Storie originali > Storico
Segui la storia  |       
Autore: Adeia Di Elferas    28/08/2020    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

Alessandro VI sollevò gli occhi tondi verso il figlio. Il Valentino se ne stava impettito davanti a lui, le braccia incrociate, come a sfidarlo, e il viso contratto in un'espressione severa che poco gli si addiceva.

Rodrigo ricordava ancora il Cesare bambino che frignava di continuo in cerca di attenzioni, e il Cesare ragazzino che se la prendeva per un nonnulla, finendo sempre a trovarsi un passo indietro al fratello Juan. Quel Cesare non c'entrava più nulla con il Cesare che ora lo fronteggiava apertamente, proponendogli una cosa che, a detta del papa, poteva chiamarsi follia.

“Quella donna non si toglierà mai la vita.” gli disse, dando finalmente forma al pensiero che l'aveva colto fin da quando il Duca gli aveva esposto il suo progetto: “Io la conosco fin da quando aveva vent'anni. Piuttosto sarebbe capace di vivere in eterno solo per far dispetto a me!”

“Voi la conoscete da quando aveva vent'anni – concesse il Valentino, implacabile – ma vi posso assicurare che è cambiata. È una donna distrutta e ci basterà poco per farla cadere in pezzi una volta per tutte.”

“Sarebbe più comoda avvelenarla davvero con il cibo.” sbottò il papa: “Tanto, ormai, sono tutti convinti che ci abbiamo già provato!”

Il Duca strinse la labbra. Respirava veloce, sembrava si stesse trattenendo dal dire qualcosa di molto spiacevole. Perciò gli ci volle parecchio, prima di calmarsi abbastanza per parlare con tono pacato.

“Padre.” disse, guardando dritto nelle pupille il pontefice: “Sapete meglio di me che non possiamo più ucciderla, nemmeno sapendo che i suoi figli sono a Firenze. Se avessero anche solo il sospetto che la sua morte non sia naturale o un suicidio, sarebbe un disastro. Lei è ancora una cittadina di Firenze, e Lorenzo Medici, anche se la odia, state sicuro che giurerebbe di essere affranto come un vedovo, per la sua morte. I francesi, anche se l'hanno abbandonata qui, si ricorderebbe improvvisamente di quanto il loro re la stimi, e ci chiederebbero conto della mancata cura avuta della sua salute. In definitiva, dobbiamo fare del nostro meglio per tenerla in vita, al minimo costo e al minimo rischio, ma dobbiamo distruggerle l'animo finché non sarà lei a cercare la morte.”

“Stai solo perdendo tempo.” tagliò corto il papa, alzandosi dalla scrivania e allacciandosi le mani dietro la schiena: “Quella donna è una belva selvatica. Prima di uccidersi, farà qualsiasi cosa...”

“Provi pure a fare quello che vuole. Una Tigre in gabbia può solo ruggire, non può sbranare nessuno.” decretò Cesare: “Quindi, se mi date il permesso...”

“Fai quello che ti pare.” cedette infine il Santo Padre, senza più forza per provare a trattenere il figlio dal suo strano e insano proposito.

 

Il Marchese di Mantova aveva passato tutto quel 17 maggio a cercare di trovare un accordo con i portavoce del re di Francia, e, ormai a tardo pomeriggio, si sentiva stremato e senza più voglia di lottare.

Anche se la richiesta finale dei francesi era stata per lui una beffa – cinquantamila ducati per giustificare la sua condotta ambigua di quei mesi – Francesco non aveva saputo come ribattere e così si era solo preso un paio di giorni per pensarci, senza di fatto fare un'ulteriore controproposta.

Era tornato in fretta al suo palazzo, sentendo improvvisamente Mantova come una tenaglia, che lo schiacciava, via via che si avvicinava a casa. Temeva quello che Isabella avrebbe detto, una volta che avesse scoperto quanto era stato debole e quali termini stava accettando, incapace com'era a proporne di migliori.

Eppure, nel momento stesso in cui varcò la soglia del suo palazzo, il Gonzaga capì che doveva esserci qualcosa di strano. Aveva intravisto un servo correre veloce verso una delle scale di servizio, e anche quello che si occupò di lui, prendendogli il mantello, era distratto.

“Che succede?” chiese il Marchese, che, fuori fin dalla prima mattina, non aveva idea di cosa potesse essere successo nella sua dimora.

“La Marchesa, Madonna Isabella – spiegò a voce bassa il servo – sono almeno due ore che ha i suoi dolori e le donne dicono che il parto sia imminente.”

Francesco guardò il suo interlocutore dall'alto al basso e poi, fingendo distacco, ma sentendo il cuore battere a mille, domandò: “La Marchesa, mia moglie, ha chiesto di me..?”

“No.” ammise il servo, chinando il capo.

Risentito, ma non troppo sorpreso, Francesco annuì e, trattenendosi dal seguire il proprio istinto, ordinò: “Portatemi qualcosa da mangiare nella mia stanza. E da bere. Voglio essere informato quando... Quando tutto sarà finito.”

Preda della strana eccitazione mentale che l'aveva colto anche alla nascita delle sue due prime figlie, il Gonzaga si ritirò in fretta in camera e, evitando di cambiarsi d'abito, nel caso fosse stato necessario per qualche motivo uscire a chiamare aiuto o un prete, si mise alla scrivania e cominciò a riflettere. Quello non era un esercizio che facesse spesso. Il più delle volte agiva ben prima di pensare seriamente a qualcosa, ma quella sera non aveva tempo e spazio per far altro, se non riflettere, e riflettere e ancora riflettere.

Gli argomenti che attraversarono la sua testa dalla fronte un po' bombata erano molti. Anche mentre cenava in fretta, non riusciva a non pensare al suo matrimonio, alle due figlie che già aveva, ma di cui – a volte se ne faceva una colpa – si era completamente disinteressato da gran tempo, al bambino o alla bambina che stava nascendo, alla guerra, a quel gran cane di Ludovico Sforza, che aveva trascinato l'Italia intera in un disastro epocale, a quel mezzo spergiuro del Trivulzio, che si era venduto per due soldi, finanche a suo suocero Ercole, che, a quanto si diceva, si stava spendendo tantissimo per i Bentivoglio, mentre per i Gonzaga non aveva sollevato nemmeno un dito...

Le ore si susseguivano senza tregua, e solo quando le campane avevano già battuto le undici di sera, finalmente qualcuno bussò alla porta del Marchese.

Scattando in piedi, l'uomo chiese: “Mia moglie vuole vedermi?”

Il servo, che portava con sé una candela di sego per farsi luce, un po' sorpreso del fatto che quella fosse la primissima domanda a scaturire dalle labbra del suo signore, fu abbastanza felice di potergli rispondere: “Sì.”

Francesco si era già fiondato verso la porta, scansando quasi di peso il suo domestico. Voleva volare da sua moglie. Le sue gambe, per quanto muscolose, gli sembravano troppo lente, davvero troppo, per star dietro alla velocità del suo cuore, che era già accanto a Isabella.

Proprio mentre varcava l'uscio, il servo gli rivelò: “È nato un maschio.”

“Un maschio!” esclamò, esterrefatto, il Gonzaga: “Un maschio! Il mio erede! Finalmente! Un maschio! Un figlio!” e, ancora preda di quell'entusiastico furore, si mise a correre, con le ali della contentezza ai piedi, come un pazzo, folle di gioia, in direzione della stanza in cui la moglie aveva partorito.

“Non avvicinarti.” le prime parole che Isabella gli rivolse lo raggelarono, ma solo in parte.

Francesco voleva vedere il tanto sospirato erede, voleva scorgere il visetto del suo primo figlio maschio, di colui che, un giorno, avrebbe ereditato il suo Marchesato. L'Este, però, teneva il piccolo così stretto al suo seno che tutto ciò che l'uomo riusciva a intravedere era la punta della testolina, coperta da una cuffietta ricamata.

“Lasciamo venire più vicino...” implorò lui, gli occhi catalizzati dal bambino, così distratti da non vedere l'espressione truce sul viso della moglie.

“Ho detto: non avvicinarti. Saresti capace di combinare un guaio anche in questo frangente, come fai sempre. Non lo devi toccare, finché non deciderò che potrai farlo.” sibilò lei: “Ci ho messo troppa fatica e troppo dolore per farlo. Non posso permettere che tu lo rovini al primo tocco...”

Avvilito, il Marchese rimase al suo posto. Avrebbe voluto ribattere a tono, imporre la propria potestà e obbligarla a farle vedere il neonato, ma conosceva abbastanza bene Isabella da temerla quel tanto che bastava per starsene a distanza e non recriminare oltre.

“Te l'avevo detto – ebbe solo il coraggio di dire lui, con il sorriso che, malgrado tutto, non si spegneva – che questa volta sarebbe nato un maschio.”

“Ero stata io a dirlo.” lo corresse lei: “E, comunque, se non fosse stato per me, tu non saresti mai riuscito ad avere un erede...”

Francesco rimase al suo posto, incupito come non mai, ma non osò ribattere. Improvvisamente, per la prima volta da che era in quella stanza, il Gonzaga si permise di guardare meglio Isabella. Non la vedeva così prostrata da molto tempo. Aveva occhiaie scure e profonde, ben visibili anche alla luce del camino e delle candele, il collo teso, tirato, il naso più affilato del solito, e gli occhi stanchi e pieni di rancore.

Avrebbe compiuto ventisei anni l'indomani, il 18 maggio, eppure, quella notte, l'Este sembrava una donna con almeno il doppio degli anni sulle spalle.

“Se non hai bisogno di nulla...” sussurrò Francesco, facendo un passo indietro, suggerendo un commiato.

“Bravo, ritirati.” annuì la Marchesa: “Come fai sempre.”

L'uomo stava per schiudere le labbra, per difendersi in qualche modo, ma l'improvviso disinteresse dell'Este gli frenò la lingua.

La donna stava fissando il bambino, senza più guardare nemmeno per il sbaglio il marito, proprio come se non fosse più nella stanza.

Solo per un istante Isabella tornò a rivolgersi a lui, e fu per dire: “Sappi che nostro figlio si chiama Federico. Ho scelto io il suo nome, perché per un Marchese serve un nome importante, e tu, probabilmente, non saresti stato in grado di sceglierne uno adatto.”

Basito, come spesso restava dinnanzi alla freddezza della sua consorte, così diversa dal calore e dalla spensieratezza che lei gli aveva donato per anni, all'inizio del loro matrimonio, il Gonzaga chinò appena il capo, e uscì dalla stanza.

Quel 17 maggio la sua Isabella gli aveva donato i momenti più belli della sua vita, nel renderlo finalmente padre di un erede maschio, ma, al contempo, era stata capace di rovinarglieli con poche frasi e uno sguardo di ghiaccio che Francesco non avrebbe augurato nemmeno al suo peggior nemico.

 

“Dove mi portate?” Caterina sentiva la voce più strozzata di quanto non volesse, ma la paura folle che l'aveva presa, nel vedersi afferrare di peso e portare fuori dalla sua cella di lusso – perché anche lei sapeva che ce n'erano di ben peggiori – le stava facendo perdere il senno molto più in fretta del previsto: “Dove stiamo andando? Dove mi portate?!”

Le guardie che l'avevano prelevata, però, tacevano, simili più a due statue che non a due uomini.

Scesero le scale tanto rapidamente che la Tigre, resa debole dalle lunghissime settimane di detenzione, perse il passo più di una volta, rischiando di ruzzolare in terra, se non fosse stata trattenuta con tanta forza dai soldati.

Portata nei sotterranei della torre, la donna era giunta a conclusione che la sua ora fosse arrivata. La paura, densa e appiccicosa, non la lasciava. Era peggio di quella che aveva provato a volte nel cuore della battaglia. Era come un'onda che si avvicinava e contro cui non poteva fare alcunché.

Venne portata in una stanza fredda e dall'odore di muffa. Era illuminata da quattro torce a muro, e alla Leonessa ricordava troppo da vicino la cella in cui lei aveva, anni prima, condotto interrogatori e ucciso uomini a mani nude.

La legarono a una sedia e, dopo qualche minuto, arrivò un uomo vestito da legale, e, messosi davanti a lei cominciò a leggerle un lungo resoconto.

Faceva presente che circa un anno prima, quando la Sforza era stata dichiarata priva degli stati di Imola e Forlì dal Camerlengo, a Roma era arrivata una lettera impregnata di 'peste mortifera e molto attaccaticcia', con cui la donna aveva cercato di uccidere il papa.

Caterina era allibita, e avrebbe voluto ribattere a tono a quelle accuse, ma l'uomo continuava nel suo elenco di fatti con una monotonia e una decisione tali da impedirle di infilarsi nel discorso.

“Al fine di togliere di mezzo il papa, Madonna avrebbe deliberato di mandargli quelle lettere, che dopo esser state scritte, si eran consegnate da tenere in seno a uno ammorbato assai dalla peste allora regnante.” continuava la voce atona del legale.

Spiegava poi che la Tigre aveva poi mandato un certo Battista a Roma, per consegnare la lettere nelle mani del papa. Questi, arrivato in città, si era imbattuto in Cristoforo Balatrone, un vecchio servitore di Girolamo Riario, scappato da Forlì mentre Giacomo Feo era marito di Caterina Sforza.

Siccome costui voleva tornare in fretta nelle grazie della Sforza e del figlio Ottaviano, Battista gli aveva offerto una buona parola presso la Contessa, se lui l'avesse aiutato nel consegnare la missiva impestata.

Cristoforo, però, invece di accettare, aveva convinto Battista ad andare dal papa a confessare tutto quanto e ottenere l'assoluzione per quel peccato.

Tommaso Carpi, forlivese, che faceva da cameriere al papa, nel vederli arrivare agli appartamenti papali a tarda sera aveva chiesto loro di tornare il giorno seguente.

Balatrone, allora, incontrando quella notte un suo fratello che faceva da soldato nella guardia privata del papa, gli raccontò tutto quanto, e questi rivelò ogni cosa al suo Contestabile. Ed egli, pensando di far l'unica cosa sensata, aveva incarcerato subito Cristoforo e Battista e li aveva consegnati il giorno dopo al papa.

Alessandro VI li aveva fatti imprigionare, e con loro aveva fatto rinchiudere anche il suo servo Tommaso.

Ora Caterina era chiamata a testimoniare per questa accusa e a difendere se stessa e i suoi complici.

La donna era senza parole. Non capiva quasi di cosa si stesse discutendo. Per di più, esposto il tutto, il legale l'aveva salutata con una rigida reverenza e se n'era andato.

Senza darle il tempo per ragionare lucidamente, le guardie tornarono nella cella, la slegarono e la condussero su una carrozza. Con le mani legate, la Sforza non riusciva a far altro che chiedersi cosa le sarebbe successo. Se il Valentino stava cercando una scusa per ucciderla, ebbene, sembrava averla trovata.

Sotto il sole brillante di maggio, la Leonessa venne trascinata a viva forza fino agli appartamenti papali. Ricordava poco quell'ala del Vaticano, e le sembrava, comunque, che fosse molto più sfarzosa di com'era stata una ventina d'anni prima.

Alessandro VI la stava aspettando in un salone abbastanza sobrio, e, poco distanti da lui, in ginocchio e tenuti sott'occhio da dei soldati, c'erano tre uomini. A intuito, Caterina pensò che si trattasse dei tre prigionieri di cui le era stato parlato prima.

In confronto a lei, che, per quanto dimessa, indossava abiti sgualciti, ma integri, i tre uomini erano vestiti di stracci, avevano le barbe e i capelli lunghi e arruffati. Probabilmente, da come strizzavano gli occhi, non vedevano la luce da mesi.

La Tigre provò una pena immensa per loro e una sensazione orribile in fondo allo stomaco: quella di poter essere la prossima a ridursi in quello stato. In quell'ottica, avrebbe preferito essere giustiziata quel giorno.

“Madonna Sforza...” disse lentamente il Borja, posando su di lei i suoi occhi rapaci: “Non avrei voluto costringervi a questo...”

Caterina deglutì. Ormai si aspettava qualsiasi cosa. Era tenuta saldamente da due guardie, in modo che guardasse i tre prigionieri, più che il Santo Padre, e le parole di Rodrigo non facevano altro che aumentare la sua ansia.

Il papa, dal canto suo, si sentiva scorretto a prestarsi a quella pantomima voluta da suo figlio Cesare. Certo, se era per il bene di Roma, poteva anche abbassarsi a fare qualche scenetta di quel tipo, ma trovava intimamente che la Tigre di Forlì fosse una di quei nemici da rispettare, malgrado tutto. Se solo avesse potuto, avrebbe preferito darle una morte rapida e immediata, piuttosto che logorarla a quel modo. Malgrado ciò, aveva dovuto ammettere anche con se stesso che il Duca di Valentinois aveva ragione: non potevano torcerle nemmeno un capello senza indignare, almeno formalmente, Firenze e la Francia, quindi ci voleva cautela.

“Avete sentito le accuse che vengono mosse a voi e agli uomini qui presenti.” disse piano il pontefice, tenendo un'espressione greve, come a dire che nemmeno a lui piaceva, quello che stava succedendo.

“Mi hanno parlato di tante cose, oggi, davvero molte – rispose Caterina, con voce più malferma di quanto volesse – ma di nessuna saprei dire alcunché, perché non ho parte in questa cosa, qualsiasi essa sia.”

“Non dovete mentire al papa.” la riprese Rodrigo, agitando appena la testa: “Si tratta di un peccato gravissimo.”

“Non sto mentendo.” ribatté la donna, questa volta tenendo il mento ben alto, e non permettendo all'agitazione di farle morire le parole in gola.

A quel punto, Rodrigo allungò una mano aperta verso i tre prigionieri e ordinò: “Dite quello che dovete.”

Uno dopo l'altro, con formule troppo simili e troppo ben esposte per essere davvero farina del loro sacco, ripeterono una storia analoga, finendo, indiscutibilmente, ad addossare ogni colpa sulla Leonessa di Romagna.

La Sforza ascoltò tutto, in silenzio e senza scomporsi. Cominciava a capire quale fosse il gioco del Borja. Voleva che lei, davanti a ben tre condannati che l'accusavano, si spaventasse e perdesse la testa. In effetti, all'inizio, il rischio c'era stato, ma più i minuti passavano, più nell'animo della milanese tornava la ferma decisione di non darla vinta al papa, né tanto meno a suo figlio, che di certo aveva avuto una parte in quella sceneggiata. Doveva fare del suo meglio per tenersi in vita ancora qualche giorno, dando il tempo a frate Lauro di fare i suoi maneggi e liberarla. Doveva pensare solo a quello: doveva resistere abbastanza da lasciare Roma, andare a Firenze e mettere al sicuro suo figlio Giovannino.

“Dunque, negate di aver mandato voi il qui presente Battista a Roma, al fine di appestarmi con una lettera mortifera?” chiese il papa, indicando, tra i prigionieri, quello che stava in mezzo.

Questi, sgranando gli occhi, gridò subito, perdendo tutta la mesta compostezza tenuta fino a quel momento: “Sì! Sì! È stata lei! Lei mi ha mandato! Io non volevo! Io mi ero pentito! È tutta colpa sua! Io non c'entro!”

La Tigre ebbe a quel punto il sentore che ai tre carcerati fosse stato promesso qualcosa, magari addirittura la libertà, se avessero incolpato lei pubblicamente in modo univoco. Le spiaceva per loro, ma non intendeva sacrificarsi per salvare le loro vite.

“Non ho mandato proprio nessuno.” si ostinò la Leonessa, mantenendo un'aria fiera che la faceva assomigliare di nuovo alla donna battagliera e intrepida che aveva combattuto fino allo stremo, sotto la neve di dicembre.

“Strano, dato che questi uomini sono in tre e sostengono tutti e tre le stesse cose.” si impuntò il papa, facendo vibrare il grosso naso adunco: “Come potete pretendere che io consideri loro dei bugiardi e voi, invece, no?”

“Voi sapete che questi tre uomini hanno un motivo per mentire. Io, se ci pensate bene, arrivata a questo punto, non ne ho.” ribatté Caterina, impassibile: “Se loro hanno avuto promessa la libertà o anche solo la vita salva, che io mi accusi o meno, il mio destino è segnato in ambo i casi.”

Alessandro VI aveva una luce strana, nelle pupille. Osservava la Tigre come fosse stata davvero una belva feroce, ma estremamente preziosa, racchiusa finalmente in gabbia, lì, a suo uso e consumo, per essere guardata, ammirata e temuta allo stesso tempo.

“Siete sempre stata una donna molto particolare, Madonna Sforza.” sussurrò Rodrigo, cedendo più del solito al suo accento spagnolo di fondo: “Ma ora credo lo siate ancor di più di quando avevate vent'anni e vi si doveva chiamare Madonna Riario.”

“Da allora è passato molto tempo. Anche voi siete invecchiato.” rimbeccò la Leonessa, senza riuscire a trattenersi.

Il papa diede in una risata, e poi esclamò: “Anche se rischiate la forca, non riuscite a frenare quella lingua da vipera!”

“Anche voi rischiate le ire del re di Francia, nell'accusarmi di certe cose, eppure non resistete alla tentazione di farlo.” fu la pronta risposta di Caterina.

Improvvisamente il sorriso del pontefice sparì. Il Borja era stato punto sul vivo. Di colpo, si pentì di aver avvallato l'idea malsana di suo figlio, e tutto quello strano processo gli parve solo una buffonata che andava smantellata il prima possibile.

Alessandro VI si sentiva davvero il fiato sul collo, e a soffiare non era solo il re di Francia, come aveva suggerito la sua prigioniera, ma anche la Signoria di Firenze, e con lei tutta la gentaglia che faceva parte del pidocchioso seguito di Luigi XII. Uomini come il Balì di Digione o Yves d'Alégre, che avevano già fatto molto chiasso attorno alla custodia della Sforza, sarebbero scoppiati di gioia, nel sapere che il papa aveva commesso verso di lei qualche nuova scorrettezza. Se si fosse, poi, pensato che volesse addirittura condannarla a morte..!

“Non era mia intenzione accusarvi davvero di aver cercato di appestarmi.” mise in chiaro l'uomo, sfoggiando un sorriso infido che la Sforza gli aveva visto in volto, l'ultima volta, anni prima, quando ancora Rodrigo era solo un porporato in cerca del suo spazio: “Perdonatemi, anzi, se vi ho usata, ma avevo bisogno di un pretesto per definire la condanna di questi tre millantatori.”

A quel punto il papa batté le mani e poi, dopo un cenno prestabilito alle guardie, indicò la finestra principale alla donna. Intanto le guardie stavano portando via dal salone i tre prigionieri, tra grida e pianti.

“Venite qui.” invitò il Santo Padre, e Caterina non poté rifiutare, perché i soldati che la trattenevano la stavano spingendo di peso verso la finestra indicata dal Borja: “Guardate.”

All'inizio la Sforza non capì. Poi, quando vide nel cortile tre forche già piantate in terra, cominciò a intuire perché fosse stata fatta avvicinare alla finestra. Il papa se n'era andato, ma lei, catturata delle immagini quasi ipnotiche che aveva dinnanzi non se n'era accorta.

Guardava i tre prigionieri, due dei quali, effettivamente, aveva conosciuto in passato, spintonati e scherniti dalle guardie, che li stavano conducendo al patibolo. Era così assorta che nemmeno aveva avvertito la minor pressione della presa dei soldati sulle sue braccia. Non si era neppure accorta del fatto che ora, a tenerla, c'era un uomo solo.

Proprio mentre al collo dei tre prigionieri venivano messi i cappi, però, Caterina percepì un sentore che aveva imparato a conoscere bene e a odiare profondamente.

Immobile, raggelata dalla consapevolezza di chi fosse con lei in quel momento, la donna smise per un istante di respirare, quasi contemporaneamente ai tre condannati, che si dibattevano a mezz'aria come pesci nella rete.

“Non li stai invidiando?” chiese il Valentino, sussurrandole nell'orecchio: “Guardali. Ancora qualche istante di agonia e poi...”

Poco per volta, i tre uomini stavano smettendo di dimenarsi. Uno dopo l'altro, finirono a spenzolare privi di vita, senza forze, ciondolanti come foglie al vento.

“Vedi? Adesso sono liberi, loro.” conclude Cesare.

La Leonessa non ebbe la forza di ribattere, tanto meno di voltarsi verso di lui per guardarlo. Attese semplicemente di sentire la sua presa allentarsi e poi, pregando che se ne andasse, aspettò che tornassero i due soldati.

Sentire le loro mani rudi afferrarla per le spalle, fu, paradossalmente, un immenso sollievo. Si lasciò riportare nella torre, al Belvedere e, una volta sola, fece del suo meglio per scrollarsi di dosso la sensazione orrenda che aveva provato nel trovarsi di nuovo da sola con il Duca di Valentinois.

Per quanto ci provasse, però, la sua voce, il suo odore e l'immagine dei tre prigionieri che venivano impiccati davanti a lei continuavano a tormentarla. Non riuscì nemmeno a cenare, quella sera, malgrado le insistenze di Baccino.

“Almeno un po' di zuppa...” provò il cremonese, preoccupato nel vedere la Tigre ridotta a quel modo, specie non sapendone il motivo.

“Ti ho detto di no.” rispose lei, scuotendo il capo ancora una volta.

“Ma...” provò il ragazzo, accigliandosi.

“Sei stupido o sordo?!” l'attaccò allora la Sforza: “Ti ho detto di no! Sparisci!”

Abbattuto, riconoscendo i modi bruschi di Caterina, ma avvertendo un sottofondo stonato, spaventato forse, Baccino raccolse il cibo non mangiato, afferrò il vassoio e, con uno sguardo triste rivolto alla Leonessa, chinò appena il capo e tornò alla porta.

“La mia signora non ha appetito.” spiegò, quando Aloisio, prima di lasciarlo uscire, lo fissò interrogativo, notando il vassoio quasi intatto.

Quella sera, quando il carceriere andò a riferire direttamente a Cesare della cena rifiutata dalla Leonessa, il Valentino non poté trattenere una risata ed esclamare: “Fatemi portare del vino, ma del vino buono, mi raccomando. Questa sera ho voglia di festeggiare, perché quando una cosa inizia bene, di solito finisce anche meglio!”

 

Era notizia abbastanza fresca che Galeazzo Sanseverino fosse stato ceduto dagli svizzeri al Balì di Digione per duemila ducati. Era stata, forse, una cosa buona, per il condottiero che, altrimenti, non sarebbe mai riuscito a ottenere davvero la libertà.

Si diceva che Antonio da Baissay avesse proposto di scarcerarlo una volta e per tutte al prezzo di cinquemila ducati, ma che, dopo una lunghissima discussione, si fossero accordati per tremila, con grande scorno del Balì, che così, da tutta quella lunga trattativa, aveva ricavato mille ducati appena.

Gian Giacomo da Trivulzio trovava quasi comico quel fatto, tanto che anche quel giorno, mentre cavalcava ritto sul suo enorme cavallo da guerra, gli scappava da ridere, immaginando che faccia avesse potuto fare il francese, quando, infine, aveva intascato i soldi.

Il Trivulzio e il Cardinale di Rouen – che, malgrado tutte le cariche di cui si vantasse, alla fine aveva chiesto a Gian Giacomo di affiancarlo, perché non si sentiva abbastanza sicuro della propria autorevolezza – stavano lasciando Pavia, e avevano preso la strada per Como.

Secondo il condottiero milanese, era un azzardo lasciare entrambi il cuore del Ducato per andare fino a Como a trattare con gli svizzeri, ma gli ordini che erano arrivati dall'alto erano molto chiari: era necessario trovare un modo per farsi cedere vantaggiosamente Bellinzona.

L'unica via praticabile, fin dal principio, era apparsa quella di andare a parlamentare direttamente con La Tremouille a Como, e cercare di convincere gli svizzeri a non pretendere troppo e cedere finalmente quel passaggio strategico al re di Francia, che avrebbe saputo ricompensarli adeguatamente.

“Cosa diremo a La Tremouille, quando ci chiederà in che modo li ricompenserà il re?” aveva chiesto il Cardinale di Rouen, la sera prima, mentre si preparavano alla partenza.

“Cosa diremo, cosa diremo...” si era spazientito il Trivulzio: “Per promettere basta poco: diremo loro che il re concederà benefici a tutti, a partire proprio da La Tremouille. E poi prenderemo tempo, come fanno tutti.”

Il Cardinale non aveva osato contraddire il condottiero, reputandolo più esperto di lui in quel genere di trattative, tuttavia, anche quella mattina, mentre lasciavano una Pavia baciata dal sole di maggio, Gian Giacomo vedeva il suo compagno di viaggio sgranare un rosario dopo l'altro.

Così, avvicinando un po' di più il proprio cavallo a quello del porporato, gli disse, sforzandosi di restare serio, ma trovando estremamente comica l'espressione affranta del religioso: “Avanti, Vostra Eccellenza, non siate teso... Se le cose dovessero proprio mettersi male, possiamo sempre piantare una spada in pancia a La Tremouille e scappare indietro fino a Milano!”

Dando in una risata piena, il Trivulzio si godette la faccia atterrita del Cardinale e, dando di speroni al suo cavallo, si mosse più avanti, raggiungendo la testa della colonna. Mentre scrutava l'orizzonte, ancora divertito per la reazione del porporato, si chiese come se la stesse passando il suo amico Troilo de Rossi. Se solo l'avesse avuto al suo fianco, in tutta quella confusione, le giornate sarebbero di sicuro passate più rapide, e avrebbe avuto qualcuno di intelligente non solo con cui parlare, ma anche – e la cosa, a suo modo di vedere non era affatto meno importante – con cui ridere.

   
 
Leggi le 1 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Storico / Vai alla pagina dell'autore: Adeia Di Elferas