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Autore: Adeia Di Elferas    22/08/2020    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Le grida di Ippolita Sforza sembravano in grado di riempire ogni angolo del palazzo dei Bentivoglio.

Alessandro aspettava fuori dalla porta, mentre dalla stanza in cui la moglie stava partorendo uscivano le voci concitate della levatrice e delle serve che la stavano assistendo.

Nessuno dei fratelli del Bentivoglio si era alzato da letto, malgrado il trambusto, e, anzi, il padre, Giovanni, aveva fatto sapere tramite uno dei suoi servi personali, che se quel baccano non si fosse ridimensionato in fretta, avrebbe preso dei provvedimenti.

Alessandro faceva del suo meglio per non arrabbiarsi, ma in quel momento, benché fosse un uomo di ventisei anni, avesse già visto tante cose e avesse fatto molte esperienze, avrebbe gradito la presenza di un qualcuno, fosse esso il genitore o uno dei fratelli, che lo confortasse e gli dicesse che tutto sarebbe andato bene. Invece era stato lasciato solo, con appena un paio di candele a illuminare l'anticamera in cui si era appostato, e un domestico a chiedergli ogni mezz'ora se avesse bisogno di qualcosa.

Era quasi l'alba, quando dalla camera di Ippolita invece che una nuova raffica di grida della partoriente e incitamenti della levatrice arrivò solo silenzio.

Con il cuore in gola, il Bentivoglio si staccò dal muro contro cui aveva cercato appoggio e, deglutendo continuamente, si accostò alla porta. Tese l'orecchio, cercando di sentire qualcosa. A parte il borbottare sommesso delle donne, gli sembrava di sentire qualcosa di simile a un miagolio, ma la sola idea gli pareva assurda.

Lasciò passare ancora qualche minuto e poi, quando proprio non ne poté più, già preparandosi al peggio, bussò due volte.

Si sentì parlottare più forte e poi una delle serve lo pregò: “Un attimo ancora di pazienza!”

Il giovane si allacciò le mani dietro la schiena, mettendosi a camminare nervosamente avanti e indietro, sudato come non mai nei suoi abiti da camera che, la sera prima, nella fretta, non aveva cambiato. Era scalzo e il pavimento di cotto gli sembrava freddo come la morte, ma non gli importava nemmeno di quello. Voleva solo sapere cos'era successo, voleva sapere se sua moglie stava bene e se il parto si fosse concluso felicemente.

Il Bentivoglio stava già per tornare alla carica, deciso a spalancare la porta e non più solo a bussare, quando la levatrice fece capolino davanti a lui, facendolo quasi sussultare.

“Vostra moglie, Madonna Ippolita, chiede di voi.” gli disse, non nascondendo un sorriso soddisfatto: “Sta bene e vuole mostrarvi vostro figlio.”

“Figlio?” domandò Alessandro, quasi senza fiato: “Allora è un maschio?”

La donna non rispose, ma indicò la via al giovane, che non se lo fece ripetere e corse subito nella stanza.

Ippolita era a letto, visibilmente provata, ma già cambiata e adagiata su lenzuola pulite. Ciò che era stato il parto Alessandro lo poteva intuire dalla biancheria sporca di sangue che le serve stavano portando via proprio in quel momento.

“Come stai?” chiese il Bentivoglio, avvicinandosi, quasi non vedendo il fagottino rosa che la puerpera teneva al seno.

La Sforza sorrise e rispose, con la voce più flebile che il marito avesse mai udito: “Sto bene. Nostro figlio è già un guerriero. Mi ha dato del filo da torcere.”

Alessandro parve ricordarsi solo in quel momento di essere diventato padre e, all'improvviso, il piccolo che la moglie teneva tra le braccia catturò tutta la sua attenzione. Aveva il visetto un po' schiacciato e gli occhi quasi chiusi. Avvolto com'era in un telo candido, era impossibile vedere altro.

“Nostra figlio.” disse piano l'uomo, come se la sola idea gli paresse assurda, seppur bellissima.

“Lo chiameremo Sforza.” decretò Ippolita, senza ammettere repliche.

“Sforza Bentivoglio.” sussurrò Alessandro, quasi a vedere se quel nome così particolare stesse bene assieme al cognome della sua famiglia.

“Lui rappresenta la nostra unione.” spiegò la diciannovenne, guardando con orgoglio il neonato, che aveva appena fatto una smorfia, quasi a dire che era d'accordo: “E poi voglio che si ricordi sempre le sue origini per metà milanesi. Avere il sangue degli Sforza non è una questione da poco.”

Per quanto suonasse strano, al Bentivoglio piacque quella decisione, tanto che, sedendosi sul letto accanto alla moglie, si chinò per baciare il piccolo in fronte e poi Ippolita sulle labbra, per concludere, deciso: “Nostro figlio si chiamerà Sforza, e potesse fulminarmi una saetta qui dove sono, se qualcuno mi farà cambiar di verso!”

 

Alessandro Braccio era stato molto sollecito, quel mezzogiorno, nel mettere la missiva di Ottaviano tra le mani di Baccino. L'aveva seguito fino nelle cucine, dove il cremonese aveva il permesso di recarsi per ritirare il pasto della Leonessa, e poi aveva fatto in modo di trovarsi un istante solo con lui in un angolo riparato, lontano dagli sguardi curiosi delle cuoche e da quelli inquisitori delle guardie.

“Solo voi – gli aveva detto, guardandolo con attenzione, come a voler catturare ogni minimo segno di incertezza – potete avvicinarla davvero senza rischio.”

Il giovane aveva domandato di cosa si trattasse, ma il fiorentino era stato vago e aveva solo ribadito di lasciare quella missiva solo ed esclusivamente a Caterina Sforza.

Così, portandole il pranzo, Baccino si era sentito come un saltimbanco intento a camminare su un sottilissimo filo sospeso. Anche non era mai stato perquisito, nel raggiungere il Belvedere, temeva di vedersi bloccare da un momento all'altro e rivoltare da capo a piedi. La lettera che teneva ben nascosta sotto il camicione gli pareva pesare come un macigno e scottare come il fuoco. La tremenda sensazione che quel foglio ripiegato e reso spesso dal sigillo che lo chiudeva fosse visibile a tutti, per quanto ben celato, non lo lasciò nemmeno quando varcò la soglia della cella della Tigre.

Come di consueto, il cremonese la salutò e, davanti a lei, cominciò ad assaggiare ogni pietanza con attenzione. Il suo sguardo, però, era distratto. Correva di continuo alle sue spalle e Caterina intuì in fretta che ci dovesse essere un motivo serio per quell'atteggiamento.

“Cosa c'è?” soffiò lei, mantenendo un'espressione neutra, a beneficio di occhi indiscreti, sempre che Aloisio, da dietro la porta, riuscisse davvero a vedere qualcosa.

Fingendo una mossa molto maldestra, Baccino si sporcò un po' il giubbetto con la minestra, borbottò un 'maledizione' e nello sporgersi in avanti per ripulirsi, fece scivolare fuori dal camicione la lettera che portava con sé.

La Leonessa capì all'istante, e nascose subito la missiva sotto le coperte. Chiese a voce alta se il ragazzo si fosse scottato, e lui rispose di no, ringraziandola.

Per il resto del pasto rimasero quasi del tutto in silenzio, eccezion fatta per qualche frase necessaria a dar l'impressione che tutto fosse perfettamente tranquillo e normale.

Nel pomeriggio, Caterina ricevette la visita di un paio di dame di compagnia, ma dicendo loro di sentirsi stanca, era riuscita a evitare una conversazione noiosa e inutile. A cena, Baccino le dedicò un solo sguardo veramente interrogativo, e quando lei fece appena segno di no con il capo, il giovane comprese che la lettera non era ancora stata aperta.

Solo a notte fonda, alla luce fredda della luna, stando ben attenta a non far nemmeno scricchiolare la pagina rigida, o schioccare il sigillo, la donna si permise di fare un tentativo, per leggere cosa vi fosse scritto.

Quando riconobbe la grafia di Ottaviano, le si gelò il sangue nelle vene. Di tutti quelli di cui avrebbe gradito, se non aspettato, una lettera, lui era l'ultimo, anzi, lui non era nemmeno in lista.

Prima di tutto si chiese se qualcuno avesse letto prima di lei quel messaggio. Quando l'aveva aperto le sembrava che non fosse stato manomesso, ma non poteva esserne certa, dato che alle dipendenze del papa c'erano alcune tra le spie migliori del mondo. In secondo luogo, se la missiva era stata intercettata, era probabile che al lettore inopportuno fosse subito balzato agli occhi il penultimo rigo, in cui il Riario aveva avuto la leggerezza di indicare la città da cui la lettera era partita, ovvero Firenze.

Facendo del suo meglio per restare calma e non scomporsi – benché la voglia di mettersi a gridare gli improperi peggiori, a costo di farsi sentire dalle guardie, nei confronti del figlio fosse quasi irrefrenabile – la Tigre si mise ancor di più in favore di luna e iniziò a leggere.

Fin dalle prime righe ebbe la netta impressione che il suo primogenito non avesse la benché minima idea di come fosse la sua prigionia. Non sapeva che voci girassero, circa la sua detenzione a Roma, ma le faceva comunque specie pensare che suo figlio potesse credere a quelli che, forse, la dipingevano come una cosa estremamente tranquilla e indolore. Possibile che Ottaviano credesse davvero che lei fosse alla corte del papa alla stregua di un'ospite di riguardo?

Prima di tutto il Riario sottintendeva di star facendo moltissimo, tramite Alessandro Braccio, per farla liberare, e poi la sgridava in modo abbastanza palese riguardo alla diffidenza che lei sembrava dimostrare verso quel fiorentino, come se fosse quello il vero motivo della sua mancata pronta liberazione.

Il giovane infatti scriveva: 'La S.V. Intenderà quello che noi habiamo commesso a Ser Alexandro faccia per trarla de servitu, però non le dirò altro se non che lei fa male a calunniare persona de chi noi ci fidiamo perché presto sarà certa nell'errore che lei si trova e dolerassi forse havere facto così: certificola bene che usando simili termini che la fa male a noi et a se: però non si lassi più sedurre, ma creda che si fa per la liberatione sua ciò che si può de bono: vedrà a quello che siamo descesi, però operi se vole liberarsi che le provisione nostre habino loco perche noi siamo descesi a domandare mancho non ce fa intendere non sono per dirli altro, né la speranza né le pratiche che noi habiamo che non è bene. Certificola bene che siamo a megliore termine che mai, però stia de bona voglia.'.

Caterina si chiese quanto teatro ci fosse, nelle parole di Ottaviano, e quanto invece, chissà in che modo e con che mezzi, stesse davvero cercando di fare qualcosa per farla liberare. In realtà tutto quel panegirico le sembrava più un preambolo per chiederla qualcosa in cambio, come a dire che tanto e tale era l'impegno del suo primogenito per salvarla, che anche lei doveva fare qualcosa per sdebitarsi.

E infatti sul finale arrivava la richiesta che la Sforza attendeva fin dalla seconda riga, e la fece imbestialire.

'La S.V. Sa che sono obbligato alla tutela di Ludovicjo et perché io me ne voglio disubbligare e non lo posso fare se la S.V. Non rinuncia alla tutela di Ludovicho presa. La prego se mi vole bene che la renuncij subito, ad ciò che escha da questo obbligo, et procuri che questo cappello venga per me.'.

Pur ignorando volutamente l'ultima parte, in cui Ottaviano le suggeriva di brigare affinché il papa gli concedesse addirittura l'investitura a Cardinale, la donna non riuscì più a trattenersi. Sibilando bestemmie tra le più colorite, augurò al primogenito le peggiori cose possibili.

“Piuttosto che rinunciare alla tutela di Giovannino – disse, rivolta alla lettera, come se fosse un'emanazione di Ottaviano – vengo a Firenze e ti sgozzo con le mie mani.”

In quel momento, perfino la scelta del Riario di chiamare il fratello con il suo primo nome, ovvero Ludovico, parve alla donna un'aperta e sfacciata dichiarazione di ostilità nei suoi confronti. Anche se, probabilmente, era stato solo un goffissimo e inutile tentativo di indurre in confusione eventuali spie che fossero entrate in possesso del messaggio, per Caterina quel 'Ludovicho' bruciava come fuoco vivo.

Alla Tigre non importava nemmeno più tanto se le guardie fuori dalla porta si fossero insospettite per il suo parlare da sola e il suo agitarsi di continuo. Era così corrosa dalla rabbia che, quasi, non sentiva nemmeno più la stanchezza cronica che l'aveva attanagliata dal giorno in cui aveva perso i sensi all'inizio della sua strana malattia.

Apparentemente, comunque, nessuno sembrava interessarsi a lei, e così la Sforza si sentì più libera di esternare la propria collera. Nascosta la missiva sotto al lenzuolo, si mise a vagare senza requie per la stanza, che quella notte le pareva più piccola che mai, e a borbottare tra sé tutte le imprecazioni più scurrili e volgari che conosceva. Benché le sue gambe dolessero, anche se per uno sforzo minimo, la Leonessa non si fermò, anzi, aumentò l'andatura.

Non sopportava l'idea che Ottaviano potesse anche solo pensare che lei sarebbe stata disposta a lasciare la tutela di Giovannino a Lorenzo Medici. Ancor di più la lasciava indignata che lui credesse che lei potesse fare una cosa simile per favorirlo in qualche modo. Nel suo modo di vedere le cose, era già stata abbastanza magnanima a non ucciderlo nel 1495.

Non gli era bastato uccidere l'uomo che lei aveva amato più di qualunque altro. Non gli era bastato nemmeno angustiarla per anni con la sua mera presenza, o averle tolto la possibilità di passare assieme a Giovanni Medici le ultime settimane di vita del fiorentino, che, accompagnandolo in guerra, aveva sicuramente accelerato la sua malattia, arrivando alla tomba prima del tempo.

No, non gli era bastato nulla di tutto ciò: adesso stava cercando di strapparle anche l'ultima cosa pura che le fosse rimasta, ovvero il suo ultimo figlio, Giovannino.

Le ci volle quasi un'ora, prima di calmarsi abbastanza da riuscire a ragionare a mente fredda su quanto Ottaviano le avesse scritto.

E più ci ragionava, più i suoi passi rallentavano, finché, con le labbra schiuse e gli occhi spalancati, si trovò a mettersi seduta a letto. Perché suo figlio aveva scritto quelle cose su Giovannino? Era successo qualcosa di particolare? Lorenzo l'aveva trovato? Aveva chiesto soldi a Ottaviano in cambio del bambino? Lo stava minacciando? L'aveva già in mano sua?

Anche le vaghe promesse di fare qualsiasi cosa per liberarla la mettevano in agitazione. Il suo primogenito era sempre stato un inetto: avrebbe combinato un disastro anche quella volta. Se voleva riuscire ad arginare il disastro, doveva muoversi da sola e fare il possibile per arrivare a Firenze prima che fosse troppo tardi.

Con un sospiro tremulo, la donna chiuse gli occhi, provando a cercare una scappatoia. L'unico che le avesse teso una mano e che non fosse strettamente collegato – almeno per quel poco che ne sapeva lei – con Firenze, era Frate Lauro Bossi. Le aveva giurato di sapere come fare, per organizzare la sua evasione.

Mentre le campane di Roma battevano l'ora, Caterina decise che avrebbe tentato quella via. Al mattino avrebbe chiesto di potersi confessare con quel frate, e, una volta sola con lui, gli avrebbe chiesto in modo chiaro cos'aveva in mente.

Non avrebbe voluto arrivare a una soluzione tanto azzardata, ma pensare Giovannino in pericolo, quando, invece, l'aveva sempre considerato abbastanza al sicuro al convento, le imponeva di tentare il tutto e per tutto.

 

Ercole Este si era messo alla finestra, come una vecchia lucertola, con gli occhi chiusi e il viso rivolto al sole. Sentiva la pelle seccarsi e tirare al tiepido sole di maggio, e il suo respiro lento e cadenzato andava di pari passo con l'incedere costante e profondo del cuore.

A sessantanove anni, avrebbe voluto poter vivere le sue intere giornate a quel modo: senza che nessuno pretendesse nulla da lui e senza che lui si trovasse costretto a pretendere nulla dagli altri.

E invece quella era solo una brevissima parentesi che si era concesso prima di tornare ai suoi impegni diplomatici.

Con un sospiro lento e drammatico, l'uomo si scostò dalla finestra, lasciando la giornata limpida alle proprie spalle, e tornò alla scrivania. Al solo mettersi seduto, sentì la schiena scricchiolare. Era uno dei tanti segni che il suo corpo gli stava dando per convincerlo a rallentare. E lui, come sempre, lo ignorava.

Si passò una mano tra i capelli grigi, che scendevano ancora copiosi verso la fronte, e, intinta la penna nell'inchiostro, ritornò a scrivere.

Dovette fermarsi quasi subito, però, perché, senza che lo volesse, il pensare con rancore a suo figlio Alfonso, che preferiva le grasse e vecchie donnacce di uno dei peggiori bordelli di Ferrara agli affari di Stato, lo stava confondendo.

Si schiarì la voce, appoggiando un attimo la penna e sforzandosi di scacciare l'immagine del suo erede con le mani deturpate dal mal francese e nere per colpa della polvere da sparo che maneggiava quotidianamente, nel provare in prima persona i pezzi di artiglieria che produceva di sua iniziativa. A volte a Ercole sembrava di avere per figlio un armaiolo o un fabbro e non il futuro Duca di Ferrara.

Premendosi un istante la mano sulle labbra, come a volersi impedire di maledire invano il nome del sangue del suo sangue, il vecchio Tramontana tornò alla sua lettera. Era una delle tante missive dirette ai rappresentanti di Luigi XII. Stava trattando con loro importanti e finissime transazioni, tra cui una molto particolare riguardante i Bentivoglio.

Si trattava di chiedere per loro clemenza e una seconda possibilità. La famiglia bolognese si era esposta molto in favore degli Sforza, questo era innegabile, ma l'Este doveva convincere il re di Francia che l'appoggio dato da Giovanni Bentivoglio a Ludovico il Moro fosse stato solo per mero interesse immediato, per paura, insomma, che uno stato piccolo come quello bolognese, cadesse facilmente preda di una ripicca dello Sforza.

“Certo è – borbottò tra sé Ercole, mentre impugnava di nuovo la penna – che Alessandro Bentivoglio poteva pensarci due volte, prima di chiamare il suo primogenito Sforza...”

Chiedendosi che accidenti avesse in testa quel ragazzo, che, invece di cercare di far scordare a tutti la provenienza della propria moglie, era andato a sbandierarla in quel modo tanto stupido, l'Este si trovò a pensare a sua figlia Isabella. Sapeva che doveva partorire a giorni. Gli sarebbe piaciuto se, questa volta, fosse nato un maschio. Un'altra figlia sarebbe stato un problema.

Scacciando ancora una volta i propri problemi personali dalla mente, l'uomo intinse la punta della penna nell'inchiostro e vergò un'altra sperticata lode nei confronti dei Bentivoglio e della loro certa fedeltà alla causa francese.

Quando giunse alla firma, disse, come se si stesse rivolgendo al signore di Bologna: “A buon rendere, ché le mie lettere non costano poco, caro Giovanni...”

 

“Voglio scappare.” il sussurrare della Tigre fece sgranare gli occhi di frate Lauro, che era andato nella stanza della donna con scarsa convinzione, pensando che, piuttosto che confessarsi, o accettare il suo aiuto, volesse ribadirgli la sua ferma intenzione di non avere più nulla a che fare con lui.

“Si tratta di una cosa delicata.” disse lui, appena udibile, allungando l'occhio verso Aloisio che aveva imposto che la porta restasse aperta.

I due erano abbastanza lontani dall'uscio da non essere uditi, parlando a voce così bassa, tuttavia entrambi avevano la sensazione di poter essere ugualmente compresi dal carceriere. Perciò Caterina, in ginocchio accanto a Bossi, teneva le mani giunte proprio davanti alle labbra, per confondere chi, eventualmente, fosse riuscito a leggerne i movimenti, e il frate, seduto sulla sedia accanto a lei, teneva il capo così chino da rendere davvero difficile vedere il suo volto.

“Lo so che è una cosa delicata.” ribatté la Leonessa: “Ma siete stato voi, il primo a parlarne.”

“Certo, certo...” annuì Lauro, aggrottando la fronte: “Avete ragione e non mi tiro indietro.”

“Ebbene, sappiate che avrei anche una certa fretta.” soggiunse la milanese.

L'uomo annuì di nuovo e, a beneficio di Aloisio, disse, a voce un po' più alta: “Dovete pregare sempre, figliola, per non cadere in perdizione!” e poi, tornando a sussurrare: “So a chi rivolgermi, ma si tratta di gente che crede più al denaro, che a una buona causa.”

“Sapete che non ho denaro con me.” fece presente la Sforza.

“Quel che serve, anche se con fatica, lo posso anticipare io, per cominciare.” annuì Bossi, serio e circospetto: “Ma se dovessi promettere forti somme come saldo... Mi servirà un'assicurazione certa.”

“Firmerò tutto ciò che vorrete, non mi interessa.” accettò la Tigre, sperando di potersi davvero fidare di quel frate che con lei condivideva i natali milanesi.

“Farò in modo di organizzare il tutto il prima possibile.” promise a quel punto lui: “Vi farò sapere io quando, datemi qualche giorno.”

“Come farete ad avvisarmi?” si informò la donna, tesa.

“Voi chiedete di essere confessata ogni due o tre giorni.” propose lui: “La volta che avrà risolto la questione, sarò io a dirvelo.”

Caterina si sentiva un po' in colpa ad aver preso quella decisione senza interpellare Fortunati, che tanto si stava prodigando per lei e che aveva addirittura chiesto di essere messo in catene, pur di poterle stare vicino. Però sapeva che lui l'avrebbe fatta desistere, e in quel momento non c'era nulla di più importante, per lei, di arrivare a Firenze e mettere in salvo il suo figlio più piccolo.

“Dite cento Ave Maria e duecento Pater Noster.” ordinò a voce alta il frate, soggiungendo poi, mentre fingeva di concedere l'assoluzione, con il suo consueto sorriso irritante: “Non scherzo: siete stata una grandissima peccatrice e Dio lo sa. Pregatelo, affinché vi perdoni e vi aiuti in quest'ardua sfida.”

La Leonessa si fece il segno della croce e, un po' a fatica, si rimise in piedi. Salutò il frate, che venne prontamente riaccompagnato alla porta da Aloisio in persona, e poi, rendendosi conto di avere comunque tempo e che tentare anche quella via non le sarebbe nuociuto, tornò a inginocchiarsi e cominciò a snocciolare le sue preghiere di pentimento.

Perse il conto molto in fretta e dopo una trentina di Ave Maria, la sua mente già stava volando altrove. Tenne comunque le mani giunte e la testa bassa, fingendosi assorta in preghiera, ma in realtà il suo pensiero spaziava dai ricordi legati agli anni passati accanto a Giacomo e al periodo, molto più breve, trascorso al fianco di Giovanni Medici. Per la prima volta da mesi, entrambe le cose le diedero un senso di piacevole calore e di dolcezza, come se tutta l'amarezza che entrambi i suoi grandi amori le avevano portato sul finire non fosse mai esistita.

Quando Baccino arrivò a mezzogiorno per servirle il pranzo, la trovò insolitamente serena, come se qualcosa in lei fosse cambiato.

“Farò in modo di portarti con me a Firenze.” gli sussurrò: “Vorrei portare anche Argentina, e poi Fortunati... Ma con te sarà più semplice.”

Il cremonese non capiva bene a cosa si riferisse, ma poi si fece largo un sospetto atroce, così le disse: “Non hai intenzione di fare qualche pazzia, vero?”

Posandogli un istante solo la mano sul braccio, mentre lui mescolava la zuppa, la donna gli rivelò, con un sorriso strano, che Baccino stentava a riconoscere: “La vera pazzia è restare chiusi qui dentro.”

   
 
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