come sta?!”

Isaac non poteva correre da lui come avrebbe desiderato e come si era imposto di non fare, un tale comportamento avrebbe reso tutti e tre, anzi, quattro vulnerabili, ma il cuore gli si era comunque fatto piccolo piccolo per l’apprensione. Fronteggiava la belva, che mostrava i denti e ringhiava, non gli avrebbe più permesso di avvicinarsi al suo maestro, non più.

Hyoga sorreggeva Camus, che aveva perso i sensi dopo averli chiamati debolmente, tra le braccia. Non sembrava ferito, a parte quel simbolo strano che gli arrossava la pelle del fianco destro, ma aveva le palpitazioni ed era pallido come un cencio. La sua mano, tremante, si mosse sul suo polso per contare di nuovo i battiti, mentre il piccolo Jacob, a poca distanza da lui continuava a chiamarlo in tono crescente, provando a scrollarlo.

“Respira male, Isaac… - riuscì a dire il biondo, spaventato a morte dalle sue condizioni. Gli venne da tossire, accorgendosi nitidamente di star respirando zolfo – Deve essersi intossicato per i fumi, non… non so come fare...”

“Maledizione… - sibilò tra i denti Isaac, apprestandosi ad attaccare l’orrida bestia, che lo fissava con gli occhi iniettati di sangue – Pagherai con la vita questo affronto!” esclamò intimidatorio, apprestandosi ad agire.

La creatura era tesa, le zampe piegate come a voler balzare addosso al ragazzo, i canini appuntiti ben in mostra.

“Grrrrr…. ROAAAAAAR!” ringhiò, spalancando le fauci e cacciando un latrato di avvertimento, talmente forte da far vibrare tutti i dintorni.

Isaac si aspettava un attacco di qualche tipo, era pronto a difendersi e ad offendere con il doppio della forza, ma la creatura, dopo un altro brontolio sommesso, fece dietrofront, cercando di fuggire nella grotta, lasciandosi indietro delle pozze di liquame.

“Eh no, bella mia, non così in fretta!” lo fermò immediatamente Isaac, congelando abilmente l’accesso della caverna con un unico, ben contenuto, movimento del braccio destro. La creatura fu presa in contropiede, indietreggiò, non sapendo bene come fare, prima di voltarsi verso di lui e ringhiare ancora una volta, furente.

“Ora pensi di fuggire?! - la canzonò Isaac, un non so che di maligno sul volto – Non te lo permetterò, per te è la fine!”

“Grrrrrrr… anf, anf!” sibilò ancora la bestia, correndogli poi addosso. Isaac era pronto a riceverla, a difendere con le unghie e con i denti ciò per cui credeva, ma il canide lo meravigliò ancora, balzando sopra di lui e scappando dall’altro lato verso il bosco.

Perché non mi attacca? Ha davvero senso chiedermelo? Elisey ha detto che è un essere malvagio, ha causato l’endemia e non ha esitato a colpire il maestro… Camus!

Nell’attimo di esitazione se seguirla o no, lo sguardo di Isaac si posò sul corpo dell’amato mentore, una fitta al cuore lo investì. Camus era tra le braccia di Hyoga, la bocca semi-aperta alla ricerca di ossigeno, il respiro mozzo, il volto pallido e sudato, uno strano segno sul fianco destro, che si era arrossato e dava l’idea di far male. Non ci mise molto a riprendersi a causa di quella visione, si riscosse, avvertendo distintamente la rabbia invadergli il giovane e inesperto cuore. Fremette. L’avrebbe pagata per averlo ridotto così. Nessuna pietà.

“Isaac...” provò a richiamarlo Hyoga, vedendo che si apprestava a seguire la creatura. Voleva fermarlo, ma il fratello non gli permise di finire la frase.

“Abbi cura del Maestro Camus, amico mio, fermerò io Zima!” lo avvertì, caparbio e un poco incosciente.

“No, Isaac, aspetta...” ma il compagno di addestramento era già partito in quarta all’inseguimento della creatura, una furia cieca lo guidava.

Pedinò la bestia pedissequamente, tenendola sempre più sotto torchio. Lei era veloce, ma lui poteva osare di più, poiché era un allievo di Camus, un Cavaliere di Atena, ed uno Sciamano, non sussisteva un limite invalicabile, per lui, ora che finalmente si trovava su un campo di battaglia se ne rendeva ancora più conto, di quanto fosse migliorato e diventato forte in quell’ultimo periodo, si inorgoglì: quello era il frutto di 6 anni di addestramento con l’uomo più puro e giusto che il Santuario avesse mai ospitato e lui doveva dimostrare di essere alla sua altezza.

Finalmente riuscì a spingere Zima in un vicolo cieco, le lanciò un colpo di avvertimento, nelle zampe, facendola cadere per terra e picchiare il muso contro il suolo. La creatura dava segni di stanchezza, si sforzò di alzarsi, ma Isaac le fu immediatamente sopra, le strinse il busto con le gambe, a cavalcioni su lei, costringendola in una morsa soffocante. Provò a scrollarselo di dosso, ma le forze non glielo concessero, incespicò nelle sue stesse zampe e cadde di nuovo per terra, ansante, chiuse gli occhi, sembrava vinta.

Isaac la teneva ferma per il muso, bloccandola sul terreno, apprestandosi a infliggerle un colpo letale. La vittoria sembrava ad un passo, un solo movimento e…

Eppure non reagisce, avrebbe potuto colpirmi, ma preferisce scappare… perché?

La fastidiosa vocina continuava a mordergli la coscienza, la ricacciò indietro a forza, nessuna esitazione sul campo di battaglia, mai, era questo che aveva appreso da Camus!

Nessuna esitazione!

“Certo che emani un olezzo degno della malignità che rappresenti… se distruggo te anche i bambini staranno meglio, no? Sì, quei bambini che hai condannato a morire tra mille sofferenze, li ricordi? Chissà quanti ne hai ammazzati prima, chissà quanti ne continuerai ad ammazzare, se nessuno ti fermerà! Ebbene, io interromperò il ciclo, Zima, è così che ti chiami, vero? - la interrogò, alzando il pugno destro per prepararsi a sferrare quel colpo da così breve distanza – Per te è l’epilogo, DIAMOND...”

La creatura sembrava vinta, ma in quell’esatto momento riaprì gli occhi, iniettati di sangue, ululando ferocemente tutta la rabbia e la frustrazione che stava provando.

Il suo potere tracimò immediatamente gli argini. Prima che Isaac se ne rendesse nitidamente conto, fu gettato indietro, la spalla sinistra sbatté con violenza contro qualcosa. Il suono che ne derivò, unito ad un dolore repentino e acuto, fu semplicemente tremendo per il giovane aspirante Cavaliere.

Nel frattempo, più a valle, Camus stava lentamente riprendendo coscienza. Contrasse più volte le palpebre, percependo due presenze vicino a lui. Aveva riconosciuto subito i cosmi dei suoi allievi, ma muoversi si era fatto difficile, così come la respirazione. Solo da poco l’ossigeno era pienamente tornato, gonfiandogli i polmoni e alleggerendo così il cerchio alla testa.

“Hyoga! Vieni, presto, si sta muovendo!” la vocetta squillante di Jacob, tutto trafelato al suo fianco, lo fece riscuotere debolmente.

Gli occhioni verdi del piccolo, ricolmi di una nuova speranza, saettarono verso l’amico, mentre, con le manine, si stringeva davanti alla bocca il fazzoletto che gli era stato dato da Hyoga come tampone per ripararsi le vie respiratorie.

Per il biondo, in piedi a poca distanza da loro, con il braccio ancora protratto nel lanciare la Diamond Dust per dissipare quella nebbia venefica, fu una gioia al solo udirlo. Gli si inumidirono gli occhi per il sollievo, mentre, con voce tremante e passo traballante, tornava ad accucciarsi vicino a Camus, prendendogli dolcemente la mano e sfiorandogli la fronte con le dita.

“Maestro! Forza, siamo qui, risvegliatevi!”

Camus contrasse ancora una volta le palpebre, poi lentamente i suoi occhi si riaprirono. Sembrava stanco, sfinito, quasi vacuo, ma vivo, il cuore del biondo accelerò in un istante, la mano gli si strinse in quella del maestro, che in quel momento, ricambiava difficoltosamente il gesto.

“Hyo… Hyo-ga!” balbettò debolmente, come a cercare di metterlo a fuoco, sforzo che gli risultò spossante. Una volta completata l’operazione, la pupilla traballò appena nel riconoscerlo. Scattò a sedersi, prendendo l’allievo bruscamente per le spalle e facendo spaventare Jacob, che non aspettandosi una tale reazione, sussultò.

Il momento tenero era già finito, la tempesta sarebbe arrivata, il giovane lo sapeva bene, ma…

“HYOGA!!! Che accidenti ci fate qui?! Cosa diavolo vi frulla per la testa, sconsiderati che non siete altro?!”

Ecco, il tornado forza 10 si era abbattuto, il ragazzo sperava di condividere quel fardello con il fratello di mille avventure, ma era invece lì, solo, con il maestro a scoppiargli addosso. Sospirò, ricercando le parole per spiegarsi, nonostante la difficoltà ad esprimersi.

“RISPONDIMI, HYOGA! Cosa diavolo avete per la testa?!? Come siete giunti qui?!?”

Le dita del maestro si strinsero sulle sue spalle, quasi arpionandolo con foga, l’allievo trattenne un mormorio sommesso, rispondendo invece con una calma e una flemma tale da meravigliare anche lui.

“Eravamo preoccupati per voi, Maestro...”

“Lo ben so! Ma vi ho dato direttive precise di continuare con gli allenamenti! Un comportamento simile me lo aspetto da Isaac, non certo da te, che diavolo ti salta in testa?!”

“Conosco la Kolyma e i suoi pericoli… non riuscivo a stare tranquillo dove ero, e poi Elisey...”

“Elisey?! Vi ha detto lui dove…?”

“Sì, Maestro...”

“E voi ovviamente vi siete buttati in questa sciocca impresa, senza ragionare, mi sembra giusto!”

“Elisey ci ha permesso di giungere qui, dopodiché Isaac ha individuato il vostro cosmo carico di pena, ci siamo quindi precipitati qui, il resto lo intuite...”

Qualcosa cambiò nelle pupille di Camus, che vennero scosse da una nuova, forte, luce. Terribile e inquietante al tempo stesso.

“Quindi è stato lui a… farvi arrivare qui!”

“Sì, Mae...”

Non ebbe il tempo di finire la frase che Camus si alzò in piedi, un poco traballante, borbottando sinistramente un: “Io quello lo ammazzo...” che ben rendeva l’idea di quanto fosse furibondo in quel momento.

Tuttavia, una volta raddrizzata completamente la schiena, un capogiro lo privò istantaneamente dell’equilibrio, costringendo Hyoga a sorreggerlo da sotto le ascelle.

“Maestro Camus, siete ancora indebolito dall’intossicazione da acido solfidrico, non dovreste fare sforzi!”

“Non ti angustiare, Hyoga! Ora sono più preoccupato per te e… uh? - il suo sguardo corse a Jacob, poi alla radura, ben visibile, una volta dissipata la nebbia, e poi ancora al bambino – Cosa… cosa diavolo ci fa Jacob qui?! Dov’è Isaac?!”

Hyoga sospirò, radunando tutta la sua pazienza per essersi trovato da solo a dare tutte le spiegazioni che sperava di dividere con Isaac.

“Jacob è un figlio della Siberia, sua sorella è malata, ha voluto seguirci e...”

“Mi pigli per il culo?! - sibilò Camus, in tono paurosamente strascicato. Non era di certo un buon segno, non lo era mai – Quindi voi due non solo mi avete seguito in una missione suicida, ignorando le mie direttive, ma pure vi siete portati dietro un bambino di soli 4 anni?! Cosa vi ho insegnato in tutto questo tempo?! Rispondimi, Hyoga! Non vi ho forse detto di mantenere sempre, sempre, il sangue freddo?! Di non lasciarvi mai imbrigliare dalle emozioni?!”

“Sì, Maestro!”

“E voi lo avete fatto, quest’oggi?”

“Decisamente no...”

“Eppure… eppure... - ringhiò fuori di sé dalla rabbia, prima di rendersi conto che, così facendo, infangava lui per primo i suoi stessi insegnamenti. Si costrinse a ricomporsi, sebbene la presenza degli allievi lì lo destabilizzasse non poco – Una volta finito qui faremo i conti, una bella punizione non ve la toglie nessuno, ragazzo!”

C’era da aspettarselo, non se ne meravigliò. Sia lui che Isaac erano preparati a quella eventualità, avendo scelto consapevolmente di recarsi in loco per sostenerlo, anche se a ben vedere -Hyoga sospirò- non avevano fatto altro che peggiorare il tutto.

Non c’era un istante da perdere, il ragazzo biondo aveva sentito la sua voce, sua di lei e, come già sospettava, non c’era nulla di profondamente malvagio nella creatura, ma Isaac…

“Maestro, dobbiamo sbrigarci! Isaac ha pedinato Zima e...”

“CO-COSA?”

Camus era sbiancato, a quell’ultima rivelazione, sembrava quasi sconvolto, mentre il suo corpo -Hyoga, ancora impiegato a sorreggerlo, lo notò distintamente- aveva cominciato a tremare spasmodicamente.

“Lui è convinto che la creatura sia una minaccia per l’umanità, un nemico, anche Elisey ci ha detto così, ma… ma… ho sentito la sua voce, Maestro, non sembrava affatto malvagia! Lei, Zima, ha chiesto ad Isaac di lasciarla stare, di farla andare via, ma lui era in pena per voi, non ci ha più visto e… e l'ha braccata! Dobbiamo raggiungerli!”

Camus a quelle parole sembrava ancora più incredulo, mentre, con enorme sforzo, cercava di digerire la notizia e mascherare al contempo la preoccupazione per l’altro allievo.

“Hyoga, tu… sei riuscito a sentire la sua voce, la voce di Zima?” chiese, genuinamente sorpreso, staccandosi un poco da lui per reggersi da solo, ma rimanendogli comunque vicino.

“Sì, ha parlato nella mia testa con voce affannosa ma dolce, è molto stanca, Maestro, e Isaac… Isaac non le darà requie, pensa sia stata lei a farvi del male!”

Hyoga si sforzava di mantenere il sangue freddo come gli era stato insegnato, ma pronunciava le parole in un crescendo di tonalità. Inaspettatamente la mano di Camus si mosse per accarezzargli i ciuffi biondi con gesto delicato ma sentito. Vi era qualcosa di luminoso nei suoi occhi, come di fierezza appena sussurrata nel vento. Era… orgoglioso di lui? Il biondo si ritrovò ad arrossire nel guardarlo, sentendosi genuinamente apprezzato e sorpreso da quella azione.

“Hai ragione, Hyoga, Zima non è affatto malvagia, è… è difficile da spiegare, ma tu sei riuscito a capirla e a sfiorarla, con il cuore, devi esserne fiero di te stesso, non è da tutti!” lo encomiò, un leggero sorriso a solcargli le guance. Poco dopo accennò qualche passo nella direzione precedentemente presa da Isaac, come a localizzare il cosmo dell’allievo. Era in evidente apprensione.

“Maestro...”

Hyoga non sapeva bene come agire, farsi da parte o unirsi a Camus nel tentare di convincere suo fratello a tornare sui suoi passi? Fortunatamente la risposta gli venne data dal suo mentore.

“Hyoga, temo avrò bisogno anche del tuo aiuto per convincere quello scapestrato di Isaac sull’inutilità di un combattimento con Zima, sei… sei con me?” gli chiese, guardandolo negli occhi con determinazione. Era lampante non li volesse lì, ma loro ormai c’erano e, per uscirne illesi, sarebbe servita la collaborazione di tutti.

“Farò quanto in mio potere, Maestro Camus!”

“Conto su di te, rimani dietro di di me e proteggi Jacob con tutte le tue forze!” gli disse ancora, sorridendogli con fermezza, prima di scattare insieme a lui nella direzione presa dall’altro allievo.

 

Isaac intanto se la stava vedendo brutta contro la creatura. Era stato appena sbalzato via da qualcosa che rassomigliava paurosamente ad un vortice polare ed era stato proiettato violentemente indietro, fino a quando il suo corpo, la sua spalla, non avevano cozzato violentemente contro qualcosa di duro che gli aveva mozzato il respiro. Era scivolato a terra, dove ora rantolava, il petto ansante, una fitta di dolore che gli aveva attraversato tutto il braccio e si irradiava in tutto il suo corpo.

“Merda! L-la spalla… deve essersi lussata!” biascicò tra sé e sé, dolorante, mentre con l’altra mano si teneva il braccio opposto nel tentativo di dosare il gelo per placare almeno un poco quelle fitte acuminate. Non era in grado di alzarsi nell’immediato, troppo intenso il male, ma era in una posizione di forte svantaggio, doveva muoversi, altrimenti…

“GAAAAAAAU!”

Fremette nell’avvertire la bestia avvicinarsi a lui, sempre più minacciosa. Si sforzò di riaprire gli occhi, un brivido gli scorse la schiena nel distinguere i suoi occhi iniettati di sangue, i canini sporgenti, le zampe piegate nel preparasi al balzo. Stavolta lo avrebbe attaccato, con tutte le sue forze, sbranandolo, Isaac ne avvertì l’immensa pressione.

Molto bene, ti sei decisa, infine, a mostrare la tua vera natura. Non mi arrenderò, sono in futuro Cavaliere di Atena, non posso arrendermi! MAI!

“GAAAAAAAAUUUUU!!! GAAAAAAAAUUUUU!!!”

La bestia sembrava imbizzarrita, ululava sempre più minacciosa, mentre cristalli di ghiaccio danzavano tutt’intorno, dandogli un aspetto elegante e terribile al tempo stesso.

Cosa ti trattiene ancora? Sembri fuori di te, ma esiti, come se non volessi, coraggio, sono qui, sono pronto a riceverti!

Come se avesse udito questi pensieri, la belva gli saltò addosso, spalancando le fauci e lanciandogli un raggio ghiacciato dalla bocca. Isaac sorrise di sbieco, mentre, coniugando tutte le sue forze nei piedi la scansò da un lato, pattinando poi elegantemente sul ghiaccio per cambiare direzione e attaccarla. Zima finì a sbattere contro la roccia, rimanendo per pochi secondi stordita; secondi che Isaac sfruttò per congelare una delle sue zampe posteriori, come gli aveva insegnato il maestro Camus. Una fitta di dolore gli si acuì nel petto, partiva proprio dalla spalla lussata ma decise di non darci peso, muovendosi ancora una volta per raggiungerla da dietro, dove, con la mano libera, congelò la zampa opposta anteriore, immobilizzando così di fatto la creatura.

“GRRRRR!!! Guauuuuu! Guaaaaaaau! Anf, anf!”

“Sembri a corto di fiato, eh? Puoi dibatterti quanto vuoi, da quella morsa non ne uscirai, né ora ne mai! E ora preparati al verdetto!” la canzonò, ancora quell’aria maligna a solcargli gli occhi verdi, che emanavano già la luce della vittoria. Sinistri, inquietanti. Una strana sensazione di onnipotenza invase Isaac alla sola idea di stare per piegare quella creatura, la quale, incassano il muso tra le zampe, sembrava finalmente cedere, la lingua a penzoloni, gli occhi serrati.

“Guauuu…. Guau...” gorgogliava sempre più debolmente, piegandosi sempre di più su sé stessa, quasi da cadere a terra.

“E’ la fine per te, add...”

“BASTA, ISAAC!”

Qualcosa gli aveva colpito il braccio che si era alzato per infliggere il colpo di grazia, se ne meravigliò, quasi come riconoscere quella voce inconfondibile quando le due persone per lui più importanti della sua vita uscirono dal fitto della boscaglia.

“Maestro Camus… Hyoga!”

La faccia del maestro, i suoi occhi su di lui, ne avvertì l’immenso peso, ciò bastò per farlo retrocedere di uno, due, passi, il cuore in gola, la spavalderia di prima un lontano ricordo. Quelle due iridi puntate su di lui emanavano la profonda scintilla di biasimo, erano taglienti, forse anche troppo, secche e… fredde. Sussultò, mordendosi il labbro inferiore.

“Hai preso un granchio, Isaac! Lascia in pace Zima, non è uccidendola che risolverai la questione! Fatti da parte!”

“Ma io...”

“E’ la verità, Isaac! - intervenne anche Hyoga, stringendo un sempre più spaventato Jacob tra le braccia, gli occhioni lucidi – Non è lei la nemica da sconfiggere!”

Isaac non riusciva a crederci, guardò ancora la creatura quasi stramazzata a terra, poi ancora i nuovi venuti.

“Ma Elisey ha detto che è stata lei a provocare l’endemia, non...”

“Isaac! Guardala, guardala attentamente! - gli fece notare Camus, avvicinandosi cautamente a loro, con passo lento e un poco traballante, mentre l’altro allievo rimaneva indietro – Ti sembra possa arrecare volontariamente danni a qualcuno? Sta utilizzando tutte le sue forze per trattenersi, vittima di un male che non può controllare pienamente. E’ stremata, sfiduciata… ti ho mai insegnato a infierire su un essere così? Lei ha bisogno di aiuto, sta soffrendo molto...”

“Ma Maestro, lei mi ha...”

“...Attaccato?! Cos’altro avrebbe potuto fare?! Si è sentita in pericolo, era all’angolo, non aveva altra scelta, se non quella di passare al contrattacco , come ogni animale, come ogni uomo! Isaac, ascoltami per una buona volta, non infierire più su Zima, non lo merita, risolveremo la questione in altro modo”

Isaac abbassò lo sguardo, ma non il pugno, ancora incredulo che la situazione potesse ribaltarsi così. Elisey era stato categorico, ed era uno stronzo, un farabutto, ma diceva sempre, sempre, la verità, perché quindi mentire in quella circostanza?! Su una cosa così importante?

“Avete scoperto se… è stata Zima a causare il morbo?”

Camus sospirò, sapeva non sarebbe stato facile trattare con il ragazzo, ma non gli avrebbe potuto mentire.

“Sì, è stata lei a...”

“E ALLORA COME POTETE DIRMI DI RISPARMIARLA, SE E’ STATA LEI A CAUSARE TUTTO QUEL DOLORE?! Va eradicata, come tutto il male nel mondo!” saltò su Isaac, ancora sulle sue posizioni, per niente intenzionato a retrocedere.

Camus sospirò di nuovo, ormai era vicinissimo sia a Zima che ad Isaac. Cercò a fatica le parole in fondo al suo cuore, prima di esprimerle.

“Isaac… la verità non è sempre netta, per questo ti ho sconsigliato di fare appiglio al Kraken, come potenza. Non è tutto o bianco o nero, è… è sfumato, mio giovane allievo, e… e anche Zima lo è… abbi compassione di lei, è… ”

“Compassione?! Lei non ne ha avuta per tutti quei bambini!!! Quanti ne avrà uccisi, Maestro?! Che motivo aveva di scagliare quel male, quasi come un peccato originale?! No, è un pericolo, ancora di più, se, come dite, ha perso il controllo sulla sua forza!” ribatte Isaac, più categorico che mai, dando le spalle a Camus e apprestandosi a colpire, assolutamente implacabile.

“MA NON HAI ANCORA CAPITO, ISAAC?! - la voce di Hyoga, fuoriuscì quasi senza che il cervello prendesse parte alla decisione – Zima è una vittima! Elisey ci ha detto quelle cose per metterci alla prova, come futuri Cavalieri, come futuri uomini, come difensori della giustizia! Non riesci a udire la sua voce? La voce di un essere vivente che sta soffrendo?! E’ nostro compito aiutarla, non distruggerla! Elisey ci ha mandato qui, a sostenere Camus, per questo!”

Isaac fissò suo fratello a bocca semi-aperta. Un rimprovero. Pronunciato in tono duro, solenne. Non era mai successo che Hyoga si esprimesse così nei suoi confronti, eppure, proprio in quel momento, il biondo risplendeva di una luce sacra, inarrivabile, come aveva visto scaturire solo dal suo maestro. Eppure Hyoga aveva quella stessa luce, lo stesso, luccicante, sfavillio. Come Camus. Così simili… come padre e figlio.

Indietreggiò ulteriormente, abbassando lo sguardo, scosso. Davvero aveva preso un così drastico abbaglio?! La voce… della creatura?! Hyoga diceva di riuscire a sentirla, ma ciò che era arrivato alle sue inesperte orecchie erano solo latrati, ululati, ringhi sommessi.

Aveva frainteso le intenzioni di Zima… forse, prima, non stava facendo del male a Camus, inchiodato alla roccia con le braccia aperte e il respiro corto, forse, sempre prima, il suo muso contro l’addome del suo maestro, scoperto completamente a seguito della posizione cui era costretto, non indicava il suo volerlo sbranare, partendo dalle interiora come qualunque lupo selvatico avrebbe fatto, ma un tentativo di salvarlo, di fargli forza, prima di portarlo via da lì e condurlo al sicuro.

E capì. Capì perché lui non era in grado di percepire la sua voce, perché aveva affinato troppo l’udito, a scapito del cuore; ed era il cuore ad essere sordo alla voce di Zima.

“MAESTRO CAMUS! ISAAC!”

Così distratto dai suoi pensieri, quasi non si accorse di quello che stava per accadere a poca distanza da lui La creatura, dopo un ultimo, estremo, tentativo di autocontrollo, si era messa a ululare sinistramente, mentre la brezza leggera, che prima roteava intorno a lei, facendole danzare elegantemente i nastrini bianchi che erano parte della sua corporeità, stava letteralmente per implodere su sé stessa, prima di detonare con una intensità difficile da resistere.

Isaac ebbe appena il tempo di capirlo, un brivido gli corse lungo la schiena, prima di essere gettato indietro insieme al suo maestro con una forza sbalorditiva.

Hyoga, invece, dalla sua posizione più distante, dopo aver tentato di avvisare le persone a lui più care con tutte le sue forze, invano, riuscì a conservare abbastanza sangue freddo per avere l’imput di buttarsi a pancia a terra, con Jacob sotto di sé, e resistere così all’immenso spostamento d’aria senza conseguenze sul piccolo. Era riuscito a proteggerlo con le sue braccia, ma lo stesso non poteva dire di Isaac e Camus, colpiti in pieno dalla nebbia bianca che ora si addensava tutt’intorno. Rabbrividì, mentre si accorse, una volta in più, che le persone a lui più care avrebbero anche potuto morire in una situazione simile.

“GUAAAAAAAAAAAAAAAAAUUUUUU!!!! GRRRRRRRRRRR!!!”

L’immensa bestia, che sembrava persino più grande di prima, si era infine liberata dalla morsa di Isaac e muovendo violentemente il collo, come se fosse totalmente fuori di sé, aveva preso ad ululare con sempre maggior forza, mentre il vortice polare, che lei stessa aveva creato, vorticava sopra di lei, sferzando i dintorni e abbattendo gli alberi più vicini.

Tutt’intorno non c’era altro che nebbia bianca, spessa, che impediva la visuale. Hyoga era terrorizzato all’idea che Isaac e Camus, così vicini alla creatura, avessero subito danni ingenti, voleva aiutarli, ma prima c’era un’altra cosa che doveva fare. La sua mente febbricitante prese a vorticare, quasi come il colpo di Zima, mentre, a fatica, sempre trattenendo Jacob sotto, si metteva difficoltosamente a ginocchioni.

“Z-Zima ha perso totalmente il controllo su sé stessa, non può… non può più fare nulla per impedire alla sua furia di scatenarsi… J-Jacob, stai bene?”

“I-io sì, Hyoga, perché tu mi hai protetto, ma… ma il maestro e...”

“Ci penso io a loro, tu… tu, passando dietro di me, allontanati da qui, rintraccia Elisey, digli di venire qui. Ti farò da scudo con il mio corpo!”

“N-No, Hyoga, non vi abbandono, non...”

“Sei un piccolo guerriero anche tu, vero? - gli sorrise Hyoga, permettendosi di sfiorargli uno dei ciuffi con una mano, come Camus aveva fatto con lui quando era piccolo. Al cenno di assenso del bimbo, a quel luccichio nei suoi occhi verdi, proseguì – E allora vai, senza voltarti indietro, un guerriero è anche questo!”

Il piccolo eseguì con riluttanza. Passò a gattoni in mezzo alle gambe di Hyoga, prima di dirigersi, sempre muovendosi quattro zampe perché la forza centripeta era tremenda, al riparo nel bosco.

Hyoga attese che il bambino fosse al sicuro, prima di espandere il proprio cosmo come gli era stato insegnato. Continuava a non vedere né Isaac né Camus, il solo pensiero che potessero essere feriti gli raggelò il sangue nelle vene più di quanto già non facesse quell’enorme ciclone di ghiaccio, ma aveva ben chiaro come agire. Rabboccò aria respirando profondamente, prima di attirare e incanalare l’immane potere di Zima su sé stesso. L’idea era quello da fungere da vettore, assorbendo il più possibile il gelo nel suo corpo, rischiando di finire a pezzi nel processo, ma allontanando al contempo quell’energia dalla sua famiglia. Così fece, anche se la pratica, come spesso accadeva negli allenamenti, era ben più difficile che la teoria. Concentrò tutte le sue forze per subire su di sé quel vortice, tossì più volte, i polmoni sussultarono, il dolore su tutto il corpo era immenso; il ghiaccio a così basse temperature bruciava per davvero, come se si trovasse vicino ad un incendio, ma non si arrese. Socchiuse un occhio, con l’altro si sforzò di rimanere vigile, era ancora inginocchiato per terra, l’energia convergeva su di lui, come voleva, il prezzo per farlo, però, era la sua vita. Strinse più che poté le mani, quasi del tutto rigide, era come se si potessero staccare da un momento all’altro. Rabboccò ancora aria, annaspando, quasi del tutto sfinito, ma mai arrendevole.

“Coraggio… - si disse tra sé e sé per farsi forza – che la mia malaugurata esistenza possa concretamente servire a qualcosa!”

Ad un certo punto avvertì scricchiolare il permafrost. Riaprendo l’altro occhio, si rese condo che Zima aveva compreso le sue intenzioni, e che lentamente, ma con costanza, si stava avvicinando minacciosa a lui, i denti ben in mostra. A Hyoga si strinse il cuore. Quella meravigliosa creatura dal fulgido color celeste e il mantello pezzato di motivi romboidali, era diventata totalmente nera, gli occhi iniettati di sangue, il liquame denso che gocciolava per terra. Non aveva nulla della gentilezza che gli aveva narrato sua madre, eppure la sua voce, la sua disperata richiesta di essere aiutata, Hyoga la poteva udire ancora, era un latrato sommesso e agonizzante, testimone del dolore che certamente provava. Zima era ormai ad un palmo dalla sua faccia, produsse uno stridio con i denti, probabilmente lo avrebbe morso proprio sul volto, o forse sul collo, soffocandolo, come ogni predatore, ma lui non aveva paura, non riusciva a far altro che guardarla con compatimento e tristezza, percependone distintamente una solitudine lunga secoli. Zima soffriva, non soltanto fisicamente, per quello che gli uomini le avevano fatto subire, ma anche e soprattutto per un’altra ragione. Gli occhi azzurri di Hyoga si incrociarono con i suoi, sanguigni, quasi spiritati.

Nessuna paura, solo una gran malinconia.

“Anche a te manca tanto qualcuno, vero? Sei… come me! - farfugliò il ragazzo, il respiro stentato, non abbassando il capo – Vorrei… vorrei tanto essere in grado di scacciare almeno la tua tristezza...”

La zampa destra di Zima, purtroppo sorda alla sua supplica, si alzò lentamente con l’evidente intenzione di colpirlo, prima di sbranarlo, ma un qualcosa di piccolo e nero la colpì proprio in testa, facendola scrollare. Poi un altro. Un altro ancora, sempre in testa, con precisione quasi matematica. Ringhiò. Hyoga ci mise un po’ a capire cosa stesse succedendo, prima di udire distintamente la vocetta di Jacob a poca distanza da lì.

“Fermati! Fermati, Zima!!! Il Maestro dei Ghiacci ha detto che non sei cattiva, e allora perché… perché vuoi fare de male a Hyoga?! Lui è… puro e candido come Camus, è luce, non ti farebbe mai del male, e allora perché?!?”

In quell’istante Hyoga ebbe paura, di nuovo. All’angoscia per la sua famiglia si aggiungeva ora anche quella per le sorti del bambino. Si voltò verso il piccolo, gli occhi sbarrati dal terrore, urlandogli di fermarsi, di scappare, di allontanarsi. Jacob aveva trovato dei sassi nel fitto del bosco e in quel momento li stava lanciando alla creatura, provando a fermarla e a chiedere spiegazioni. Zima ne subì ancora due o tre, prima di girarsi a sua volta e ringhiare, i muscoli delle zampe tesi, pronti a spiccare il balzo.

“Perché?!? Perché lo fai??? Ti prego, fermati e salva la mia sorellina, e tutti gli altri! Il maestro dei Ghiacci ha detto che sei buona, ed io credo a lui, dimostralo anche agli altri!” continuava il bimbo, supplice, i lacrimoni agli occhi.

“Jacob, ma sei impazzito?!? Ti attaccherà! Non è in sé! Non è...” riuscì ancora a dire, prima di vedere con orrore che Zima, piegando le zampe posteriori, stava per saltare addosso al piccolo. A quel punto la ragione venne meno, agì solo l’istinto, tramite il quale Hyoga, intuendo la direzione della creatura, si frappose tra il piccolo e i suoi artigli, stringendo a sé Jacob urlante, facendogli scudo con il proprio corpo.

Tutto parve bloccarsi per un secondo, il tempo, le azioni, persino il vento. Hyoga giurò di udire il richiamo di Camus, che lo chiamava da qualche parte, ma non seppe definire se era reale o frutto dell’immaginazione, sembrava tutto così ovattato, eppure… gli artigli sulla sua schiena, che gli lacerano la maglietta e la pelle, li avvertì distintamente, ma non urlò. Si ritrovò a rotolare sul permafrost per diversi metri, una delle sue mani dietro la testa del piccolo, l’altra ad attutire i colpi su quel corpicino che dipendeva in tutto e per tutto da lui.

Prendersi cura di qualcuno… posso farlo anche io, allora…

Si ritrovò a pensare, prima di finire contro una parete di roccia ed essere raggiunto dalla bestia che, totalmente fuori di sé, iniziò a colpirlo con violenti unghiate. Hyoga resistette per un tempo che gli parve secoli. Jacob era sotto di lui, svenuto ma fuori dalla portata dei colpi. Si ritrovò a sorridere, mentre perdeva coscienza.

Dall’altro lato del campo, Camus aveva effettivamente urlato il nome dell’allievo con una pesantezza nel cuore che via via si faceva sempre più insostenibile. La visibilità era ridotta ad un niente, sia lui che Isaac avevano subito il colpo di Zima, ma era stato veloce a limitare i danni, erigendo un Muro di Ghiaccio per sé e per l’allievo, purtroppo per Hyoga c’era stato poco da fare, troppo lontano da loro per riuscire ad intervenire. Avvertiva distintamente il suo cosmo ancora un po’ acerbo ma straordinariamente ampio, grazie a quello intuì cosa avesse provato a fare il ragazzo, ed era stata pura follia.

“Hyogaaaaaa!” urlò di nuovo, alzandosi in piedi un poco traballante, dopo aver appurato, con una occhiata, che Isaac stava bene, nonostante una vistosa lussazione della spalla. Il suo tono era ricolmo di pena, il suo spirito e il suo cuore ancora di più. Si guardò angosciosamente intorno nel disperato tentativo di scorgerlo, tutto inutile, la nebbia bianca permeava tutto. Vacillò.

Maledizione, Hyoga, dove sei?! Stai assorbendo il potere di Zima su di te per salvare me ed Isaac?!? E’ follia, mia giovane e coraggioso allievo, non puoi trattenere tutta quell’aria congelante, il tuo corpo andrà in pezzi e… NO, PER ATENA, NO! Devo intervenire prima che sia troppo tardi, non sei tu che devi proteggermi, ma io… è mio compito, tu sei ancora troppo giovane, non posso, né voglio, perderti! Oh, Hyoga… dove sei?! Dammi un segno, ti prego!

“Maestro! La nebbia si sta diradando in quel punto!” lo avvertì Isaac, alzandosi a sua volta in piedi nonostante i danni riportati. Camus sussultò al suono della sua voce e, ancora di più, quando finalmente riuscì a localizzare Hyoga. Il suo cuore non perse semplicemente un battito, si fermò, o meglio, così gli parve, per una serie interminabile di secondi. Si augurò che non fosse vero, che si trattasse di un abbaglio, di una allucinazione, ma più la nebbia si diradava, più davanti ai suoi occhi, e soprattutto nel cervello, era chiaro cosa stesse succedendo. Si sentì mancare.

“Hyo...” fece per intervenire Isaac, temerario come sempre, ma Camus lo spinse un poco bruscamente a terra per impedirgli di agire, prima di dirottarsi in avanti.

“Tu non ti muovere da qui, hai causato anche fin troppi danni!”

Il suo tono era più freddo del solito, l’inesperienza aveva tratto in inganno Isaac, non era neanche totalmente colpa sua, ma in quel momento più che mai era necessario che il ragazzo rimanesse fermo e immobile.

Con il cuore denso di paura, un nodo in gola, si precipitò verso Zima, ancora intesa a infierire su Hyoga, che giaceva scompostamente a terra, il respiro penoso.

Dimmi che non è troppo tardi! Non avrei dovuto permettere che intervenissero, stanno rischiando la vita per me, insieme a me, se gli dovesse succedere qualcosa non me lo perdonerei mai!

Il nodo si acuì nel petto mentre, con un rapido e agile balzo, saltò sopra la creatura, afferrandole, con le mani il muso e stringendo le gambe sul sui fianchi, come se si trattasse di un cavallo.

“Zima! Zima, fermati ti prego! Hyoga è innocente!”

“GUAAAAAAAAUUUU!!!” si divincolò lei per tutta risposta, cercando di strattonarlo via, completamente furiosa.

Come temeva Zima, in quello stato non era più in grado di riconoscerlo, era vano parlarle, eppure non l’avrebbe attaccata, non dopo averne saggiato l’immensa tristezza. Si strinse alla creatura alla ben meglio fino a quando lei finalmente, dovendosi occupare di questioni più urgenti, non lasciò stare il corpo ormai martoriato di Hyoga.

Camus ebbe l’impulso di correre da lui, ma lasciare Zima le avrebbe permesso di continuare ad infierire sul ragazzo, o su Isaac e non poteva permetterglielo. Cosa fare? Riprovare a parlarle in tono calmo e gentile? Sarebbe poi servito? Hyoga aveva bisogno di cure, ancora doveva sincerarsi delle sue condizioni, ma era lampante fosse rimasto ferito anche piuttosto seriamente.

Con la mente febbricitante di tutti questi pensieri, Camus quasi non si rese conto, se non quando avvertì dolore, di essere sbattuto sulla roccia diverse volte. Strinse i denti, aumentando la presa sulla creatura, che faceva di tutto per disarcionarlo, anche picchiando più volte contro le pietre, del tutto fuori di sé.

“Zima, ti prego, sono io! Torna in te, puoi ancora farlo! Non lasciare che questa oscurità ti consumi, ricorda… ricorda ciò che eri e… urgh! - tossì nell’accusare l’ennesimo colpo che gli mozzò il respiro – Io credo in te, Zima, non sei più sola, non sei più...”

Non riuscì a finire la frase. Roteando su sé stessa con violenza, Zima riuscì finalmente a scrollarselo di dosso, sbalzandolo via e facendolo rotolare per diversi metri sul ghiaccio che bruciò la sua pelle in diversi punti nelle zone esposte. Camus era stordito, non aveva forze per alzarsi nell’immediato, l’impeto con cui era stato lanciato probabilmente gli aveva rotto una costola, che ora gli procurava fitte intermittenti ad ogni respiro. Erano in balia di Zima, se la creatura avesse nuovamente attaccato per loro sarebbe stata la fine, ma fortunatamente si era momentaneamente placata, cominciando a latrare in affanno, la lingua a penzoloni.

“Urgh… anf, anf...”

Fu un respiro, quello stentatissimo di Hyoga, a ridare le energie a Camus. Si accorse, con orrore, che non era caduto molto distante dall’allievo, il quale, ora lo vedeva nitidamente, era rannicchiato su sé stesso, del tutto sofferente, stringendo il piccolo Jacob, a sua volta svenuto, tra le braccia.

“Hyo-Hyoga!”

Le energie gli mancavano, ma riuscì comunque a strisciare verso il ragazzo, sebbene ogni movimento gli procurasse un dolore atroce. Finalmente lo raggiunse, gli accarezzò i ciuffi biondi e, con la mano tremante, coniugando tutto ciò che restava delle sue forze, riuscì a girarlo dolcemente in posizione più comoda, controllando le sue funzioni vitali e le ferite. Rabbrividì, Camus dell’Acquario, ancora una volta, nell’accorgersi che il giovane perdeva sangue dalla schiena ed era in cattive condizioni fisiche. Era bollente, respirava appena, con grande affanno, e la colpa era stata la sua, poiché non era stato in grado di proteggerlo, di proteggere il suo allievo!

“Hyo-Hyoga… - la voce gli era uscita incrinata, mentre la paura, che si sforzava di non far trasparire fuori da sé, lo aveva invaso – Hyoga! Re-resisti! S-sono qui, non sei solo! Sei stato bravissimo, ci hai protetto, ci...” riuscì a dirgli in tono tremante; tremante quasi come il corpo del giovane che era preda degli spasmi. Lo accarezzò dolcemente sulla schiena, evitando le zone ferite, mentre con il gelo tentava di fargli percepire meno dolore e arrestare l’emorragia.

“Mae-stro...” la voce flebile di Hyoga, i suoi occhi si erano aperti, le pupille erano dilatate.

“Non parlare, Hyoga! Sono qui… ti prometto che starai meglio, mi prenderò cura io di te, ma non compiere sforzi, ti prego, sei molto debole! Andrà tutto bene, conserva le energie!” lo supplicò, in tono chiaro e denso di pena. Sanguinava molto dalle ferite, il suo volto era sfatto, ma continuava a stringere coraggiosamente Jacob con una forza di volontà incrollabile.

“V-volevo proteggervi, Maestro… a v-voi e Isaac, m-ma… non sono a-abbastanza, urgh, i-intraprendente!”

“E invece lo sei stato; lo sei stato, Hyoga! - Camus sperava che il solo chiamarlo per nome spingesse il ragazzo a non arrendersi, a non cedere. Avrebbe fatto qualunque cosa per salvarlo, qualunque! – Siamo vivi e vegeti grazie a te, non cedere! NON CEDERE!” continuava a dirgli, in tono mozzo, accarezzandogli la fronte e poi i capelli. Gli occhi di Hyoga erano sempre meno brillanti, ogni tanto la palpebra cedeva, e Camus, disperato, gli dava uno scossone, febbrilmente.

“Coraggio, non arrenderti! Sono qui… SONO QUI!”

“J-Jacob sta bene?” chiese ancora il ragazzo, quasi del tutto stremato.

Camus controllò ancora una volta le condizioni del piccolo, non aveva riportato ferite, perché Hyoga aveva subito su di sé i colpi della creatura, ma era svenuto per il contraccolpo. Gli sfiorò una guancia con le lunga dita eleganti.

“Sì, sta bene, Hyoga, grazie a te! Ora però dobbiamo pensare a te, sei tu ad essere rimasto ferito!”

Hyoga a quelle poche parole sorrise; un sorriso tiratissimo ma genuino e dolce allo stesso tempo: non ce la faceva più a rimanere vigile, era così lampante...

“N-ne sono veramente felice, Maestro...” riuscì a sussurrare, prima di cedere del tutto. La testa, priva di sostegno, rischiò di cozzare contro il duro permafrost, ma la mano di Camus fu lesta a sorreggerla.

“Hyoga! HYOGA!” provò più volte a chiamarlo, ma il ragazzo era svenuto, non rispondeva più ai suoi richiami.

Lo accompagnò a terra, accarezzandogli nuovamente i ciuffi biondi, prima di controllare le funzioni vitali ancora una volta. Il battito era debole, il respiro aritmico, ma era vivo, Camus avrebbe dato l’anima, anche oltre, perché ciò fosse continuato anche dopo quella battaglia.

“V-va tutto bene, piccolo… sei forte, lo sei sempre stato! Resisti, Hyoga, resisti! Mi prenderò cura io di te, starai presto meglio! Non mollare!” lo provò di nuovo ad incoraggiare, posandogli le labbra sulla fronte, come una benedizione, per devolvere parte delle sue energie sull’allievo rimasto ferito.

E’ colpa mia… non avrei dovuto lasciarti scoperto, non avrei dovuto allontanarmi da te! Perdonami, non sono stato capace di proteggerti, maledizione!

Ebbe appena il tempo di sistemarlo meglio in posizione più comoda, prima di avvertire nitidamente dietro di sé il respiro della creatura.

“Grrrrrrrrrrr!”

Camus strinse di riflesso Hyoga contro il suo petto, come a volerlo difendere con tutto sé stesso, voltandosi lentamente verso la creatura, che lo guardava con gli occhi sanguigni e le fauci semi-aperte, pronta a tornare all’attacco.

“Zima… sei furiosa, hai tutto il diritto di esserlo, ma… - abbassò lo sguardo nello scrutare il viso, reclinato sul suo braccio, di Hyoga, che ansimava, l’altra mano era sul piccolo Jacob, ancora sul grembo del giovane allievo che, nonostante, l’incoscienza, continuava a tenerlo – Se vuoi prendertela con qualcuno, prenditela con me, non con loro; loro sono...”

Si fermò un attimo, riflettendo… già, cosa erano gli allievi per lui? Semplici apprendisti, oppure? La dolcezza di Hyoga, la temerarietà di Isaac, persino l’ingenuità di Jacob… erano la sua famiglia, insieme a Milo, a Sonia…

Avvertì calore nel petto.

“...sono tutto per me!” aggiunse infine, una luce particolare negli occhi.

“GUAAAAAAAAU!GRRRRRRRRRRRR!”

“Prendi me, se serve, ma lascia stare loro!” ripeté caparbio Camus, stringendo ancora di più la presa sul corpo del giovane allievo.

Quella volta non si sarebbe più fermata, era la sua stessa furia ad impedirglielo e, quella furia, si sarebbe riversata su Camus, senza che lui potesse opporre la benché minima resistenza.

Isaac, dalla sua posizione, era sinceramente sconvolto e del tutto impossibilitato a muoversi. Non più per il gelo, si accorse, bensì per la paura, ne era totalmente soverchiato. Cosa aveva causato la sua inesperienza!

Le gambe gli tremavano, sudava freddo, il respiro difficoltoso nel petto, il cuore a mille. Si rese conto che avrebbe voluto scappare, una sensazione che non provava più da quando era piccolo, una sensazione che non avrebbe voluto provare mai più. Scappare, e scappare, per nascondersi, nascondersi per il terrore, per la vergogna.

Per un istante fu anche tentato di farlo, ma poi i suoi occhi si erano posati sul viso pallido di Hyoga, sulle ferite presenti sul suo corpo, sulla sua espressione sofferente, e poi ancora sul volto martoriato di Camus, sul sudore che gli imperlava il viso. Entrambi erano in quella situazione per causa sua, suo fratello Hyoga aveva rischiato il tutto e per tutto per salvarli, e il maestro avrebbe fatto lo stesso per loro.

Hyoga… Isaac si soffermò ancora una volta sul suo viso. Era stato più che coraggioso a cercare di assorbire il gelo di Zima e a fare da scudo con il proprio corpo al piccolo Jacob. Spirito di sacrificio abnegazione non gli mancavano di certo, se solo essi fossero stati profusi nella sete di giustizia anziché per la defunta madre, sarebbe diventato uno dei Cavalieri di Atena più capaci, forse addirittura IL più capace. Possedeva un potenziale inesauribile, ma riposto nelle questioni sbagliate, per i morti, non per i vivi.

Isaac tremava ancora mentre, in una manifestazione di estremo nervosismo, si passò una mano tra i capelli, nascondendosi parte del viso con il palmo.

“Dannazione! Cosa… cosa ho fatto?! - tornò a guardare Hyoga per la terza volta consecutiva, una fitta al cuore lo investì – Sei come un fratello per me, perché… perché tendi sempre a mortificarti così?! Perché dai così poca importanza alla tua vita quando… quando per me e il Maestro Camus sei TUTTO?! Se solo te ne rendessi conto, di quanto ti vogliamo bene, di quanto tu sia speciale per noi, e di cosa tu ci abbia donato con la tua venuta in queste lande ghiacciate!”

Le sue braccia ricaddero lungo i fianchi, in una apparente manifestazione di resa, Rialzò lo sguardo sulla scena, rimproverandosi ancora una volta i suoi errori. La furia di Zima non era più placabile, sarebbe calata, in qualche modo, era solo da decidere su chi.

In un guizzo di determinazione, le iridi di Isaac lampeggiarono, mentre la mano venne stretta a pugno e sollevata all’altezza delle spalle: se la tempesta era impossibile da fermare, almeno avrebbe scelto lui dove essa si sarebbe abbattuta. Camus e Hyoga erano ciò che più amava di quella vita, la sua famiglia, la sua certezza, non avrebbe permesso a niente e a nessuno di strappargliele, non più. Era stato impotente mentre la sua famiglia d’origine veniva trucidata, era stato inerte mentre quel bastardo uccideva Lisakki, quella volta invece avrebbe agito per salvarli. A tutti i costi! Si azionò

Lanciò la Diamond Dust ai piedi della creatura con lo scopo di distrarla, cosa che gli riuscì, perché il suo muso terribile si posò su di lui, insieme al viso nuovamente terrorizzato di Camus.

“GRRRRRR!”

“ISAAC, NO! TI HO DETTO...”

So che siete già in pena per Hyoga, Maestro, e che ora lo sarete anche per me. Perdonatemi, non riesco ad accettare l’idea di vedervi feriti per causa mia. Io ho sbagliato, io ne subirò il fio!

La sua espressione era impressa nelle iridi blu di Camus, desiderò che quel messaggio appena pensato arrivasse dritto alla mente dell’amato mentore. Sorrise leggermente, prima di rivolgersi alla creatura.

“Zima, la tua ira è mal riposta! Sia Camus che Hyoga hanno sempre creduto in te, fin dall’inizio, sono io che ti ho attaccato, colpisci me, sfogati su me, perché sono io ad aver risvegliato la parte più terribile della tua essenza!” esclamò, alzando esaustivamente le braccia – Non opporrò resistenza, sono qui, prendi me come bersaglio e ristabilisci l’ordine, se serve per placarti!”

“E’ follia, Isaac!!! No! Non farlo, no!” tentava di opporsi Camus, visibilmente agitato, non sapendo più che cosa fare per impedire anche all’altro allievo di finire come Hyoga, o peggio.

Gli occhi di Isaac non erano più puntati su di lui, ma sulla creatura che lo fissava torvamente, mostrando i canini e poi le fauci. Aveva perlomeno distolto l’attenzione da Camus e Hyoga, e ora si stava avvicinando a lui, muovendosi nervosamente prima da una parte e poi dall’altra, restringendo sempre di più il semi-cerchio. Isaac stette immobile, cercando di ricacciare indietro la paura, sebbene le ginocchia continuassero a tremare. Zima non vedeva altro che lui; lui non vedeva altro che Zima, eppure la creatura esitava ancora, decise quindi di pungolarla.

“Coraggio, attacca! Sono qui, sono pronto a subire il peso delle mie azioni!” la incitò, caparbio e un poco incosciente alzando il tono della voce. Il destino si sarebbe compiuto, in un modo o nell’altro, non aveva senso esitare.

Così sia, ragazzo…

Isaac sussultò davanti a quel sibilo che gli si era strascicato nelle tempie e rimbalzava da una parete del cervello all’altra. Sbiancò, era la prima volta che riusciva ad udire la voce di Zima, ma essa era metallica, fredda e atona, portava il gelo nel cuore al solo udirsi, mozzava il respiro, rassodava la paura. Cedette di un passo rispetto alla sua posizione, mentre dalle fauci ben aperte della belva andava a crearsi un raggio di energia congelante pronto per essere lanciato. Esso era del colore dell’opale scuro, spietato, maligno… che strano soffermarsi sul colore di quell’attacco in un momento simile, Isaac si disse che il suo cervello faceva brutti scherzi, o forse era umano perdersi in simili pensieri prima di morire.

Non sarebbe sopravvissuto ad un simile attacco così devastante, non avrebbe potuto scansarlo neanche se avesse voluto.

Eppure… eppure tutto parve cristallizzarsi in un istante. Il raggio venne lanciato, o forse no, la mente del giovane ebbe un sussulto, un giramento di testa, prima di essere privato dell’equilibrio da un capogiro e cadere a terra. Gli occhi gli si chiusero, tutto si fece buio. Il tempo parve contrarsi, e poi il nulla per secondi che parvero quasi ore.

Quando Isaac tornò completamente in sé, le palpebre erano ben aperte, fisse verso il cielo distante ma vicino. La schiena per terra, il respiro affannoso.

Era… steso sul permafrost?! Ma quando diavolo era successo?! Come…?!

Mi… dispiace! Anf, anf...

Non era la sua voce, non era nessuna delle voci che aveva udito prima, neanche quella della creatura. Era così dolce, delicato, caloroso, quel suono, così diverso da prima, eppure… Isaac, per qualche motivo sconosciuto lo abbinò subito a Zima.

Si riscosse, accorgendosi di riuscire nuovamente a muovere i muscoli e le giunture, precedentemente bloccate. Le increspature del tempo, prima congelato, stavano lentamente tornando alla normalità.

Il tempo congelato… Isaac realizzò, senza sapere bene come, che qualcuno era arrivato a manomettere il tempo per pochi, brevi, necessari, secondi per riuscire a salvarlo. E quel qualcuno non poteva essere altro che…

Ca-Camus, mi dispiace… mi dispiace enormemente, i-io non…

“V-va tutto bene, Zima, anf… come ti ho già detto prima, ora siamo in due...”

Isaac raddrizzò la schiena, mettendosi a sedere. Costernato, allibito… prima di spalancare la bocca in preda alla più sincera meraviglia.

Camus era davanti a lui, gli dava la schiena, mentre, con le braccia, tratteneva Zima per il muso, posato ora sulla sua spalla destra. Erano entrambi avvolti da una luce dorata e sorprendente, gli occhi chiusi, stremati, lo si presagiva dall’espressione di entrambi, ma avvolti quasi in un abbraccio reciproco che faceva battere forte il cuore.

La luce dorata prese vigore, partiva da Camus e irradiava l’intera creatura, scacciando parte del nero che l’aveva lordata, anche se non completamente. Il liquame era ancora persistente, gocciolava per terra, ma sotto di esso, lo si distingueva sempre di più, il reale colore di Zima stava riprendendo brillantezza.

Perdonami, io… non sono degna di…

“E’ tutto apposto, n-non mi hai fatto… male... S-sono qui, con te, solo questo conta!” biascicò ancora Camus, nel tentativo di tranquillizzarla, in tono tirato e sempre più fievole, ma comunque determinato e dolce allo stesso tempo. Aveva ripreso a respirare male, come prima, ma non se ne curava, posando la sua fronte contro quella della creatura, appena sotto il grosso diadema, o sorta di corno, che -Isaac se ne accorse solo in quel momento!- era spezzato, mentre con le mani, con cui poteva fare mille e più magie, passava ad accarezzargli la linea del muso fino al collo, per poi scendere, fermarsi, e ripartire dal capo.

No… no… no! Cosa… cosa ho fatto, cosa...

“Devi calmarti, Zima, anf… non posso aiutarti se tu, urgh, non me lo concedi...”

Non posso… non posso!!! Morirai, altrimenti!

La creatura si divincolò, spaventata da qualcosa, le forze rimaste a Camus non permisero di impedirle di spezzare quel contatto che era indispensabile per purificarla, si sentì cadere a terra, le ginocchia picchiarono contro il permafrost, tentò subito di alzarsi ma le energie gli mancavano, si ritrovò a tossire e a sputare, suo malgrado, sangue.

Zima sembrava sinceramente sconvolta, spaventata, era tornata parzialmente in sé, ma incespicava tra le zampe, guardando terrorizzata in ogni dove, le pupille dilatate, la lingua a penzoloni, non faceva che ripetere di perdonarla, che non voleva davvero farlo -ma fare cosa?!- e che non aveva rimedi per il male che aveva causato, non da sola.

“Z-Zima...” provò ad intervenire Isaac, accennando un passo, ma la creatura svicolò via, dando loro le spalle e fuggendo in direzione del bosco, vittima dei sensi di colpa.

Isaac si morse il labbro inferiore, fece per seguirla di nuovo, stavolta per aiutarla, non per attaccare, ma Camus alzò il braccio per fermarlo intimandogli di stare indietro. Quella volta l’allievo eseguì docile, ma c’era qualcosa che non andava, il maestro respirava sempre peggio, era rannicchiato al suolo, mentre si sforzava al contempo di alzarsi e di non crollare. Il fiato gli mancava per parlare, ma la sua voce difficoltosamente riuscì comunque a raggiungere Isaac, ancora dietro di lui. Il lungo mantello occludeva parte della visuale sul suo corpo.

“I-Isaac, p-prendi Hyoga e Jacob e portali fuori di qui, al sicuro, mi raccomando, conto su di te! Hyoga è ferito, pensi di… di riuscire a prestargli le prime cure, come ti ho insegnato?”

“S-sì, Maestro, ma voi… voi dove andrete?”

“Vi raggiungo appena possibile, non temere...”

“State… soffrendo!” constatò Isaac, osservandolo alzarsi faticosamente in piedi al quarto tentativo, traballare, prima di sforzarsi di mantenere una postura ritta, sebbene la schiena fosse parzialmente piegata in avanti.

“Non sono io a star soffrendo, Isaac, ma Zima, lei… lei… devo aiutarla!” rantolò, accennando un passo in avanti, ma fermandosi subito dopo perché non ce la faceva a proseguire, era sempre più evidente.

Quella volta Isaac si avvicinò testardamente a lui, il cuore sempre più pesante, protraendo la mano nella sua direzione. Camus, indovinando il gesto, si allontanò alla ben meglio, continuando a mostrargli soltanto la schiena nascosta dal lungo mantello.

“I-Isaac, ti ho detto di andare… se vuoi essere così tanto di aiuto a qualcuno, anf, pensa a tuo fratello Hyoga, ti prego, lui ha bisogno di te!”

“Penserò anche a Hyoga, Maestro, ma non vi lascerò qui, mai! La vostra voce è sempre più fievole, stentata, cosa sta succedendo?! Perché non vi girate e non mi guardate in faccia?!” lo incalzò, in un crescendo di tono. Avrebbe dovuto mantenere il sangue freddo, ma fanculo l’impassibilità, in quel momento non serviva, era lampante che Camus stasse sempre peggio, si nascondeva ai suoi occhi per non mostrare quanto stesse male. Esattamente come anni prima.

“Isa-ac… devo… devo raggiungere Zima, ti prego… sta soffrendo, non posso stare qui. Ti supplico, per stavolta fai il bravo, allontanati con...”

“NON MI ALLONTANERO’, VI HO DETTO, NON FINO A QUANDO NON VI GIRERETE E MI ASSICURERETE DI STARE BENE!”

“Uff, Isaac, mio giovane e coraggioso allievo… - ansimò ancora Camus, voltandosi a mezzo busto per scorgere meglio i suoi occhi. Quell’unico gesto incrinò pesantemente qualcosa dentro Isaac, che letteralmente si sentì morire a quella visione – D-dobbiamo litigare anche in un momento simile? Anf, anf… ti ho… ti ho affidato quanto ho di più prezioso nella mia vita oltre a te, perché so che… di te, anf, ci si può fidare. Diventerai un eccellente Cavaliere di Atena, ne sono c-certo, devi solo capire che, anf… a volte… è necessario rinunciare a qualcosa per un bene più grande, urgh...”

Parole calde e accorate che, in un altro frangente, avrebbero riempito il cuore di Isaac di fierezza mista a felicità, ma che in quel momento gettavano lui ancora di più nella disperazione.

“ED IO DOVREI RINUNCIARE A VOI?!”

“Se la situazione lo richiede… sì! Isaac, anf, sono… sono tanto stanco… ti prego, lasciami salvare Zima con le ultime forze che ho in corpo...”

Camus si era rivolto a lui regalandogli uno stentatissimo sorriso, poi si era sforzato di proseguire nel suo cammino con passo incerto e sempre più pesante, quasi strisciando i piedi, perché ormai anche il solo alzarli richiedeva uno sforzo più che sfiancante.

Quelle parole gremite di orgoglio, quel suo sorriso dolce, contornato dal pallore innaturale del suo volto, dal sudore che gli imperlava la pelle, da quel suo “sono tanto stanco”… Isaac ne fu semplicemente terrorizzato. Il maestro non parlava mai di come stesse lui, mai, l’ammettere quelle poche parole, in quel tono, era una dimostrazione più che lampante che le sue condizioni erano assai gravi. Il ragazzo si ritrovò a tremare convulsamente, prima di scattare nella sua direzione, con l’ovvio intento di fermarlo, perché non poteva proseguire oltre, non poteva muoversi, non poteva!

Lo raggiunse, pensando già alle mille e più frasi da dire per distoglierlo da quella follia, perché era lampante che non ce la facesse più, che era già al di là del suo limite, ma ancora prima di raggiungerlo, le gambe di Camus cedettero, rischiando di farlo accasciare al suolo, su un fianco. Isaac giunse in tempo per impedire alla sua testa di picchiare contro il duro permafrost. Lo prese al volo, gettandosi quasi su di lui.

“MAESTRO!!!” urlò il suo nome, voltandolo in posizione supina per sincerarsi meglio delle sue condizioni, perché qualcosa non andava, qualcosa che...

La vide.

Il suo cuore perse un battito.

Si dimenticò quasi di respirare.

Si sentì mancare.

“N-no… no… dannazione, NO!” riuscì solo a farfugliare, in preda ad un attacco di panico.

Camus non rispondeva più, aveva perso coscienza, e la ragione del suo stato era più che evidente agli occhi dell’allievo, che si inumidirono di riflesso.

“N-no… no! - riprese a farfugliare, dandogli degli scossoni nel disperato tentativo di farlo riprendere.

Tutto inutile. Camus stava immobile, il capo reclinato sul suo braccio, il respiro sempre più dispnoico, le palpebre serrate in un espressione densa di sofferenza, i lunghi capelli, che gli scendevano a cascata, a contatto con il permafrost, si stavano già congelando.

Ma era un’inezia, se paragonato al resto…

Da qualche parte nel cervello di Isaac, una vocina gli sussurrava che il maestro gli aveva insegnato il modo per fermare un’emorragia, tipo punti di pressione, o simili, ma il ragazzo non lo riusciva a rammentare; non riusciva a rammentare nulla di utile in un momento simile, così attorniato dal terrore, e la vita del suo maestro stava scivolando via…

Non riusciva a fare niente… NIENTE! Una lacrima cadde, poi un’altra. Paura, senso di impotenza, oppressione, colpa… tutte quelle sensazioni lo schiacciavano, impedendogli di intervenire attivamente per cercare di salvarlo.

I suoi occhi stravolti non riuscivano a fissare altro che quella stramaledettissima stalagmite di ghiaccio che con precisione quasi chirurgica aveva trafitto il fianco sinistro di Camus, dal quale uscivano rii di sangue che gli insozzavano la pelle adamantina prima di colare a terra, formando un lago di un insano color rosso porpora.

Il tempo parve congelarsi di nuovo. Isaac non riusciva più a quantificare i secondi, i minuti, che passavano spietati, non faceva altro che rimanere lì, imbambolato, del tutto incapace di reagire, mentre l’emorragia di Camus non faceva che privarlo delle energie, della vita.

Una voce dentro di lui gli urlava di agire, Camus era ancora vivo, respirava ancora, più secondi passavano senza un intervento più avrebbe rischiato di perderlo per sempre. Agire, reagire, per Camus. Per salvarlo! Perché quindi stava lì, pietrificato, perché i muscoli non si muovevano?!? Eppure sapeva come fare, gli era stato insegnato, e allora perché… perché…

Uno scossone sulla sua spalla, quasi non lo percepì, i suoi occhi non vedevano altro che quel dannatissimo sangue che non si fermava, solo quello, solo…

SCHIAFF!

Sentì la guancia bruciare, prima di sbattere le palpebre, riscuotersi, e tornare pienamente consapevole di sé. Camus era ancora incosciente tra le sue braccia, ma davanti a lui, nel suo campo visivo, era penetrata un’altra figura famigliare, che ne portava sulle spalle altre due, ancora più famigliari.

Infine riuscì a riconoscerne gli occhi neri, profondi, che lo fissavano con severità, prima ancora che il suono della sua voce.

“Ragazzo, pensi di rimanere a contemplare ancora a lungo l’agonia del tuo maestro, oppure cominciare a fare qualcosa di concreto?! Sta morendo, ha bisogno di soccorso, e tu sei l’unico su cui posso contare, quindi ricaccia indietro quell’espressione da ebete e dammi una mano!” gli disse, perentorio, con asprezza, adagiando con cura Hyoga e Jacob, ancora svenuti, al suo fianco. Sebbene la sua voce fosse ruvida e burbera come di consueto, si poteva percepire nitidamente una sfumatura di preoccupazione.

“Er… er… c-c...” Isaac balbettò lettere prive di senso, mentre, senza troppa premura, Camus gli veniva strappato dalle braccia e accompagnato sul permafrost, dove il mantello gli venne alzato per scoprire interamente l’addome e parte dell’affannoso petto, che vennero tastati più e più volte.

“E-Elisey…”

“Bene, vedo che cominci a razionalizzare qualcosa, sarebbe anche il caso che ti muovessi, ragazzo, la clessidra della vita del tuo maestro va ad esaurirsi piuttosto velocemente! Non che mi dispiacerebbe, in effetti, sarebbe una rogna in meno, vista la sua attitudine a sacrificarsi, ma...”

“ELISEY, NON OSARE O...”

Ma a quella esclamazione, espressa con tutta la forza, Elisey rispose stranamente con un sorriso, che fece sussultare Isaac, ormai tornato completamente in sé e nuovamente pronto ad agire.

“Così, bravo! Quella luce negli occhi, quella determinazione, che Camus considera sacra, usala per salvare la vita del tuo maestro insieme a me, lui… ha bisogno di te!” gli disse, soddisfatto prima di tornare a concentrarsi sul da farsi.

Lui ha bisogno di me, ed io non ho fatto altro che perdere tempo prezioso, fino ad ora. Ho capito, Elisey, il messaggio, ho capito il motivo delle tue provocazioni, vuoi che io reagisca per salvarlo; salvare l’uomo che mi ha fatto crescere, la persona più importante della mia vita. Ebbene lo farò… LO FARO’, DANNAZIONE! Resistete, Maestro Camus, vi supplico, presto starete meglio!

Pensò questo, serrando disperatamente le palpebre, prima di stringere brevemente, ma con forza, la mano sporca di sangue di Camus e attendere direttive da Elisey, dal quale dipendeva la vita del suo amato mentore.

 

 

 

 

 

 

 

Angolo di MaikoxMilo

 

Siete arrivati fino a qua, nonostante la lunghezza del capitolo? Se sì, complimenti vivissimi XD

Ordunque, il capitolo, come vi avevo già detto, è piuttosto impegnativo, anche se il cambio di POV a metà spezza un po’ la pesantezza degli argomenti trattati.

E’ un Camus ben diverso da quello cui siamo abituati, così impegnato nel suo ruolo di Sciamano, così… sovrasensibile, esattamente come vedo la parte più intima del suo essere. La dualità del personaggio è molto forte anche nella versione originale, un uomo che appare freddo e scostante, a tratti insensibile, dall’esterno, eppure che cela dentro di sé un universo inesauribile. La dualità, già accennata nel manga, è qui riproposta e accentuata tra il Camus Sciamano e il Camus Cavaliere di Aquarius, è certamente una prospettiva OOC ma a me piacer molto, spero sia piaciuta anche a voi.

Come già accennato nel capitolo precedente, la prima parte è ispirata, sia come idea, sia come modo di scrivere, al libro “I diari della Kolyma” di Jacek Hugo-Bader, e vede protagonista il nostro Cam nelle vesti di Sciamano che racconta in prima persona (sempre difficoltoso il suo POV, ma mi piace molto trattarlo), una sorta di tributo verso questo racconto che mi ha carpito totalmente.

Camus, nel corso del suo viaggio, incontra numerose persone, mi sarebbe piaciuto scrivere di più su questa parte, ma poi mi sarei persa totalmente e quindi l’ho ristretta (sì, l’ho ristretta, figurarsi cosa era prima XD).

Zima Siyaniye ormai la conoscete, credo, e qui si chiarisce un po’ di più, anche se non totalmente, ciò che le è successo. Zima riconosce Camus solo dopo aver visto i suoi orecchini, che gli ha dato Elisey. Tra lei e Camus ci sono un po’ di discrepanze temporali. Lei lo riconosce perché lo ha aiutato nel 1741, o meglio, riconosce gli orecchini, perché… sono composti con le piume del flauto con cui Seraphina la invoca nella sua storia; Camus invece, qui ha 19 anni, non può ancora riconoscerla Zima, perché i fatti non sono ancora accaduti, anche se è naturalmente propenso verso di lei, ne percepisce il battito, l’essenza, come se fosse la propria, nondimeno ci è già collegato spiritualmente, da qui in poi anche fisicamente, ad opera del tatuaggio che gli ha fatto Nana (anche qui Nana chi è in realtà? XD).

Veniamo alla seconda parte, in cui intervengono i due allievi di Camus e vi è il ritorno alla terza persona al passato.

Qui ho dato maggior lustro al Cigno, se lo è meritato. Ciò che fa Hyoga è semplicemente straordinario, lui sente a sua volta la voce di Zima, cosa che non è in grado di fare Isaac, nondimeno volevo porre l’accento sul rapporto Camus/Hyoga. Ho voluto creare un legame davvero speciale tra Camus e Isaac, lo sapete bene, ma questo NON significa minimamente che l’Acquario non voglia bene anche a Hyoga, affatto.

Adoro il temperamento di Isaac, ma considero Hyoga il vero, degno, successore di Camus, e qui spero di averlo dimostrato. Per Camus i suoi ragazzi sono tutto, scriverei e descriverei di loro all’infinito, mi piacciono davvero tantissimo e mi ispirano un sacco, volevo dargli un’occasione di lottare insieme, ognuno con le proprie attitudini, e quindi eccoli qui, tutti insieme.

Qui Isaac ne esce un po’ danneggiato, possiamo dire, la situazione precipita a causa sua, se ne rende conto anche lui e se ne assume la responsabilità (Isaac è anche questo, implacabile, a tratti spietato, ma maturo abbastanza per riconoscere i propri errori e porvi rimedio).

E ora la vita di Camus è nelle sue mani e in quelle di Elisey!

Lo so, il capitolo doveva essere diviso in due parti, ne sarà diviso in tre, ma già dal prossimo subentreranno anche Milo e Sonia, i veri protagonisti di questa storia. Mi piace l’idea, che realizzerò nei prossimi due capitoli, che la piccola Sonia e Milo conoscano sia Isaac che Hyoga (quest’ultimo prima della Battaglia delle 12 Case), del resto… questo è l’anno incriminato, il 2008, quando Isaac, a settembre, scomparirà tra i flutti del mare. Mi sembra giusto trattare di lui, dei suoi rapporti, in questi capitoli speciali che, spero, gradirete anche voi.

Al solito, alla prossima e ringrazio tutti! :)

  
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