Capitolo Cinque – Il Giovane
che era un Anziano
Lyek era un Kyll
saggio, più saggio del tempo e più
astuto dei più astuti. Un giorno, camminando per il bosco, vide un umano
steso a terra, morto, forse. Gli si avvicinò e scoprì che era
solo ferito. L’umano lo pregò di guarirlo. Gli disse
che gli avrebbe dato il più grande dei suoi tesori, in cambio. Lyek, che
era astuto, accettò lo scambio e lo curò. Curò le ferite
che solcavano il suo corpo. Curò la sua anima ferita. E sorrise, dicendo che tra dieci anni sarebbe tornato dall’Umano
Heker, questo era il suo nome, e avrebbe preso il suo tesoro più grande.
Heker se ne andò a casa, si sposò ed
ebbe una figlia, una bambina così bella che alcuni dicevano dovesse per
forza avere un po’ di Magia degli Spiriti. Divenne ricco, tanto, ma il
suo tesoro più grande era certamente un cavallo, un animale così
veloce che poteva correre su di un campo di grano senza che le spighe si
piegassero e sull’acqua senza sprofondare. Allo scadere dei dieci anni
mise tre uomini a guardia del cavallo. Perché
lo sentiva, la notte prima aveva sognato il Gewen Lyek che rideva, lo sentiva,
che quella sarebbe stata la notte in cui il Kyll sarebbe venuto a ritirare il
suo premio. Ma lui non voleva darglielo. Non voleva
perdere quella creatura perfetta. Chiuse in casa la moglie e la figlia, si mise
di guardia e attese tutta la notte. Poi, proprio nel
momento in cui la luna tramontò, sentì la voce di Lyek. Rideva e
chiedeva se quel cavallo, se quell’animale,
fosse davvero il suo tesoro più grande. Allora Heker capì il suo
errore. Corse in casa, spalancò la porta della stanza in cui sua figlia,
la bambina più bella del paese, riposava. Non vide la bambina. Vide una
rozza bambola di legno che la riproduceva. Non vide la bambina. Non la vide mai
più.
- Non… non un Gewen… -
Tremava. Quella storia gliela raccontava sempre la balia,
quando era bambina. Tutti i Kyll spaventavano gli Umani, ma i Gewen in
particolare. Forse perché, in effetti, nessuno della sua razza ne aveva mai visto uno. Lei se li immaginava come mostri
terribili, simili al Mannaro che avevano incontrato prima, magari. Iraem
sorrise. Se qualcuno temeva un Gewen, i Mercanti di Syphe Rho, questo era il
loro soprannome, voleva dire che non ne aveva mai
incontrato uno.
- Oh, non temere. Non sono così male –
Ecco. Stava succedendo di nuovo. L’aveva confortata.
Aveva confortato un’Umana? No, avanti, ragazzo, tra poco non
ricorderà nulla, non ricorderà neppure
chi sei. No. No. No.
Lei annuì mestamente. Era ancora spaventata, lo si capiva.
- Beh, andiamo, Lìnde. Tra poco saremo
arrivati… -
Si avviarono. La ragazza camminava un po’ dietro a
lui, con la testa bassa. Non perché avesse paura… solo si sentiva
strana. Era incredibile e assurdo, in un certo modo, ma si sentiva quasi
diversa.
Camminavano, la foresta non era mutata, niente di
minaccioso si stava mostrando a loro. Chissà se quel lupo era ancora
vivo? Sperava ardentemente, anche se così era,
di non ritrovarselo più davanti.
Accadde in un lampo. Vide con la coda dell’occhio il
luccichio metallico della punta della lancia, pochi secondi prima che si conficcasse a pochi centimetri dal suo zoccolo destro. Lìnde
urlò, lui si voltò di scatto. Erano tre.
Ed erano Khersal. C’era una possibilità
su diecimila di incontrare un Khersal in giro di giorno. Che
fortunato che era! Si avvicinavano, rapidi. Lui si impennò
sulle zampe posteriori, facendoli correre via, a distanza di sicurezza. Non
erano creature molto coraggiose, in effetti. E nemmeno
molto furbe. Il Sommo Zholtan odiava chi spargeva sangue nel suo bosco. A meno che non fosse lui a farlo.
- Andatevene, se tenete alla vostra vita! –
Si sentì un po’ un Mannaro ad esclamare
queste cose. Classica spacconata da Lupacchiotto.
Nessuno dei tre rispose. Cosa
alquanto maleducata. I Kyll educati almeno pronunciavano il loro nome. E perché attaccavano la loro preda. Ma quelli niente. Solo uno raccolse un sasso da terra,
lanciandolo come provocazione contro Lìnde. Lei, troppo occupata a
tremare, non si spostò neppure quando lo vide
avvicinarsi. Solo chiuse gli occhi. E la pietra la
colpì in pieno sulla fronte.
- Ahi! –
All’unisono. Entrambi. Assurdo! Lui non doveva, non
poteva aver sentito quel colpo alla fronte, come se lui fosse stato colpito. I
Khersal si guardarono, stupiti. Erano confusi, che cosa voleva dire questo?
Erano pazzi? Uno strinse con forza la sua lancia, fino a farsi sbiancare le
nocche. Cioè, a farle ingrigire, dato che i
Khersal avevano una pelle grigio- malaticcio, avevano una corporatura tozza e
muscolosa e grandi orecchie da ratto, oltre ai denti da topo, pronti a mordere,
sgranocchiare e scarnificare.
Stavano lì, gli uni di fronte agli altri, senza
sapere cosa fare.
Iraem avrebbe già escogitato qualcosa… in
condizioni normali. Ma… era assurdo… era riuscito a sentire il
dolore dell’Umana… impossibile!
Poi uno si fece coraggio.
Alzò l’asta della lancia. Iraem si preparò a schivarla,
pronto a scattare e correre via, magari afferrando prima Lìnde. Questa
storia gli piaceva sempre meno. Vide l’arma alzarsi, eseguire una sorta di arco nell’aria… e si fermò. A
mezz’aria. Così. Nessuno urlò. Nessuno osava urlare,
muoversi. Cosa temevano? Temevano che alla loro prima
mossa quella magia sarebbe finita. E allora?
- No, no. Non mi piace. No,no
–
Una voce che Iraem conosceva fin troppo bene.
- Loro mi servono ancora. Si, si. Ho puntato molto su di
loro. Si, si. Loro mi servono ancora –
Servono ancora?
Puntato su di loro?
Cosa voleva dire, Zholtan?
I Khersal si scambiarono uno sguardo, atterriti. Anche loro conoscevano Zholtan di fama, la sua terribile
fama. Poi la graziosa volpe, chinò lievemente il capo a destra.
Un solo urlo risuonò nella radura, quando le radici
si sollevarono dal suolo, per stringere nel loro mortale abbraccio le tre
creature. Ma non erano state loro a strillare, ma
Lìnde, che fissava quella strana crepa nell’erba, con una mano
sulla bocca e gli occhi spalancati.
- Zholtan! Perché…? –
Iraem si voltò verso il Sommo, ma quello era scomparso. Che cosa aveva
voluto dire con quelle poche enigmatiche parole?
Un cespuglio cominciò a muoversi. I due rimasti si
voltarono verso l’arbusto, pronti l’una a fuggire, l’altro a
combattere. Un paio di lunghe orecchie da coniglio spuntarono
da esso, seguite da un volto lentigginoso illuminato da astuti occhi neri come
ossidiana. Mosse il naso, come per annusare l’aria
circostante, poi si alzò in piedi. Il Centauro sospirò,
sollevato.
- Mi sono perso qualcosa? –
Domandò, mentre Lìnde lo fissava, come poco
prima aveva fissato i tre Khersal che li avevano
attaccati.
Un Gewen. Un Gewen. Un Gewen.
- Lascia stare, poi ti racconto – sul viso di Iraem si accennò un sorriso – Lìnde,
lui è L’Anziano Aljek, Aljek… lei è un bel problema -