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Autore: Adeia Di Elferas    15/08/2020    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
Capitoli:
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Da quando aveva saputo della morte del marito, Alessandra Scali non era mai riuscita a smettere davvero di piangere. Benché sembrasse fare piccole pause per mangiare o per dormire, di fatto i suoi occhi erano umidi giorno e notte, e di rado parlava con qualcuno, a meno che non fosse espressamente richiesto il suo intervento.

Malgrado sapesse benissimo dove fosse stato sepolto Michele, non aveva ancora avuto il coraggio di lasciare Firenze per recarsi sulla sua tomba. Si trincerava dietro la scusa di dover badare ai figli di Caterina Sforza, ma di fatto tutti in casa avevano capito che semplicemente la donna non voleva vedersi davanti a una lapide solo per non arrendersi all'ineluttabile verità.

Ottaviano aveva reagito con freddezza al dolore della donna che lo stava ospitando ormai da mesi, e non aveva saputo dire altro se non qualche parola estremamente formale di condoglianze. La sua mente si era subito rivolta ad altro. Anche se non conosceva a fondo i progetti che Marulli stava portando avanti, né sperava di poter scoprire di più parlandone con la Scali, era abbastanza certo che la morte del bizantino sarebbe andata a rallentare qualsiasi piano riguardante loro e la loro madre.

Come se non bastasse, anche se non aveva apertamente cominciato a cercarli, si diceva che Lorenzo Medici avesse il sentore che i figli della Tigre fossero a Firenze. Forse soprattutto per quello, aveva messo in giro delle voci secondo cui avrebbe presto chiesto di nuovo l'affidamento di Giovannino, a meno che Ottaviano Riario, l'unico mallevadore dell'accordo fatto con la Sforza presente in Firenze, non pagasse la rata della cauzione scaduta ormai da tempo. E con Fortunati a Roma, e Luffo Numai a Forlì, il primogenito della Leonessa era sicuro che alla fin fine sua madre avrebbe davvero dato la colpa a lui, insolvente, se il Medici fosse riuscito a trovare Giovannino alle Murate e a prenderselo.

In definitiva, sapere che Michele era annegato nel Cecina, nel Riario aveva solo causato una catena di ragionamenti che l'avevano portato a chiudersi in camera tutto il pomeriggio per scrivere un piccolo plico di lettere, tutte destinate a Roma, più un'altra, che, invece, sarebbe dovuta finire il prima possibile tra le mani del fratello Cesare.

Sforzino aveva dimostrato la propria afflizione per la morte di Marulli come meglio poteva, ma dopo un paio di frasi, seppur molto gentili e accorate, non era riuscito a fare altro, per lenire la sofferenza di Alessandra.

Era stato comunque più propositivo di Bernardino che, spaventato come lo era sempre stato dal dolore altrui, come lo era dal proprio, cercava di non trovarsi mai da solo in presenza della Scali e, nelle lunghe giornate che la donna aveva trascorso in casa, rifuggendo la mondanità e la vita pulsante di Firenze, il piccolo Feo aveva spesso trovato il modo di svignarsela, uscendo dal palazzo la mattina presto e tornandovi solo per mangiare.

Galeazzo, tra tutti i figli della Tigre, era quello che aveva avvertito fin da subito il più forte senso di colpa. Pur sapendo di non essere la causa diretta della morte del bizantino, era altrettanto cosciente del fatto che se Marulli non si fosse mai lasciato trascinare dalla Leonessa di Romagna in quella guerra senza speranza, probabilmente sarebbe stato ancora vivo e accanto alla moglie.

Quella sera, quando tutti si erano ormai ritirati dopo la cena e solo Alessandra era rimasta ancora nel salotto, vicino al camino, Galeazzo aveva deciso di provare a farsi avanti e dire quello che pensava. Riteneva fosse un comportamento onorevole, un comportamento da uomo, ed era certo che sua madre sarebbe stato fiero di lui, se avesse saputo del modo in cui stava cercando di esporre il proprio sentire.

“Madonna Alessandra...” sussurrò, mentre si avvicinava, titubante, alla poltroncina imbottita su cui stava appollaiata la donna.

La Scali voltò appena il viso, riconoscendo subito la voce dell'ospite che più di tutti apprezzava, sia per la compostezza che sapeva dimostrare, sia per il rigore con cui si comportava in ogni situazione.

“Mettiti vicino al fuoco.” disse piano lei, indicandogli l'ottomana che le stava dirimpetto: “So che ormai siamo in maggio, ma mi sembra che faccia ancora così freddo...”

Galeazzo non volle sindacare sul fatto che, in realtà, lui trovava che dall'inizio del mese, spente le violentissime piogge che avevano funestato l'aprile, avesse davvero cominciato a fare caldo e che starsene davanti a un camino acceso non era esattamente il massimo.

Sedutosi, guardò distrattamente le fiamme e poi schiuse le labbra carnose per cominciare a esporre ciò che provava, ma la donna fu più rapida di lui, e spense con la propria voce ogni sua iniziativa di spiegarsi.

Stringendosi un po' nello scialle, la Scali sussurrò: “So che hai appena quattordici anni, ma credo che tu sia il più maturo, tra i tuoi fratelli.”

Il Riario non disse nulla. Abbassò gli occhi verdi e si passò di nuovo le mani sulle cosce, nervosamente. Non capiva dove volesse andare a parare Alessandra, e ciò lo metteva a disagio, tuttavia non se la sentiva nemmeno di interromperla, così la lasciò proseguire.

“Ho ripensato molto a quello che sto facendo, in questi giorni.” fece la donna, asciugandosi l'angolo dell'occhio con il dorso della mano: “Mi sono chiesta se ne valesse la pena o no. Tenendovi in casa mia, non rischio solo con il papa, ma anche con Lorenzo Medici.”

Galeazzo sentì un brivido lungo la schiena. Indagava il profilo deciso della padrona di casa e non riusciva a capirne l'espressione. Nei suoi occhi scuri, che brillavano alla luce del focolare, si poteva trovare in egual misura odio e paura, determinazione e rabbia. I suoi capelli bruni, raccolti in un'acconciatura modesta, adatta all'abito a lutto che portava, a quell'ora tarda cominciavano a sfuggire dalla retina e dalle spille, ricadendo in piccole ciocche sul collo e sulla fronte. Nell'insieme, Alessandra in quella penombra era l'immagine stessa della disperazione, e tuttavia la sua voce era ferma, senza il minimo tremito.

La Scali si portò una mano alle labbra e poi, scuotendo appena la testa, disse: “Michele credeva moltissimo in questa cosa. Ha rischiato tutto, ha dato tutto... Lui era un uomo come pochi: se ha fatto così, significa che ne valeva la pena, anche se io non riesco a capirlo ancora fino in fondo.”

Galeazzo ormai teneva le dita rigide, un po' piegate, sulle ginocchia, e lo sguardo puntato su Alessandra. Colpa forse della calma serale, della luce quasi spettrale del camino, che inondava a fiotti il piccolo salotto, o forse ancora del suo stato d'animo, così indecifrabile e ramingo, in quel momento quella donna gli pareva quasi una figura surreale.

“Non mi sono mai fidata davvero di nessuno, in vita mia. Solo di Michele.” decretò la Scali, raddrizzando un po' il collo e spostando finalmente lo sguardo dalle fiamme al Riario: “Quindi se lui ha creduto in questa causa, ci credo anche io.”

Il ragazzino deglutì. C'era più forza nel modo in cui quella donna lo stava fissando che tutto il suo discorso.

“Quindi ci terrete qui con voi?” chiese Galeazzo, per accertarsi di aver compreso davvero le parole della sua interlocutrice.

“Non posso fare altrimenti.” annuì lei: “L'ho giurato a Michele e non tradirei mai la sua fiducia. Il mio compito, ora, è tenervi al sicuro al meglio che posso, finché posso.”

“Spero che arrivi l'occasione giusta per sdebitarci per tutto quello che state facendo per noi.” riuscì a sussurrare Galeazzo, mentre Alessandra si alzava e lui faceva altrettanto.

“Fatti abbracciare.” il tono materno con cui la Scali aveva parlato sciolse in un attimo il riservo del Riario che, docile come il bambino che spesso sentiva di essere ancora, si abbandonò per un attimo alla stretta della donna.

Alessandra, che non aveva mai avuto figli, trovò in quel momento un conforto che non aveva mai conosciuto. Di contro, Galeazzo, che aveva sempre ricevuto pochi – seppur intensi – gesti d'affetto da parte della madre, scoprì in quell'abbraccio un sollievo tanto profondo da sentirsi sollevato come mai in vita sua.

Dopo qualche secondo, entrambi con un velo di riluttanza, i due si allontanarono e la Scali, con la voce bassa e po' roca, salutò il ragazzino: “Adesso è tardi. Vai a riposare. Stai tranquillo, finché ci sarò io, qui a Firenze avrete sempre qualcuno pronto a difendervi.”

 

Il sole ancora timido di maggio scaldava piacevolmente anche la stanza di Caterina, in cima alla torre che dava sul Belvedere. Un po' per via dei pasti sostanziosi, che era tornata a consumare regolarmente, e un po' anche grazie a quel clima nuovamente mite, la Tigre si sentiva via via più in forze, tanto che spesso lasciava il letto per fare qualche passo nella camera, o si sedeva alla scrivania e leggeva qualche riga dell'unico libro che le era stato concesso: il Vangelo.

Quella sera, però, si sentiva stranamente prostrata. Era stata una giornata difficile, viziata da una fastidiosa cefalea che, secondo lei, era stata anche accompagnata da un po' di febbre.

Era così stanca, che, quando Baccino era arrivato con la cena, aveva addirittura cercato di mandarlo via e non mangiare. Solo l'insistenza del cremonese aveva fatto sì che, una cucchiaiata dopo l'altra, la Leonessa mangiasse tutto il minestrone e poi, pezzo per pezzo, tutto lo sformato di pesce di fiume.

A cena quasi conclusa, anche grazie alla compagnia del giovane, la Sforza poteva dire di sentirsi molto meglio.

“Oggi è successo qualcosa di interessante?” chiese, facendo finta di pulirsi la bocca per coprire le labbra e rendere più difficile, eventualmente, al carceriere Aloisio capire cosa stesse dicendo.

Baccino annuì appena e, mentre preparava un altro boccone di pesce per la sua signora, raccontò, svelto, e a voce bassissima: “Oggi è arrivato in città Achille Tiberti, il papa l'ha ricevuto, gli ha assicurato che gli sarebbero state saldate le paghe arretrate e poi gli ha riconosciuto una provvigione mensile di cinquanta ducati e il comando di una compagnia di cavalieri romagnoli.”

Caterina restava sempre stupefatta dall'efficienza del cremonese nel reperire le informazioni. Lui le aveva spiegato che da quando era ufficialmente incaricato di occuparsi dei suoi pasti, gli era concessa maggiore libertà e lui la sfruttava al meglio.

Quali che fossero i reali metodi con cui il ragazzo otteneva tutte quelle notizie, alla Leonessa interessava molto marginalmente. Ciò che contava, per lei, era provare a capire cosa stesse succedendo in Vaticano, e non solo, e con quelle informazioni decidere cosa fare.

“Grazie.” disse piano la Sforza, mentre Baccino, paziente, le portava alla bocca anche l'ultimo pezzo di sformato.

Quasi per certo, la donna non aveva più bisogno di qualcuno che la imboccasse, ma il cremonese aveva preso molto sul serio il suo ruolo e così, oltre ad assaggiare tutto quello che c'era nel vassoio, in modo da assicurarsi che non vi fosse nulla di avvelenato, non si faceva problemi ad accudire la sua signora come avrebbe potuto fare con una bambina piccola.

“Sei ancora debole...” sussurrò lui di rimando, mentre la Tigre masticava in silenzio: “Mi occupo di te volentieri.”

“Non solo per questo...” fece lei, deglutendo: “Per tutto quanto.”

In quel momento, Baccino si trovava molto vicino a lei, più di quanto non fosse stato fino a poco prima. Poteva indagare ogni dettaglio del suo volto e quasi sentire il calore del suo corpo. Caterina invocava da giorni un bagno caldo, ma i suoi carcerieri glielo avevano rifiutato costantemente, trincerandosi dietro la scusa della malattia e dei rischi di ricaduta connessi al lavarsi. Così, i capelli della Leonessa erano più arruffati e meno profumati del solito, ma al ragazzo piacevano ugualmente, malgrado fossero sempre più bianchi e sottili.

“Questo è il minimo che posso fare.” mise in chiaro Baccino, perdendosi per un istante negli occhi verdi della milanese: “Se solo potessi, vorrei fare molto di più, per te.”

Fu un secondo, fugace. Il cremonese si scordò della presenza infida e silenziosa di Aloisio, che probabilmente stava sempre origliando dietro la porta, e anche tutto il resto svanì: la prigionia, lo spettro della morte che sembrava sempre dietro l'angolo e l'angoscia del non sapere come sarebbe stato il futuro. Tutto ciò che restava, per lui, era Caterina.

Senza ragionarci, il giovane si sporse ancora un po' in avanti, cercando con le proprie labbra quelle della sua signora. La Sforza non capì subito cosa il suo amante stesse facendo. Le sembrava un gesto così assurdo e così fuori luogo, da non poter credere che stesse davvero cercando di baciarla.

Nel momento stesso, però, in cui sentì il contatto caldo e morbido che Baccino aveva cercato, la donna reagì d'impulso, scostandosi in modo plateale e allungando le braccia per tenerlo a distanza.

Il ragazzo comprese il suo errore, ma solo in parte, tanto che si addossò subito ogni colpa, dicendo, in fretta: “Perdonami, perdonami... Io... Sono stato uno sciocco, io so di non... So che per te non sono nulla.”

“Sei tu che devi scusarmi.” lo zittì Caterina, tenendo gli occhi chiusi, stretti in un'espressione dolente: “Non è vero che non conti nulla, per me. È solo... Troppo presto.”

Travisando di nuovo il motivo della ritrosia inattesa della Tigre, il cremonese annuì e ammise: “Sì, è da troppo poco che Giovanni da Casale ha...”

“Lui non c'entra nulla.” tagliò corto la Sforza, decidendosi a spiegarsi apertamente: “La colpa è del figlio del papa.”

Finalmente Baccino cominciò a capire e, all'improvviso, tutte le voci e i racconti delle serve che avevano aiutato Argentina a prendersi cura della Leonessa cominciarono ad avere molto più senso e spessore.

“Scusami...” ribadì lui, questa volta con una mestizia diversa nella voce: “Ho agito senza pensare.”

“Non c'è nulla di cui scusarti.” fece eco la donna: “Solo... È troppo presto.”

Mentre il cremonese annuiva, apparendo convinto, e cominciava a riordinare le cose sul vassoio, nessuno dei due si accorse di Aloisio, che, insospettito da qualche suono che non gli era parso familiare, si era messo a guardarli, con discrezione, da dietro la porta socchiusa.

'Questo fatto – pensò il carceriere, tutto soddisfatto – interesserà di certo al Duca Valentino, e magari pure al papa suo padre...'.

“Ti aspetto domani, per il pranzo.” sussurrò Caterina, con un breve sorriso.

Quelle poche parole, all'apparenza banali, bastarono a Baccino per spazzare via tutte le insicurezze che il rifiuto – seppur motivato – di poco prima aveva addensato nella sua mente.

“A domani.” la salutò lui e poi, raddrizzando la schiena, andò alla porta, annunciando che il servizio era concluso, e che poteva essere riaccompagnato alla sua cella.

 

Cesare Borja stava guardando fuori dalla finestra, verso i giardini di suo padre. Lucrecia camminava tranquilla accanto al marito, indicando di quando in quando qualche fiore che si stava schiudendo sotto al sole di maggio.

Il Valentino non riusciva a togliere gli occhi di dosso da Alfonso, e sembrava quasi che l'Aragona lo sapesse. Certo, non poteva capire chi lo stesse osservando, dato che il Duca se ne stava accuratamente nascosto dietro il tendone, sbirciando con cautela, senza mostrarsi. Il giovane napoletano, però, avvertiva il suo sguardo rapace addosso, tanto da continuare a voltarsi a destra e a sinistra, come per accertarsi di non essere seguito da qualcuno.

Il Borja stava ripensando, distrattamente, a ciò che Aloisio gli aveva riferito riguardo alla Tigre di Forlì e a uno dei membri del suo seguito. Il coppiere di cui il carceriere gli aveva parlato gli era sempre parso troppo in forze e di bell'aspetto, per essere solo un servo della donna, ma, di fatto quella mezza conferma offerta da un bacio dato solo per metà, a lui serviva molto poco.

Ben più importanti trovava i maneggi internazionali, specie quelli riguardanti Firenze. Ormai c'erano sospetti abbastanza fondati sul fatto che i figli della Sforza fossero lì, anche se, purtroppo, il quadro politico e i rapporti di forza tra il papa e la Francia erano cambiati abbastanza da impedire a Cesare di pretendere che i giovani Riario venissero cercati e prelevati a forza.

La Repubblica si stava indubbiamente impattando in qualche modo con Luigi XII, cercando di escludere Roma, che si trovava sempre più isolata. Se, infatti, da un lato Napoli sembrava in cerca di nuovi alleati e teneva buoni gli Aragona sposati coi figli del Santo Padre al solo scopo di temporeggiare per avere modo di riorganizzare l'esercito e prepararsi al peggio, dall'altro Firenze aveva potuto chiedere alla Francia di riavere Pisa, Pietrasanta Serezzana e Montepulciano. I trentamila fiorini offerti come indennizzo per quelle città erano un nonnulla: se il re avesse accettato di mediare questa riannessione, si sarebbe potuti stare certi che Firenze avesse ormai superato Roma, come braccio destro di Luigi XII.

Alfonso, nel giardino, stava facendo segno di no a una qualche richiesta di Lucrecia. La ragazza, però, non sembrava esserne troppo contrariata, anzi, aveva preso sul ridere il diniego, e cercava di tirare per il braccio il marito, come a volerlo convincere a seguirla da qualche parte.

Nervoso, insofferente com'era stato sempre più spesso da quando il cognato Cesare era rientrato a Roma, l'Aragona si divincolò malamente dalla stretta, spegnendo la leggerezza della moglie che, capendo infine che non fosse il caso di giocare ancora, si fece più seria e disse qualcosa che incupì ancora di più il napoletano.

E poi fu un momento. Soprappensiero, il Borja si era affacciato in modo un po' più palese alla finestra, e, per caso, proprio in quell'istante Alfonso aveva sollevato lo sguardo. Anche se a una notevole distanza, i due si fissarono occhi negli occhi per un paio di secondi.

L'Aragona, avendo conferma della sensazione odiosa di essere osservato, sollevò appena l'angolo della bocca e poi disse qualcosa a Lucrecia. Anch'ella guardò verso l'alto e, vedendo il fratello, in un gesto istintivo di protezione, si aggrappò al braccio del marito.

Senza più dire nulla, entrambi iniziarono a camminare svelti, uscendo dal campo visivo del Valentino nel giro di meno di un minuto.

“Passeggia quanto vuoi, intanto che ne sei in grado.” bisbigliò, caustico, il Duca, allontanandosi una volta per tutte dalla finestra.

Indeciso sul da farsi, il figlio del papa si aggirò senza meta per la stanza ancora qualche minuto, poi, dicendosi che avrebbe discusso con il suo amico Michelotto, per valutare meglio che farne, di un cognato scomodo come Alfonso, andò alla porta.

Aveva quasi varcato l'uscio, quando uno degli uomini che aveva personalmente incaricato di tenere sott'occhio Fortunati, Braccio e tutti quelli che sembravano troppo interessati alla sorte della Tigre, arrivò quasi di corsa.

“Entrate.” fece Cesare, capendo, dal suo sguardo, che dovesse esserci qualche novità.

Tornati nella saletta, la spia gli porse una lettera e disse: “Arrivata poco da Firenze. Stava per essere consegnata a qualcuno che potesse darla alla Sforza. L'abbiamo intercettata. L'abbiamo letta e crediamo che possa interessarvi.”

Il Valentino fece un cenno con il capo e poi, prendendo la missiva, e chiese all'uomo di aspettare un momento. Voleva prima rendersi conto di cosa dicesse, per poi decidere che farne.

Notò con piacere il lavoro finissimo che era stato fatto nell'aprirla in modo da poterla richiudere senza che nessuno potesse accorgersi che era stata intercettata. Non perse però tempo a complimentarsi con il delatore, perché fin da quando lesse la prima riga, la sua attenzione fu tutta per le parole scritte da un mittente insperato: Ottaviano Riario.

Il figlio del papa lesse tutto quanto per ben quattro volte. Alla fine, pensieroso, sporse in fuori le labbra. Anche se la prima idea era stata quella di distruggere la lettera, per impedire ogni contatto tra la Tigre e il suo erede, ragionandoci sopra appena un po' giunse a tutt'altra conclusione.

Non era un mistero che la Leonessa sopportasse poco Ottaviano e lo ritenesse un incapace. Dato che, in fin dei conti, nella sua lettera il Riario diceva ben poco e, anzi, sembrava pure poco informato sulle reali condizioni di detenzione della madre, il Borja pensò che lasciare che Caterina la leggesse non fosse un male. Anzi, probabilmente si sarebbe sentita ancora più sola, persa e disperata, nel leggere le parole a un tempo ingenue e arroganti di un figlio che detestava.

“Richiudetela, e fate in modo che finisca a chi doveva finire all'origine.” ordinò Cesare, restituendo la lettera alla spia.

Questi, senza fare commenti, assicurò che l'avrebbe fatto immediatamente, e se ne andò.

'Sono pronto a scommettere – pensò il Valentino, tornando alla finestra, di nuovo preda delle sue elucubrazioni – che quella lettera la farà stare peggio di qualsiasi cosa possa dirle io...'.

 

Andrea Bernardi si stava vestendo lentamente, quel giorno. Non gli piaceva andare ai funerali e, anche se negli anni si era trovato spesso a provare un sincero e sviscerato odio per Leone Cobelli e per la sua lingua appuntita, gli metteva una tristezza infinita saperlo morto.

Era pieno maggio, e cominciava a far caldo, ma al Novacula parve buona creanza indossare il giubbone più bello che aveva, regalatogli dal Duca Valentino in persona, benché fosse di pesantissimo raso e dal bordo in pelliccia. In effetti, quando glielo aveva fatto confezionare, si era in pieno inverno, e dunque aveva un senso che fosse fatto a quel modo.

Abbassando lo sguardo sulle proprie mani che stavano litigando ancora coi lacci del giubbone, Andrea stentò a riconoscerle. Da mesi, ormai, non lavorava più, ma si dedicava alla scrittura e a ben poco altro. Qualche macchia di inchiostro che non se ne andava nemmeno con l'acqua ragia e un paio di calletti nati laddove premeva la penna dimostravano quale fosse la sua maggior occupazione. Tutti gli anelli, forse troppo grossi e pacchiani, che gli appesantivano le dita, invece, dimostravano la provenienza della sua improvvisa ricchezza.

A Forlì, da quando il Borja era partito, la situazione era diventata difficile. Anche se gli uomini del Duca imponevano la loro presenza con la forza, non passava giorno che qualcuno provasse a ribellarsi. La cosa che faceva sempre sorridere mestamente il Novacula era vedere come i ribelli spesso erano tra quelli che un tempo si erano opposti fermamente alle richieste di coesione della Tigre.

Il suo compito, ben spesato direttamente dalla Santa Sede, era quella di scrivere ciò che accadeva a Forlì e dintorni, ammorbidendo le spigolature e smussando gli angoli, in modo che, un giorno magari nemmeno troppo lontano, leggendo il suo resoconto tutti trovassero solo parole di lode per il governo borgiano. Se il compenso che gli era stato accordato fosse eccessivo, Andrea non sapeva dirlo. Lo accettava e ne godeva, e tanto gli bastava. Gli aveva, anzi, anche permesso di dare ospitalità a una delle sue cognate rimasta vedova e a tre sue nipoti. Nella casa grande in cui aveva potuto prendere dimora c'era spazio per tutti.

Accigliandosi, l'uomo sentì le campane suonare e capì di essere in ritardo. Doveva sbrigarsi, se voleva arrivare in chiesa in tempo per la funzione.

Uscito di casa, attraversò in fretta la strada e poi andò rapido verso la chiesa di Santa Croce. Si era subito detto che quella era la miglior chiesa in cui seppellire Cobelli. Arrogante e sbruffone come era sempre stato, avrebbe adorato l'idea di essere tumulato in una chiesa dal nome tanto altisonante.

Quando giunse a destinazione, il funerale era appena cominciato. Si mise in fondo alla chiesa, ma attirò ugualmente moltissimi sguardi. Sapeva benissimo che la curiosità nei suoi confronti non era dovuta solo alla ricchezza dei suoi abiti, ma anche alla rivalità manifesta che c'era sempre stata tra lui e Leone.

Così, fingendosi più affranto di quanto non fosse, il Novacula assunse un'aria contrita e abbassò lo sguardo, perdendosi nei suoi pensieri. Mentre il prete e i suoi diaconi intonavano inni sacri per accompagnare l'anima del borioso Cobelli fino in cielo, Bernardi non poté evitare di origliare le chiacchiere della gente.

Era forse una deformazione professionale, la sua, fatto stava che riusciva a seguire anche più di una conversazione contemporaneamente. Dopo una decina di minuti, però, smise di ascoltare.

Si era aspettato commenti su Leone Cobelli, positivi o negativi a seconda della bocca da cui fossero usciti. E invece, anche quel giorno, come ogni giorno da che aveva lasciato Forlì in catene, l'unica protagonista delle chiacchiere dei forlivesi era Caterina Sforza.

Si chiedevano dove fosse, se fosse davvero ancora a Roma, se fosse viva, se fosse in carcere o se avesse trovato accordi con il papa, se avesse con sé i suoi figli o se li avesse nascosti davvero a Venezia o a Firenze, se fosse riuscita a rigirare anche il Borja nello stesso modo in cui aveva rigirato come guanti tutti gli uomini che avevano avuto la sfortuna di imbattersi in lei...

Nauseato dai commenti più volgari, rincuorato da quelli nostalgici e avvilito da quelli viziati dalla cattiveria e dal risentimento, Bernardi attese paziente di vedere la bara di Cobelli sparire nel suo tumulo di pietra, e poi corse a casa, senza intrattenersi con nessuno.

Chiusosi nel suo studio – un'ampia stanza tutta dedicata alle sue storiografie, ben diversa dal cubicolo in cui si ritirava anni prima, nel retro della sua barberia – prese il necessario per scrivere e si sforzo di buttar giù qualche riga che commemorasse il dipartito Leone.

Specificò la data della morte, ovvero il 14 maggio. Raccontò brevemente del mestiere principale di Cobelli, ovvero il pittore, e della sua infanzia trascorsa quasi tutta in Francia. Gli riconobbe il merito di aver scritto una valida storiografia della nascita di Forlì, e di essere un bravo suonatore.

Infine, calato come non mai nella parte del pennivendolo asservito al potere, si disse che al Duca di Valentinois sarebbe piaciuta una descrizione magniloquente, per un eccelso figlio di Forlì. Perché era ben noto che per dar lustro a una città conquistata, andava dato lustro ai suoi cittadini.

Così, stringendo un po' gli occhi, grattando rapido la pagina, Bernardi scrisse: 'Ed era home bene proporcionato, bianco e colorito, et molto amabile infra hogne persona, e masima dali nostre Signore et Principe passate, che senpre de contenuvo i avea date qualque provisione.'.

Non volendo sbilanciarsi oltre, però, si trattenne dal calcare ulteriormente la mano sui complimenti.

Aggiunse l'età di Leone, e il luogo della sepoltura, aggiungendo, finalmente, una frase che gli era nata spontanea e sentita dal profondo del cuore: 'del qualle lo eterno e magno Dio i abia perdonate li soi pecati.'.

Lasciò asciugare l'inchiostro e poi, con un profondo sospiro, sistemò la pagina con tutte le altre e si mise ad aspettare la cena. Anche quella sera, come sempre, ormai, sarebbe stata la cuoca a prepargli da mangiare.

Una volta a tavola, con il piatto di arrosto fumante davanti al naso, Andrea avvertì una spietata nostalgia dei maccheroni con verdure che a volte aveva condiviso con la sua signora, Caterina Sforza. Malgrado tutto, avrebbe barattato ogni suo bene per riavere uno di quei momenti.

“Questo arrosto è ottimo, non trovate?” chiese alla cognata e alle nipoti, mentre tutti cominciavano a mangiare.

Non ascoltò la risposta. Nel suo intimo quella domanda era semplicemente ridicola. Nulla aveva più sapore, ormai, per lui. Se non fosse stato certo di aver visto proprio Leone Cobelli chiuso nella bara e tumulato nella chiesa di Santa Croce, avrebbe potuto credere di essere lui, lo storiografo a cui era stato fatto il funerale.

   
 
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