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Autore: Adeia Di Elferas    09/08/2020    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
Capitoli:
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Alessandro, Ascanio ed Ermes Sforza assieme con Giovanni Gonzaga, avevano trovato asilo a Rivalta. La sconfitta in Val Tidone era stata cocente, per non dire umiliante. Malgrado avessero cercato di tenere il punto, i veneziani si erano dimostrati motivati come non mai a distruggerli.

Alla guida dei Serenissimo c'erano Carlo Orsini e Soncino Nenzoni, ma per come la vedeva Alessandro, che pur, quando aveva militato in Romagna, aveva imparato a confrontarsi coi francesi, non poteva esserci sulla terra un esercito più meschino e vile di quello che si era trovato dinnanzi in Emilia.

I veneziani si erano dimostrati infidi, crudeli e al di là di ogni regola. In confronto, la disordinata anarchia dei francesi, sempre più interessati al proprio immediato tornaconto che non alla vittoria finale della guerra, sembrava un pregio.

Capito che la situazione in Val Tidone non si sarebbe risollevata, era stato proprio Alessandro a convincere il fratello, lo zio e l'alleato a cercare rifugio presso i Landi. Si trattava di una famiglia che aveva sempre avuto enormi debiti di riconoscenza verso gli Sforza e che, comandando su territori troppo piccoli per poter davvero interessare a qualcuno, non avevano mai impensierito il Ducato, nemmeno nei momenti di maggior potere e influenza.

Corrado Landi era rimasto attonito, nel veder arrivare i quattro fuggiaschi, ma, fedele al proprio cognome, aveva subito aperto loro le porta del proprio castello. Aveva messo in chiaro, con grande praticità, di non avere gli uomini necessari per aiutarli in una riconquista, ma aveva giurato davanti a Dio di fare tutto ciò che era in suo potere per difenderli durante la loro permanenza a Rivalta.

Gli Sforza e il Gonzaga si erano convinti di non essere inseguiti. Sapevano che i veneziani avevano altri problemi, oltre a loro, in special modo i turchi che minacciavano una nuova incursione sul confine orientale. Avevano sentito poi voci che davano il Doge così disinteressato alla guerra scatenata dal papa da aver dimostrato poco entusiasmo anche all'idea di riscattare due prigionieri che anni prima avevano militato per la Serenissima e che erano pronti a rimettersi al soldo di Barbarigo, ovvero Malvezzi e Martinengo. Il primo pare avesse avuto il permesso di incontrare la moglie a Verolavecchia, ma poi fosse tornato in catene, alla rocca di Cremona, mentre per il secondo il Doge aveva solo fatto qualche timida richiesta di liberazione, senza in realtà passare ai fatti.

Ma il segno maggiore di insofferenza verso le mire francesi stava in una questione diplomatica di cui si chiacchierava ormai ovunque. Giovan Francesco Sanseverino, voltando platealmente le spalle a Milano e ai fratelli, si era messo al servizio del re di Francia, a patto che questi facesse pressioni su Venezia affinché il Doge costringesse i Cavalcabò a restituire tutti i beni sequestrati al Sanseverino all'inizio delle ostilità. Quanto impegno Barbarigo ci avesse messo nel discutere con i Cavalcabò nessuno poteva dirlo, ma il fatto certo era che Giovan Francesco non aveva recuperato nemmeno un pugno di terra.

Quindi, con Venezia così distratta, Alessandro credeva di poter tirare un po' il fiato e trovare il modo di riorganizzare un esercito.

Tutti i suoi progetti, però, si infransero la sera stessa in cui un contingente con bandiera francese, ma verosimilmente di mercenari veneziani, si profilò all'orizzonte, mettendo immediatamente sotto assedio Rivalta. Non ci fu nemmeno il tempo di prepararsi alla battaglia. Perfino Giovanni Gonzaga, che fino all'ultimo si era detto pronto alla lotta, accettò di attendere la cattura senza opporre resistenza.

Corrado Landi, senza poter fare assolutamente nulla per fermare i soldati francesi che avevano fatto breccia nelle mura, straripando in ogni angolo del castello come un fiume in piena, gridò: “Io sono prigioniero come gli altri!”

I suoi occhi erano pieni di terrore, ma non correvano ai nemici. Era il Cardinale Ascanio colui a cui il Landi si stava rivolgendo.

“Conosciamo la vostra anima – si intromise Alessandro, mentre due soldati gli legavano le mani dietro la schiena – sappiamo che ci avete servito fedelmente. Troveremo il modo di sdebitarci.”

Ermes annuì, e altrettanto fece Ascanio. Solo Giovanni Gonzaga, che pure era stato all'inizio il più battagliero tra loro, sembrava terrorizzato.

“Non voglio morire da prigioniero...” disse, mentre in quattro lo tenevano fermo: “Non voglio! Che ci farete? Dove ci porterete?!”

Uno dei mercenari, mostrando un sorriso un po' sdentato, capì vagamente quelle domande, benché non parlasse l'italiano, e così rispose, con una risata secca: “En France, à s'agenouiller devant le Roi!”

 

Firenze era immersa in un clima fresco, croccante come una mela appena colta. Anche se quel giorno si sentiva un po' stanca, la moglie del Salviati non aveva potuto evitare di fare due passi e godersi quel sole tenero e l'aria frizzante sul volto. Anzi, credeva che uscire un po' le potesse solo fare bene. Così aveva atteso che suo marito uscisse per andare alla Signoria, e poi, prendendo con sé due ancelle, aveva lasciato il loro palazzo.

Non che Jacopo le vietasse di uscire per via della gravidanza, che stava procedendo senza problemi, ma, quando lei decideva di prendersi un paio d'ore di svago, lui si lasciava sempre prendere da mille ansie, paventando chissà quali catastrofici incidenti e, anche se alla fine la lasciava andare, Lucrezia si sentiva sempre un po' in colpa per averlo fatto preoccupare tanto, e finiva per godersi meno la passeggiata.

La Medici in quel momento era ferma, facendo finta di osservare il luccicare del fiume in lontananza, ma in realtà stava ascoltando con interesse, ma senza farsi notare, i discorsi di alcuni uomini fermi all'angolo della strada. Più o meno sapeva già di cosa stessero parlando, perché anche Jacopo le aveva riferito grosso modo le stesse notizie, quella mattina, tuttavia le piaceva sentire anche un'altra campana.

Gli argomenti principali erano due. Il primo riguardava il maestro Leonardo da Vinci, che sembrava essere tornato da qualche giorno in Firenze. Doveva subentrare a Filippino Lippi nell'esecuzione di una pala d'altare per la Santissima Annunziata. Qualcuno sosteneva che ormai l'incarico fosse sicuramente suo, dato che era stato visto mentre versava cinquanta fiorini larghi d'oro sul proprio conto alla banca.

Questi dettagli, comunque, a Lucrezia interessavano poco. La notizia che aveva attirato maggiormente la sua attenzione riguardava un condottiero francese, un certo Giannotto. Era diventato a suo modo famoso per aver tradito la Tigre di Forlì proprio all'inizio dell'invasione francese, quando ancora gli uomini del Valentino erano alle prese con Imola. Adesso era passato in modo stabile, o almeno così sembrava, agli stipendi fiorentini ed era impegnato nell'assedio di Verrucola.

Il fatto che un uomo come lui avesse lasciato gli stipendi francesi, unito alle manovre veneziane, sempre più difficili da interpretare, lasciava intendere che, forse, la posizione di Luigi XII si stesse facendo più complicata e che lo slancio iniziale, ormai, non era più sfruttabile. La guerra, quindi, avrebbe potuto andare a spegnersi poco per volta, con il rischio, però, che il papa ne approfittasse per tornare personalmente alla carica, e in quel caso nemmeno Firenze si sarebbe potuta dire immune da rischi.

Lucrezia, che aveva lasciato le sue serve libere di allontanarsi un momento per vedere cosa vendessero i banchetti piazzati sul lungarno, era ancora intenta a rimuginare sulle informazioni che aveva raggranellato a destra e a manca, chiedendosi come queste novità avrebbero influito sulle sorti non solo della città, ma soprattutto della sua famiglia, quando i due uomini che chiacchieravano poco distanti da lei vennero interrotti da un terzo, che portava un cavallo per le redini e aveva l'aspetto di qualcuno che aveva cavalcato per ore senza mai fermarsi.

“Scusate, sapete dove si trova il palazzo degli Scali?” chiese questi, togliendosi un momento il cappello.

I due fiorentini borbottarono qualcosa, senza rispondere, apparentemente non perché non sapessero cosa dire, ma perché quella domanda, così improvvisa e giunta da un uomo di tale aspetto, li aveva lasciati straniti.

“Perché cercate il palazzo degli Scali?” si intromise allora la Medici, incapace di tacere, sorprendendo tutti e tre.

Il viaggiatore fece un cenno con il capo, in segno di reverenza, e si tolse il cappello una volta per tutte, mentre rispondeva, concitato: “Perché devo portare una notizia a Madonna Alessandra. Una notizia luttuosa, purtroppo.”

“Di che si tratta?” indagò Lucrezia, mentre gli altri due fiorentini tornavano a parlare tra loro, disinteressandosi al discorso.

“Il marito di Madonna, il bizantino, è annegato nel Cecina. Ha voluto attraversare il fiume sotto la pioggia, per di più portando addosso l'armatura... Hanno ritrovato il corpo solo adesso e l'hanno fatto tumulare. Messer Maffei mi ha chiesto di venire qui a Firenze a riferirlo alla vedova.” spiegò il messaggero, tenendo lo sguardo basso.

“Mi spiace.” fu il commento, un po' sbrigativo, della Medici.

Anche se avrebbe voluto dimostrare una maggior partecipazione emotiva, in realtà i dettagli rivelati dal messo di Maffei l'avevano subito portata a perdersi nei suoi ragionamenti.

Già intenta a trarre tutta una serie di conclusioni tra sé, la donna pensò che fosse il caso di sforzarsi e dire qualche frase che potesse suonare consona alla situazione: “Mi ricordo messer Marulli, era stato a volte a casa di mio padre. A volte tra lui e Messer Poliziano era difficile dire chi scrivesse i componimenti più belli.”

“Sapete allora dirmi dov'è il palazzo degli Scali?” chiese a quel punto il messaggero.

Lucrezia annuì subito. Richiamò a sé le due ancelle, non molto lontani, e, accompagnandolo addirittura per un pezzo di strada, indicò al messaggero come arrivare a destinazione.

“Siate gentile, con Madonna Alessandra, quando glielo direte...” sussurrò la Medici, sistemandosi meglio il velo primaverile sul capo: “Amava molto suo marito.”

L'uomo la ringraziò per tutto, e, assicurando che avrebbe usato tutto il tatto possibile, si incamminò in solitaria verso il palazzo, la schiena un po' curva, sotto il peso della tremenda notizia che portava con sé.

Mentre lo osservava allontanarsi, Lucrezia si chiese come avrebbe reagito la Scali, nel vederlo bussare alla sua porta e poi nel sentirlo riferire quelle parole di morte. Improvvisamente, la voglia di passeggiare per Firenze l'aveva abbandonata.

Con umore mesto, sempre cercando di mettere insieme gli indizi ottenuti, la donna tornò a casa e, paziente, si mise ad aspettare il marito. L'attesa non le era mai parsa tanto lunga. Quando finalmente sentì la voce di Jacopo all'ingresso, il cuore le saltò nel petto come una scheggia impazzita.

“Che succede?” chiese Salviati, vedendo la moglie corrergli incontro e poi abbracciarlo con furia, mentre ancora indossava il mantello.

Lucrezia non gli rispose subito. Stava annusando l'odore della sua pelle e stava apprezzando la solidità del suo corpo, così presente e vivo. Le bastava quello per rincuorarsi in parte dai terribili pensieri che le avevano rannuvolato la mente in quelle ore di attesa.

Jacopo, appena la moglie si allontanò un po', si levò il mantello e chiese a uno dei servi di non essere disturbato per un po'. Prendendo la Medici per la mano, le chiese di nuovo cosa fosse successo, ma in tutta risposta lei gli chiese di seguirlo nello studio.

Una volta chiusasi la porta alle spalle, Lucrezia si schermì dicendo solo: “Perdonami per averti fatto preoccupare. È che oggi ho pensato molto a quanto possa essere facile perdere all'improvviso ciò che si ama...”

A Jacopo quel discorso non piaceva. Accigliato, si sedette sulla poltrona davanti al caminetto spento e cominciò a cavarsi i calzari: dopo tante ore passate in piedi, era un vero sollievo. Tuttavia, il pensiero che gli stava dando sua moglie andava a disturbare un po' anche quel piccolo attimo di piacere.

“Vuoi spiegarmi cos'è successo, per favore?” domandò di nuovo lui, questa volta con più fermezza.

Solo a quel punto Lucrezia, andando a sedersi sulle ginocchia del Salviati, su suo chiaro invito, raccontò tutto quello che aveva sentito quel giorno, soffermandosi soprattutto sulla parte riguardante la morte di Michele Marulli.

Jacopo si era trattenuto a stento dal dire la sua sul fatto che la consorte fosse uscita senza nemmeno avvisarlo, ma poi anche per lui era finito tutto in secondo piano, dinnanzi alla novità riguardante il bizantino.

“In armatura?” chiese, come a capire se avesse sentito bene: “Stava attraversando il Cecina in armatura..?”

“Così mi ha detto quell'uomo.” annuì la Medici, mentre, distrattamente, scostava una ciocca di capelli dalla fronte del marito.

“Allora è vero quello che si dice...” soffiò lui: “Gli irriducibili della Tigre di Forlì stanno davvero cercando di formare un esercito per recuperare Forlì per lei...”

“Stavano.” lo corresse Lucrezia: “O almeno, sono pronta a scommettere che la morte di Marulli ha frenato, se non proprio annullato, l'entusiasmo dei partigiani della Sforza.”

“Sia come sia...” concluse con un sospiro il Salviati, irrigidendosi appena: “Non mi piace pensare che quando esci a passeggio da sola ti metti a parlare con chiunque. Poteva essere pericoloso.”

“Prima di tutto, non ero sola.” borbottò la donna: “E poi era pieno giorno ed eravamo in mezzo ad altra gente. Non correvo alcun pericolo.”

“Sei comunque una Medici – insistette Jacopo, ostinato – e il tuo cognome, anche di questi tempi, non è il più comodo da portare... Qualcuno potrebbe...”

“Smettila di pensare a quello che potrebbe accadere.” lo rimproverò Lucrezia, posandogli una mano sul petto e chinandosi un po' verso di lui, abbastanza da sfiorargli le labbra con le proprie: “Te l'ho già detto altre volte: sei troppo apprensivo, non devi fare così.”

“Io sarò anche apprensivo – mise le mani avanti l'uomo, dopo aver accettato un rapido bacio della moglie – ma tu a volte ti comporti come se non ci fossero pericoli. In passato ti sei presa dei rischi che...”

“Basta parlare del passato.” tagliò corto la Medici, prima che il marito le ricordasse di come, qualche anno prima, per seguire gli interessi della propria famiglia d'origine, avesse quasi rischiato una condanna a morte: “Pensiamo al presente, è l'unica cosa che conti.”

“Va bene...” soffiò il Salviati, scuotendo la testa, arrendendosi, come faceva sistematicamente nei battibecchi con la propria donna: “Andiamo a mangiare?”

“Hai fame?” chiese Lucrezia, stringendo un po' gli occhi.

“Immagino che tu ne abbia.” la prese alla lunga lui, posandole una mano sul ventre, in cui stava crescendo il loro nuovo figlio: “Devi mangiare per due.”

“Non hai lasciato detto di non disturbarti?” domandò lei di rimando, ricordando ciò che Jacopo aveva ordinato al servo, poco prima.

L'uomo annuì e poi, cominciando a capire le intenzioni della moglie, che si era chinata di nuovo verso di lui, per baciargli la guancia, e poi il collo, fece una risatina un po' nervosa, la stessa, riconosceva Lucrezia, che gli usciva ogni volta in cui si trovava combattuto tra il cedere a una tentazione allettante e il resistervi: “Ma è una mia impressione, o quando sei incinta mi cerchi più spesso del solito?”

“È una cosa che ti dispiace?” indagò lei, infilando una mano sotto il giubbone di lui.

“Direi di no...” la voce del Salviati era ormai sottile, come strozzata, e tanto bastava alla Medici per sapere di averla vinta anche quella volta.

Essere venuta a conoscenza della morte di Marulli le aveva lasciato un'angoscia di fondo che non voleva andarsene. Non poteva non chiedersi cosa avrebbe fatto se, per caso, Jacopo le fosse stato strappato all'improvviso. L'unico antidoto che sentiva di avere era tenerselo stretto finché poteva e come poteva. Tutto il resto era solo uno sterile congetturare che non l'avrebbe portata a nulla.

 

“Il papa passa da una festa a un'altra, da un bacchetto all'altro senza mai fermarsi, e sta gongolando da giorni, ormai...” stava dicendo Francesco Fortunati, in fretta e a voce bassa.

Gli era stato concesso di vedere da solo Caterina, ma solo per pochi minuti, per permetterle di confessarsi prima della cena. Da quando aveva cominciato a riprendersi, l'atteggiamento dei carcerieri nei suoi confronti era cambiato, se n'era accorta subito, benché fosse spesso ancora assopita o addirittura incosciente. Non capiva, però, se fosse una cosa casuale, legata al nuovo responsabile delle guardie, tal Aloisio, o voluta, e, soprattutto, non capiva se per lei fosse un bene o un male.

“Sta gongolando...” disse piano la Leonessa, posandosi le mani in grembo, mentre gli occhi verdi, segnati da quei giorni difficili, indagavano il profilo del piovano: “Per qualche motivo in particolare?”

Fortunati parlava a voce molto bassa, così come la sua interlocutrice, temendo che qualcuno li stesse ascoltando. Doveva sembrare una confessione come tante, quindi, di quando in quando, senza motivo, annuiva in modo comprensivo, oppure faceva un segno della croce, a beneficio di eventuali sguardi indiscreti da oltre la porta.

“Sembra...” sussurrò Francesco, cauto, chiedendosi se fosse il caso di fare una tale rivelazione alla sua signora, o se stesse rischiando una sua reazione plateale: “Sembra che vostro zio Ascanio sia stato catturato a Rivalta.”

La Sforza non aveva mai nutrito un sincero affetto per il Cardinale, perciò quella notizia non la smosse più di tanto. Sollevò un sopracciglio e borbottò qualcosa che il fiorentino nemmeno capì e poi tornò a fissarlo.

“Con lui hanno catturato anche Giovanni Gonzaga e vostro fratello Ermes.” continuò il piovano.

A sentire il nome di Ermes, Caterina ebbe un brevissimo attimo di smarrimento. Anche se da anni, ormai, calcolava il fratello come parte integrante dell'entourage del Moro, e quindi a lei non particolarmente favorevole, non poté fare a meno di dispiacersene.

“Anche vostro fratello Alessandro, dicono che... Sì, insomma, dicono che sia stato preso anche lui e che stia andando in Francia con gli altri.”

Su Roma stava calando un tramonto infuocato, uno di quelli che non si vedevano da parecchio tempo, per colpa della pioggia. Se non fosse stato per la fatica di alzarsi dal letto, anche la Tigre avrebbe voluto osservarlo dalla finestra.

Occhieggiando proprio in direzione dell'orizzonte rosso sangue, la donna commentò, con la voce un po' roca: “Mi spiace, per Alessandro.”

Fortunati, che pur si sentiva sollevato nel vedere la reazione composta della sua signora, parimenti stentava a riconoscerla. Era vero, la Tigre aveva spesso mostrato una certa freddezza, anche dinnanzi a notizie catastrofiche per il suo Stato o per i suoi familiari, ma in fondo alla sua ritenutezza c'era sempre stato un fuoco acceso, la rabbia, il dolore, o la paura. Quella volta, invece, era apatica. Dispiaciuta, quello sì, ma senza più le medesime spinte vitali che l'avevano sempre contraddistinta.

“Ora di cena.” disse la voce cupa di Aloisio.

“Posso restare io...” si offrì il piovano.

“No. È stato incaricato il coppiere.” tagliò corto il carceriere, guardandolo di traverso.

Il papa in persona gli aveva detto di tenere d'occhio quel Fortunati. Il fatto stesso che avesse chiesto di essere imprigionato solo per poter continuare a essere il padre confessore di una spergiura come la Sforza non aveva mai convinto il pontefice. Quindi, pur non potendo negargli quei colloqui, per paura di imbattersi nella reprimenda dei francesi proprio in quei giorni così concitati per la politica italiana, Alessandro VI voleva essere sicuro che non vi fossero tra i due più contatti del necessario.

Caterina, sempre stando seduta a letto, la schiena contro la testiera, fece un cenno a Francesco. Il coppiere era per certo Baccino, e a lei andava bene.

Quella sarebbe stata, tra l'altro, la prima volta in cui avrebbe di nuovo mangiato ciò che le veniva direttamente offerto dal papa. Fino a quel mezzogiorno, Argentina in persona si era premurata di nutrirla con latte e miele, ma il medico aveva detto che si poteva tornare a una dieta solida, e così avrebbero fatto.

Un po' recalcitrante, Fortunati si decise a salutare la sua signora. Finse di imporle l'assoluzione, e poi andò alla porta. Poco dopo, arrivò proprio Baccino, con un vassoio su cui stavano una tazza di zuppa fumante e un piattino con carne e formaggio.

“Che mensa abbondante, per una povera prigioniera.” commentò la Leonessa, a beneficio di Aloisio, che osservava tutto come un aquila.

“Lasciate lì le cose – fece il carceriere, rivolgendosi al cremonese, indicandogli il mobiletto accanto al letto – si servirà da sola.”

“Non credo di farcela.” colse l'occasione lei, mostrando quanto le fosse difficile anche solo sollevare un braccio: “Se mi lascerete sola con la cena, finirà che non la mangerò. Cosa diranno i vostro superiori, se finissi a morire di fame proprio mentre siete voi a farmi da guardia?”

Aloisio sembrava combattuto tra il darle ragione e il fare la voce grossa.

Fu Baccino, intromettendosi, a dipanare la matassa: “Resto a imboccarla. Per me non è un problema. Sono un coppiere, in fondo. Posso fare anche questo senza problemi.”

L'uomo del papa lo guardò per un lungo istante, poi passò alla prigioniera. Entrambi sembravano tranquilli, come se avere o meno il suo permesso di stare insieme da soli in quella stanza fosse per loro indifferente. Certo, Aloisio avrebbe potuto restare lì ad assistere, ma non aveva alcuna intenzione di farlo. Senza contare che, restando dietro la porta a spiare, avrebbe potuto scoprire qualcosa di interessante.

“E sia.” concesse alla fine: “Ma fate in fretta. Non voglio che il coppiere resti qui più dello stretto necessario.”

Baccino, allora, annuì e, portando con sé il vassoio, si sedette sul letto accanto alla Leonessa. Si atteggiò come se servire la cena al prossimo fosse da sempre stato il suo mestiere, e la sua serietà convinse tanto il carceriere, quanto anche la Sforza, benché sapesse che in realtà il cremonese era sempre stato un soldato e basta.

Mentre Aloisio tornava fuori dalla stanza, Baccino immerse il cucchiaio nella zuppa di pasta e verdure e, dopo averci soffiato sopra, lo avvicinò alla Leonessa. La donna, però, fissava l'intruglio con un'espressione affranta, come se si trattasse di un veleno mortale.

“Credi sia avvelenato?” chiese Caterina, dando voce a ciò che il suo volto già esprimeva.

Baccino sapeva benissimo che il male della sua signora era stato interpretato da alcuni come un avvelenamento, e quindi trovava la domanda più che logica.

Annusò la zuppa e poi sussurrò: “A me sembra buona...”

Subito dopo, però, si trovò davanti a una scena che lo spiazzò. Non era abituato a vedere la Leonessa in un tale stato di prostrazione. L'aveva vista sconfitta dal Valentino, abbattuta nel corpo e nell'animo, disperata, all'idea di essere in balia delle voglie del Borja... Ma non l'aveva mai vista con quel panico folle dipinto in volto.

Scuotendo il capo ripetutamente, la donna alzò a fatica una mano, dicendo, in fretta e ostinatamente: “No, no, non lo voglio. Mi vogliono avvelenare, ma io non voglio morire così, non voglio, non lo mangio, non voglio...”

Baccino avrebbe voluto dirle di calmarsi, per non attirare l'attenzione del carceriere che, per certo, doveva essere appena dietro la porta, in attesa di udire qualcosa di strano che giustificasse un suo pronto ritorno in stanza. Però non trovava le parole giuste, e così se ne stava con il cucchiaio a mezz'aria, più spaventato che mai nel vedere una donna che aveva sempre considerato pressoché irriducibile farsi così distorcere dalla paura.

“Chiama... Chiama Argentina, sì, preferisco avere ancora il miele che mi dà lei. Argentina saprà cosa darmi...” risolse alla fine Caterina, schiacciandosi un po' di più verso la testata del letto, come a sottrarsi fisicamente alla cena che le era appena stata portata.

“Aspetta. Devi mangiare.” insistette allora Baccino: “Sei dimagrita già abbastanza. Non potrai resistere a lungo, se non metti nella pancia qualcosa di solido...”

Il cremonese aveva abbassato un momento lo sguardo, per rituffare il cucchiaio nella zuppa e prenderne una porzione un po' più piccola, sperando così di invogliare poco per volta la sua signora a mangiare. Quando, però, risollevò gli occhi, scorse quelli della Sforza, e questa volta, più che la paura, trovò in lei una cieca disperazione.

Aveva le sclere arrossate e stava per mettersi a piangere. Era palese come la sua mente fosse incastrata in un labirinto da cui non poteva uscire. Il brontolio del suo stomaco indicava che la sola vista di quel cibo le metteva fame, ma di contro il terrore di stare di nuovo male le impediva di accettare qualcosa che agognava così tanto.

“Facciamo così...” sussurrò Baccino, dopo essersi guardato furtivamente alle spalle, per assicurarsi che nessuno li stesse guardando e quindi potesse insospettirsi: “Lo assaggio prima io.”

“No! Se fosse avvelenato..!” cominciò a dire la donna, ma il giovane aveva già trangugiato la prima cucchiaiata, e se ne stava già portando alla bocca una seconda.

Anche Baccino era affamato. Sia a lui, sia agli altri che componevano il seguito della Leonessa non era stato negato il cibo, ma non si poteva nemmeno dire che fossero alimentati a sufficienza. Così, seppur mosso dal sincero tentativo di tranquillizzare la Tigre, il cremonese si trovò a mangiare anche un po' del resto delle pietanze che aveva portato con sé, e riuscì a fermarsi solo quando sentì di nuovo la voce di Caterina.

“Non sono avvelenati..?” chiese lei, scrutandolo con gli occhi ancora lucidi, ma con un velo di speranza ad ammorbidire la sua voce.

Il ragazzo scosse il capo: “No, no, mi sembra tutto buono...”

A quel punto, vinta dalla fame e rassicurata nel vedere che al suo amante non era capitato nulla, la Sforza si lasciò imboccare come stabilito. Siccome il suo stomaco era rimasto vuoto per giorni, la Tigre si rese conto di dover fare continuamente delle brevi soste, per riuscire a tenere tutto nella pancia.

Così, tra una cucchiaiata e l'altra, cercando di darsi una breve tregua, la donna provò a dire qualche parola: “Hai sentito di quello che è successo ai miei parenti a Rivalta?” chiese, mentre Baccino mescolava la zuppa, per intiepidirla e per far passare un po' di tempo, in attesa di preparare un nuovo boccone.

“Sì.” annuì lui, mesto: “Mi spiace.”

“Non avrebbero dovuto fuggire.” ribatté, dura, la Leonessa: “Se fossero rimasti sul campo fino alla fine, sarebbero morti con onore. Invece sono finiti in catene come... Come me.”

“Hai saputo di Pirovano?” chiese a quel punto il cremonese, mentre le offriva una nuova cucchiaiata.

La donna mastico e deglutì e solo dopo qualche secondo ribatté, con gli occhi ancora lucidi: “Non mi interessa nulla di lui.”

Baccino avrebbe voluto farle sapere che Giovanni da Casale era scappato una volta di più, e che si diceva fosse al sicuro, forse pronto a riorganizzare un esercito per salvare il Moro dai francesi. Il tono perentorio che lei aveva usato nel rispondergli, però, gli tolse subito la voglia di metterla a parte di quei dettagli.

“Davvero non ti interessa più nulla di lui?” domandò comunque il ragazza, che pur ricordava come, anche quando era stato indifendibile, Pirovano era sempre stato protetto e scusato dalla sua amante.

“Avevamo un accordo.” spiegò la donna, mentre Baccino cominciava a porzionare la carne e il formaggio: “Ci eravamo giurati una cosa importante, lo avevamo fatto più di una volta, anche quando eravamo soli nella nostra stanza, anche dopo aver passato assieme tutta la notte l'uno tra le braccia dell'altra...”

Il giovane sentì il collo avvampare, nell'udire quel discorso. Sapeva benissimo che la Leonessa aveva vissuto una passione duratura e importante, per Giovanni da Casale, ma il modo affranto con cui aveva ricordato quei momenti lo aveva fatto sentire un illuso, nel credere di poter essere anche solo lontanamente calcolato come un uomo importante nella vita della Sforza. Lei, era chiaro, aveva tenuto in palmo di mano ben altri uomini...

“Avevamo un accordo vincolante.” riprese la donna: “E lui ha fatto come nulla fosse. Sapeva meglio di chiunque altro che io...”

La voce le si ruppe un momento, così Baccino ne approfittò per darle ancora un po' di cibo. La Leonessa masticò con lentezza, assaporando la carne, e poi fece un lungo sospiro.

“Sapeva che preferivo la morta in battaglia a una prigionia. Sapeva che per me era peggio questo, che non morire trafitta da una spada sul campo. Mi ha tradita. I motivi per cui l'ha fatto, però, non mi interessano. Posso perdonargli tante cose, ma questa no, a prescindere dalle motivazioni che l'hanno mosso.”

Dopo quella perentoria conclusione, la Sforza non disse altro e nel giro di pochi minuti sia la ciotola, sia il piatto furono completamente puliti.

“Adesso devo andare...” sospirò Baccino, sentendo la porta alle sue spalle cigolare: “Ma se sei d'accordo, chiederò di essere sempre io a portarti da mangiare. Così ti farò da assaggiatore.”

“No, è troppo rischioso.” si oppose la donna tirando un po' su con il naso, ancora non del tutto ripresasi dall'accesso di panico avuto prima di cenare.

“Lo farò e basta.” tagliò corto il giovane e poi, mentre Aloisio entrava in stanza, raccolse tutto quanto, mettendolo con ordine sul vassoio e si alzò: “Passate una buona notte, mia signora.” le augurò, assumendo un tono formale, proprio degno di un coppiere di corte.

“Avete mangiato tutto...” commentò il carceriere, lanciando un'occhiata alla Tigre, mentre scortava Baccino verso l'uscita: “Il Santo Padre ne sarà molto felice... E suo figlio Cesare ancor di più.”

Quelle ultime parole diedero una stretta allo stomaco della donna, che dovette fare del suo meglio per non vomitare tutto quello che aveva difficoltosamente ingerito fino a quel momento.

 

Era quasi fine aprile, e a Gian Giacomo Milano sembrava solo l'allegoria stinta della città che era stata. Era quasi come se i francesi non fossero passati mai da lì, e anche come se gli sforzeschi non avessero mai cercato di riprendersi la città con la forza.

Quando era entrato per Porta Vercellina aveva avuto subito quella sensazione strana e appiccicosa, come se l'umidità di quel giorno nuvoloso avesse impregnato le case, la strada, i suoi abiti e perfino la sua pelle. Per quanto aveva amato Milano in gioventù – tanto, si disse, da arrivare a odiarla nel vedersela negare – ora che aveva passato la soglia del sessant'anni non vedeva altro che difetti in quella città.

Il nuovo Governatore di Milano, il Cardinale di Rouen, Georges d'Amboise, che di anni ne aveva venti in meno, sembrava non scorgere invece alcuna aberrazione nel profilo di Milano. Anzi, i suoi placidi occhi chiari sorridevano a ogni via e ogni scorcio, come se tutto fosse solo un immenso dono da scartare poco per volta.

Il Trivulzio provava per lui una mal celata invidia. Forse anche per questo gli aveva parlato pochissimo, da che erano in viaggio. E forse anche perché non gli piaceva il suo volto, così tragicamente francese, con il mento squadrato e il naso grosso a fare capolino sopra una bocca perennemente arricciata in un sorriso falso.

“Io mi fermo qui.” spiegò Gian Giacomo, quando affiancarono il palazzo di Porta Romana: “Voi proseguite fino agli alloggi che spettano al Governatore...”

Il Cardinale di Rouen annuì, ringraziando in un italiano quasi incomprensibile e poi fece cenno ai soldati che lo seguivano di scortarlo fino a destinazione.

Il Trivulzio avrebbe dovuto accompagnarlo, ma non ne aveva alcuna voglia. In più, voleva risolvere in fretta un'altra questione, ben più importante dell'insediamente di Georges d'Amboise.

Aveva chiesto, a titolo di compensazione per tutti i danni subiti durante la rivolta popolare che aveva corroborato la temporanea riconquista del Moro, che gli venissero concesse le sostanza di tutti i sudditi che avevano agevolato la causa sforzesca.

I portavoce del re di Francia avevano accettato quasi subito questa richiesta, ma la pratica sembrava essere molto più complicata della teoria.

Entrando nel suo palazzo di Porta Romana, il Trivulzio chiamò a sé uno dei suoi servi più fidati, uno di quelli che aveva mandato avanti a riaprire la casa in attesa del suo arrivo.

“Prepara i miei abiti da viaggio – gli ordinò – e un bagaglio leggero, non ho intenzione di fermarmi fuori più del necessario, ma certe riunioni non si sa mai quanto dureranno...”

Era stato ordinato un Consiglio di Guerra ad Abbiate per il giorno successivo, e Gian Giacomo non poteva mancare. Tuttavia, avrebbe di gran lunga preferito potersene restare a Milano a curare i propri affari, piuttosto che perdere ore e ore a discutere dell'ordine pubblico. Tanto immaginava come sarebbe andata a finire: dopo grandi dibattiti, l'unica soluzione per mantenere la calma a Milano sarebbe stata quella di impedire a borgognoni e francesi di entrare in città. A quel punto, se anche avessero infastidito qualche villico, non sarebbe più interessato a nessuno.

Ritiratosi un momento nelle sue stanze, il condottiero si mise in poltrona e poi si sistemò sulle ginocchia la scarsella che portava alla cinta. Non se n'era reso conto, ma aveva ancora con sé lo stampo della medaglia coniata in onore della vittoria a Novara.

“Expugnata Alexandria: deleto exercitu: Ludovicum Sfortiam Mediolani ducem expellit.” lesse a bassa voce, scandendo ben bene le parole, nel tentativo vano di trovarvi qualcosa di glorioso o esaltante: “Reversum apud Novariam sternit, capit.”

Malgrado tutto, benché avesse provato davvero una vertigine, nel capire di aver fatto prigioniero Ludovico Sforza, non riusciva a provare gioia, per quella vittoria. Se fosse perché ormai stava invecchiando o perché davvero non vi fosse nulla per cui festeggiare, nell'aver dato Milano in pasto agli stranieri, Gian Giacomo non avrebbe saputo dirlo.

 

 
   
 
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