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Autore: darsal    16/08/2009    0 recensioni
Mia seconda fic. Devo avvisarvi che non l'ho corretta proprio bene, mi scocciavo un casino, e poi voglio vedere come scrivo di getto, senza correggere. Quindi lamentatevi quanto volete grz. "ero io a non essermi svegliato, a non aver preparato la sveglia la sera prima; a non essere stato abbastanza attento, in poche parole."
Genere: Avventura, Sportivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Pensai di non arrivare in tempo, ma me lo meritavo: ero io a non essermi svegliato, a non aver preparato la sveglia la sera prima, a non essere stato abbastanza attento, in poche parole

Pensai di non arrivare in tempo, ma me lo meritavo: ero io a non essermi svegliato, a non aver preparato la sveglia la sera prima; a non essere stato abbastanza attento, in poche parole. Mancava all’incirca mezz’ora all’inizio del concerto, ma per arrivare a piedi, seppur correndo, ci voleva almeno il doppio del tempo, e le porte dello stadio non aspettavano di certo me per chiudere. Appena sceso di casa presi la prima di una lunga serie di scorciatoie che, probabilmente, conoscevo solo io: vicoli sperduti dal mondo, buchi negli steccati di alcuni giardini (anche se quelli non erano del tutto leciti) e balconi da scavalcare. Fortunatamente conoscevo bene il parkour, non per niente i miei compagni, nonché miei maestri, erano tra i migliori a livello nazionale. Calcolai che con quelle scorciatoie avrei potuto guadagnare una decina di minuti scarsi, che probabilmente mi avrebbero permesso l’ingresso allo stadio giusto in tempo. Con il primo vicolo evitavo un enorme giro inutile del parco pubblico, ma l’entrata era occupata da due cassonetti dell’immondizia. Ovviamente per me non erano un problema: presi una piccola rincorsa, saltai quanto più in alto possibile, un saltello mortale in avanti giusto per fare spettacolo nel caso in cui qualcuno mi stesse osservando, ed ero nel vicolo, a correre come un forsennato per scavalcare la grata che chiudeva l’uscita alla strada principale. Per sorpassarla mi ci volle l’aiuto del muro: col piede destro mi diedi una spinta verso l’alto per poter raggiungere il culmine della grata, l’afferrai e mi catapultai dal lato opposto. Purtroppo avevano da poco riverniciato la grata di un magnifico arancione acceso, così, dopo l’acrobazia, le mie mani risultarono simili a quelle di un Simpson abbronzato. Ripresi a correre appena toccato terra. Quel giorno era di fine primavera, ma il caldo era pari ad un giorno di piena estate. Fortunatamente ebbi il buonsenso di indossare pantaloncini corti e cannottiera. Solo le scarpe erano da ginnastica, pesanti, ma quelle mi servivano obbligatoriamente, se non volevo ritrovarmi spiaccicato con la faccia sull’asfalto. Presi la strada che portava al ponte che univa le due sponde del fiume che divideva esattamente la città in due zone: noi le chiamavamo zona dello stadio e zona cittadina. La prima la chiamavamo così perché lo stadio era l’unico nostro punto d’incontro. Poco prima di arrivare al ponte passai davanti ai due grattacieli che fungevano da “ingresso” allo stradone principale. La prossima scorciatoia mi evitava una rotonda immensa, anche se il tempo guadagnato era pari ad un paio di minuti, sempre meglio che niente. Purtroppo la scorciatoia prevedeva un saltello un po’ pericoloso. Presi la rincorsa, saltai e mi aggrappai ad un cartellone pubblicitario, uno di quelli a forma di U rovesciata. Dondolai un po’ e mi lasciai andare verso il secondo cartellone, cercando di afferrarlo con i piedi. Il pericolo era una sorta di piramide posta al centro della rotonda, giusto tra i due cartelloni. Se avessi preso la punta della piramide con la testa non solo non avrei assistito a quel concerto, ma non mi si sarebbe mai più ripresentata l’occasione di vederne un altro. Fortunatamente la testa viaggiò ben più in su della piramide, ma non appena toccai il secondo cartellone il mio cuore si fermò per un millesimo di secondo: l’avevo preso con la suola della scarpa destra, il che voleva dire che la possibilità di aggrapparmi era andata a farsi benedire, e di certo una caduta sullo spigolo della piramide non sarebbe stato molto piacevole. Ma l’istinto di un free runner è un tantino diverso da quello di un uomo che corre e fa una capriola. Istintivamente non feci alcuna pressione col piede destro, permettendo alla gamba sinistra di aggrapparsi alla barra del cartellone. Restai così appeso per una sola gamba, in equilibrio precario, così subito portai la gamba destra al di sopra della barra del cartellone e feci presa anche con essa. Dondolando, notai gli sguardi di alcuni automobilisti che mi guardavano esterrefatti, le donne impaurite, le bambine e i bambini divertiti e incuriositi. Mentre ero appeso per una sola gamba mi era sembrato di sentire addirittura un urlo di spavento. Era bello dare spettacolo, ma non potevo perdere tempo. Dondolai un paio di volte e con un altro salto mortale atterrai coi piedi per terra e ripresi la mia corsa sfrenata. Un ingorgo di macchine bloccava la strada, ma senza alcun problema, con il salto del gatto (ci si lancia col corpo allungato su di un auto, si fa presa con le mani e ci si spinge oltre la vettura) superai in un battibaleno tutte quelle macchine. Ero quasi arrivato al ponte, data l’ora potevo ancora farcela in tempo. Arrivato all’inizio del ponte, notai delle transenne che bloccavano il passaggio. Inizialmente pensavo che avessero cementato, quindi pensai di poter scavalcare e continuare in qualsiasi caso. Decisi comunque di avvicinarmi lentamente e vedere cosa fosse successo. Con frustrazione e collera vidi che era esattamente il contrario di ciò che avevo pensato. Avevano letteralmente demolito una parte di suolo, cosicché, se avessi tentato di scavalcare, avrei finito col farmi un bel bagno. Ma, essendo un free runner, avevo più possibilità di passare all’altra sponda senza giri immensi. Inizialmente analizzai il salto, sperando di potercela fare spingendomi quanto più potevo sulle gambe. Capii poi che era inutile. Analizzai ogni altro appiglio per vedere se potevo scavalcare, ma pensai che era troppo pericoloso: se fossi caduto in acqua avrei perso ogni speranza di vedere il concerto, anche se un bel bagno fresco mi allettava non poco. Analizzai qualche altra possibilità, e quasi subito trovai il rimedio giusto. Mi avvicinai al corrimano del ponte, ci saltai su e cominciai a correrci sopra, sperando che il ponte non crollasse. Probabilmente la fortuna era dalla mia parte quel giorno, perché il ponte non crollò. E, ripensando anche a quanto c’era mancato ad uno scontro fatale con la piramide, pensai che dovessi essere davvero fortunato. Ma finora era passato il tratto più semplice. Nella zona dello stadio c’erano addirittura dei nemici a cui dovevo sfuggire: nemici veloci e abili, con zanne taglienti, tanta fame e la rabbia. I cani erano tra i peggiori ostacoli, anche se, con alcuni accorgimenti, potevano essere facilmente seminati. Dopo il ponte, tenuto conto delle scorciatoie, la strada per lo stadio era tutta diritta, lunga, ma diritta. Il ponte era anche l’ingresso per il parco pubblico della zona dello stadio. A una trentina di metri c’era il primo ostacolo. Il tronco di un enorme quercia secolare, caduta solo un paio di giorni prima, che era anche l’albero più antico e grande di tutta la città. Il suo diametro si avvicinava ai due metri, ma era una passeggiata superarla. Un semplice salto bastò per lasciarmi dietro il tronco. Molte persone mi osservavano mentre correvo, e alcune di loro, la maggior parte giovani, mi prendevano in giro:”corri che arrivi primo” gridavano, ma io non rispondevo alle loro offese, anche perché non mi colpivano più di tanto. Correvo imperterrito verso la mia meta, facendo, durante quel lungo tratto di strada priva di ostacoli, una sorta di lista delle cose che avrei dovuto portarmi: zaino con panini, coca cola, birra, aranciata, mortadella, salame, speak, sottilette, formaggi e acqua; macchina fotografica o videocamera; telefono cellulare e soldi. Mi sbocciò un sorriso sulle labbra quando mi accorsi di aver portato solo i soldi e il cellulare. Intanto correvo, e il fiato cominciava a farsi pesante. Il primo ostacolo si presento sotto forma dell’ingresso posteriore del parco, che quel giorno era chiuso per problemi di manutenzione. Nessun problema, sapevo già cosa fare: mi arrampicai su una barra del cancello, lo percorsi in tutta la sua altezza e mi lanciai all’esterno, compiendo una capriola quando toccai terra per evitare danni ai piedi, dati i tre metri e mezzo di altezza da cui mi ero gettato. Continuai la mia corsa per lo stradone principale, quasi sempre attraversato da numerose macchine, eppure tanto grande che c’era ancora tantissimo spazio libero dove camminare. Una macchina mi sfrecciò davanti, quasi mi investì, suonando il clacson per mandarmi a quel paese. Ma, oltre lo spavento iniziale, non ci prestai molta attenzione. Tra poco sarebbero arrivati i cani, ed erano quelli il problema più grosso a cui pensare al momento. Il problema più alto e lungo, invece, arrivava ora. Quella zona la chiamavamo Indiana Zones, un po’ per prendere in giro il film Indiana Jones, un po’ perché assomigliava ad un vero e proprio bazar del film di Aladdin. Sembrava di essere in medio oriente: palazzi color sabbia; vicoli stretti stracolmi di muretti che collegavano le mura di due palazzi vicini; casette di piccole dimensioni alternati ad alti palazzi. L’unica anomalia era la presenza di numerosi cumuli di immondizia e alcuni drogati che ne avevano fatto la loro tana. Per evitare i drogati e l’immondizia, dovevo attraversare il vicoletto passando di muretto in muretto. Serviva una gran rincorsa per il primo salto. Partii dall’altro lato della strada, mi fiondai nel vicoletto di fronte e, aiutandomi con le pareti dei palazzi, salii sul primo muretto di collegamento. Alcuni ragazzi mi urlarono contro come cani rabbiosi, ma una volta giunto sul primo muretto non dovevo più preoccuparmene. Ebbi come l’impressione che il telefono stesse volando via dalla tasca, così mi portai subito la mano alla gamba per controllare, ma solo per ricordarmi che le tasche avevano le cerniere. Non persi tempo a controllare l’altra tasca, quella in cui avevo i soldi, ma mi precipitai verso il secondo muretto. Quando fui salito sul secondo muretto controllai l’orologio: mancavano ancora venti minuti, ed io ero ancora troppo lontano. Ora arrivava la parte più difficile e pericolosa della scalata dell’Indiana Zones. Il terzo muretto era troppo distante per poterci arrivare con un semplice salto. Dovevo camminare sulla parete, almeno quattro o cinque passi, saltare sul palazzo opposto, non più distante di un metro e mezzo, e aggrapparmi al davanzale della finestra che mi trovavo di fronte. L’ avrò fatto si e no almeno quattro volte, ma la paura delle mani sudate, di scivolare durante la traversata, di cadere e rompermi qualcosa di importante era molta. Presi coraggio, un respiro profondo e mi lanciai sul muro. Il primo passo era quello più importante, perché stabiliva l’aderenza, la velocità e la distanza del secondo passo. Spinsi il piede destro in lungo con molta forza e appoggiai il piede sinistro sul muro. Lo stesso feci col terzo ed il quarto passo, facendo ben attenzione a non incrociare le gambe e rischiare una brutta caduta. Appoggiando il quinto passo, col piede destro, il cuore mi si fermò in petto per un lunghissimo istante. Sentivo l’adrenalina scorrermi nelle vene, il sudore bagnarmi il viso e l’acido lattico che cominciava a prodursi nei muscoli delle gambe. Il quinto passo era essenziale. Una volta aderito per bene al muro, mi piegai verso il muro quanto più potevo, preparandomi a spiccare il balzo dal lato opposto. Sentì le mani sudate, e questo mi fece una grande paura, quanta non avevo mai provato in vita mia. Una volta raggiunto il massimo della carica, mi spinsi con tutta la forza verso l’altro palazzo, verso i davanzale che mi avrebbe salvato la vita. In quell’istante in cui il mio cuore era fermo ed io non avevo che aria intorno a me, una voce si rivolse alla mia famiglia, dicendo che le volevo bene, e ciò mi fece ancora più paura. Ma quando col piede toccai il palazzo e le mie mani fecero presa sul davanzale, il cuore riprese a battere così improvvisamente che quasi mi spaventai, sentii una felicità immensa per non essere morto, e ringraziai le mie mani per non essere scivolate nonostante il sudore. Ma non potevo perdere tempo, così, quasi immediatamente lasciai il davanzale con la mano destra e con essa mi aggrappai al terzo muretto. Appena la presa fu salda, mi portai al centro del vicolo e, facendo ben attenzione che nessuno mi stesse tra i piedi, mi lasciai andare e caddi sull’asfalto della strada dal lato opposto del vicoletto. Alcuni drogati ricominciarono a gridarmi contro, ma io ritornai a correre vero lo stadio senza badarvi. Tutto sommato non ero proprio così lontano, l’unico problema erano i cani e il resto degli ostacoli. Ritornai sulla strada principale, questo tratto era completamente deserto, d’altronde non portava in nessun posto particolare. Entrai in un piccolo giardinetto al di là della strada, scavalcai qualche siepe, alcune panchine e mi ritrovai di nuovo sulla strada principale. Attraversai per l’ennesima volta e mi diressi verso il groviglio di palazzi che avevo di fronte, ed eccoli lì, come ad attendermi da chissà quanto tempo, che mi guardavano con gli occhi iniettati di sangue e a bava alla bocca: i cani affamati e rabbiosi erano a protezione di un vicolo, e proprio quel giorno dovevano badare a quello in cui dovevo passare io. Pensando a come distrarli, inciampai in un pezzo di legno e mi venne un’idea. Lo raccolsi e cominciai a camminare questa volta, in direzione dei cani sempre più vicini, quei cani che mi guardavano fisso eppure non si muovevano. Sembrava che stessero aspettando che io mi avvicinassi per chissà quale ragione. Cominciai a giocherellare col bastone di legno, pensando se fosse meglio usarlo per respingere un eventuale attacco o lanciarlo nella speranza che quegli stupidi cani gli corressero dietro: optai per la prima scelta, la più sensata e di certo la più probabile. Il problema era che io amavo gli animali, e non mi sarei mai sognato di pestarne qualcuno: l’unica colpa nei loro confronti era l’assassinio di un centinaio di formiche, una miriade di zanzare e due o tre mosche, ma chi non aveva mai ucciso un insetto in vita sua? Persino Padre Pio avrà schiacciato qualche zanzara che gli dava il tormento. Mi feci coraggio e mi avvicinai a passo più deciso. Ormai erano vicinissimi, eppure non un solo accenno di attacco, ed ora che ero più vicino notavo che i loro sguardi non erano famelici, bensì tristi e abbattuti. E quando fui troppo vicino, mi resi conto che non avevano a minima intenzione di attaccarmi, oppure non ne avevano le forze. Erano tre cani, due labrador e un pastore tedesco. Abbandonai il bastone, rallentai il passo, dimenticandomi momentaneamente del mio obiettivo. In testa avevo solo i volti tristi e affamati dei cani. D’un tratto ebbi un lampo di follia: mi controllai nella tasca dove avevo messo i soldi, li presi e li contai. Erano più del doppio del biglietto d’ingresso, levando i soldi per una birra e un panino, mi restavano abbastanza soldi per….. D’un tratto mi fermai, mi guardai intorno e vidi ciò che cercavo: una macelleria. In un impeto di pensa e compassione, i avvicinai al negozio, chiesi tre fette di carne, pagai, e ritornai dai cani. Vedendomi con le fette di carne più grosse, e forse le uniche, che avessero mai visto, i cani saltarono in piedi e cominciarono a scodinzolare, capendo immediatamente le mie intenzioni. Presi la prima fetta di carne e la lanciai in direzione del pastore tedesco (per quanto amante degli animali, preferivo non avvicinarmi per precauzione), che la afferrò al volo, se la portò in un angolino del vicolo e cominciò a mangiarla. I due labrador diedero una veloce occhiata al loro compagno, poi riportarono la loro attenzione su di me, o meglio, sulle due fette di carne rimanenti. Presi entrambe le fette e le lanciai contemporaneamente, in direzioni opposte. I cani seguirono le fette di carne, le presero da terra e andarono entrambi vicino al pastore tedesco, scodinzolando, felici di aver ricevuto un pranzo quantomeno decente. Sapevo che quelle fette di carne non sarebbero bastate, ma non potevo fare di più. D’un tratto mi ricordai improvvisamente del concerto, guardai l’orologio: mancavano solo dieci minuti. Potevo farcela, ma avrei dovuto correre, saltare e ancora correre. Mi fiondai nel vicolo, passando di fianco ai cani, che non mi degnarono neanche di uno sguardo. Verso la fine del vicolo, un balconcino di una casa a pianterreno del palazzo occupava il passaggio. Osservando che non ci fosse nessuno, saltai verso la ringhiera, entrai nel balconcino, il tempo di poggiare i piedi per terra che ero di nuovo in aria, e in meno di cinque secondi fui fuori dal vicolo. Il posto oltre il vicolo era una zona di uffici e aziende, colma di palazzi, giardinetti, panchine, fontane e giovani che andavano sui pattini. Poco dopo il vicolo c’era una grande fontana in funzione. Preso dal caldo mi levai al volo la maglia, mi fiondai nella fontana, con l’acqua gelida che mi investì completamente ed improvvisamente, la gente che mi guardava stupita e divertita. Uscito dalla fontana per poco non scivolai, provocando una sonora risata di molti presenti. Fregandomene altamente del giudizio altrui, mi arrotolai la maglia alla vita e ritornai a correre. Il fiatone si faceva pesante, ma l’acqua fresca sulla pelle alleviava la sofferenza dovuta dall’eccessivo caldo. Durante la mia corsa mi ritrovai a scavalcare panchine, aiuole, e persino persone sedute sulle panchine. Dovetti scavalcare numerosi muri di divisione tra una zona e l’altra, e molto spesso dall’altra parte mi aspettavano lunghe rampe di scale interrate che minacciavano di farmi prendere botte pesanti. Mi ci vollero sette minuti per percorrere tutta la zona degli uffici. Appena fuori dal centro direzionale (così la gente chiamava quel posto) intravidi lo stadio: grande, aperto, tutto di pietra e gremito di persone in fila, di macchine parcheggiate e sorveglianti in divisa blu a spasso con i loro cani da guardia. Vista la fila per entrare, mi presi qualche secondo di pausa per analizzare il percorso per arrivare allo stadio attraverso le macchine, ma non c’era molto su cui riflettere: girare in tondo occupava troppo tempo, e inoltre i miei compagni stavano quasi per entrare, intravidi l’enorme zaino rosso acceso di Paolo e i numerosi elmetti porta-birre. Non mi restava altra soluzione. Salii sulla prima macchina, una Ford Mondeo, e cominciai una piccola traversata, calpestando delicatamente i cofani di Peugeot, Fiat, qualche Porsche e una Lamborghini blu elettrico. Fortunatamente nessuno mi notò, così quando toccai di nuovo terra, a pochi metri dalla fila quasi conclusa, nessuno mi guardò storto. Alcuni miei compagni si voltarono e mi guardarono, mi fecero cenno di raggiungerli e così feci.

 

 

Il concerto fu strepitoso, il più divertente che avessi mai visto: c’erano cartelli di tutti i tipi, scoprii di avere in tasca una somma maggiore di quella che avevo contato, così potei comprarmi due panini, una birra e una red bull. I panini erano mediocri, ma la birra era ottima. Paolo, Carmine, Sara e Laura avevano portato videocamere e fotocamere, Gianluca, Domenico, Antonio e Chiara si erano occupati di panini e bevande, il resto ognuno per se. Io fui l’unico a non aver portato niente, ma non mi trovai per niente in difficoltà. Tornando a casa, passai nuovamente per il vicolo dove avevo dato le fette di carne ai cani, che però non c’erano più. Quando tornai a casa, mi infilai sotto la doccia, con acqua fresca, e mi insaponai per bene. Uscito dalla doccia si espanse per la casa un odore forte di pino. Non appena mi fui vestito (in estate indossavo solo un paio di pantaloncini), sentii un rumore continuo, simile al guaito di un cane, provenire dall’ingresso. Subito insieme ad esso si unì il rumore di qualcuno o qualcosa che grattava incostantemente la porta. Spaventato mi avvicinai alla porta, guardai dallo spioncino ma non vidi nessuno. Il guaito era appena fuori dalla porta. Decisi di lasciar perdere, così presi un succo di frutta dalla cucina e mi stesi su divano, con l’intenzione di vedere un po’ di tv. Il guaito però diventava sempre più insistente. Posai il succo sul tavolino di fronte al divano e andai alla porta, prendendo la mazza da baseball di mio padre. Lentamente toccai la maniglia, la abbassai lentamente, facendo attenzione a non fare rumore, poi aprì di scatto, per avere l’effetto sorpresa. Inizialmente non vidi nessuno, poi sentì qualcosa strusciarmi contro i piedi. Abbassai lo sguardo: erano i due labrador e il pastore tedesco a cui avevo dato da mangiare poco prima, mi avevano seguito fino a casa. Commosso, aspettai che entrassero tutti e tre, incurante della sporcizia che portarono in casa, e richiusi la porta. Ma, viste le impronte di terreno che lasciavano, decisi immediatamente di lavarli. Li portai in bagno, aprì l’acqua, portandola a temperatura normale, e riempii un po’ la vasca. Non sapendo cosa aggiungere, decisi di fare un mix di shampoo e bagnoschiuma, il cui risultato fu una montagna di bollicine. I cani non attesero alcun tipo di ordine e, attratti dalle bollicine, saltarono uno alla volta nella vasca, che era abbastanza grande da accoglierne due, ma tre erano troppi, così finirono per allagare il bagno e anche me. Mi divertii un sacco a lavarli per bene, sporcandomi a più non posso. Il problema, dopo essermi rifatto un’altra doccia, era asciugare tutto prima che arrivassero i miei: erano le 24:45, mancavano due ore all’arrivo dei miei genitori. Le faccende, nonostante il disturbo di Lilly, Lucky e Max (rispettivamente i nomi che diedi al labrador femmina, al labrador maschio e al pastore tedesco), furono concluse in un’ora, così ebbi tutto il tempo di addormentarmi, per terra in camera mia, avvolto dai cani.

Quando mi svegliai il giorno dopo i cani non erano con me, e mi spaventai. Corsi in cucina e vidi Lilly, Lucky e Max che osservavano mia madre mentre cucinava: i miei avevano deciso di tenerli, e da allora non fui più solo in casa.

  
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