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Autore: Adeia Di Elferas    01/09/2020    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
Capitoli:
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Lorenzo Medici non era riuscito a chiudere occhio, quella notte. In parte, forse, era stata colpa del vento che aveva continuato a sferzare la sua finestra e, in parte, dell'attesa ormai spasmodica di sapere cosa sarebbe successo a Lucca.

Anche se il suo pensiero era sempre focalizzato di più sui propri problemi personali, seguire attentamente le vicende della Lucchesia era indispensabile, se voleva scegliere le sue prossime mosse all'interno della Signoria. Il suo potere – sarebbe stato da illusi credere il contrario – era sempre più fragile, e sarebbe bastato davvero un nonnulla per sgretolarlo.

Doveva quindi studiare a fondo ogni risvolto degli affari non solo interni, ma anche esterni di Firenze, e volgerli a suo vantaggio. Il potere era indispensabile in quel momento: sapeva che i figli di Caterina Sforza erano lì, in città, e aveva anche avuto una soffiata abbastanza sicura riguardo l'alloggio di almeno quattro di loro. Mancavano, però, all'appello la figlia e il bambino più piccolo, quello che a lui interessava maggiormente.

Se solo avesse saputo dove andare a prenderlo, godendo dei favori della Repubblica, avrebbe sfruttato il suo ruolo di padre della patria per ottenere il permesso di portarlo via a forza e imporsi come suo tutore legale, scavalcando sia la legittima madre, prigioniera dei francesi a Roma, e quindi nemica anche di Firenze, sia i mallevadori del contratto di custodia che avevano firmato mesi e mesi prima.

In fondo, pensava Lorenzo, mentre scendeva per mettere qualcosa sotto i denti, malgrado fossero ben due, i garanti di quella custodia, in quel momento entrambi si trovavano impossibilitati a onorare il loro obbligo. Ottaviano Riario, che verosimilmente non aveva denaro con sé, o, se sì, molto poco, non avrebbe avuto le sostanze per ottemperare alle giuste richieste del Medici. Luffo Numai, invece, era lontano e pareva anche troppo invischiato nei maneggi del nuovo governo di Forlì per ricordarsi dei suoi doveri verso il figlio più piccolo della Leonessa di Romagna.

Comunque la si metteva, il Popolano aveva gli estremi per dichiarare rotto il patto, inadatta Caterina Sforza come tutrice – in quanto prigioniera di guerra – e legittimato il suo status di tutore del piccolo Giovannino.

Sedutosi al tavolo, mentre fuori il cielo cominciava appena a farsi azzurro, il Medici guardò distrattamente cosa i servi avessero già preparato e, scegliendo qualcosa senza davvero farci caso, cominciò a mangiare. Masticava in modo automatico, senza nemmeno sentire i sapori, e a ogni boccone il suo stomaco rispondeva con una sferzata di acidità tale da fargli dolere anche tutto il petto. Era già da un po' che a volte gli succedeva. Aveva anche consultato un dottore, ma gli aveva detto che, probabilmente, era solo colpa delle preoccupazioni che, a lungo andare, oltre che il sonno gli dovevano aver rovinato anche la digestione.

Spostando da davanti a sé il piatto, l'uomo si abbandonò un istante contro lo schienale della sedia, gli occhi che si chiudevano. Malgrado la tensione per l'attesa delle notizie che, sperava, sarebbero arrivate già quel giorno da Lucca, il Medici cominciava ad avvertire il peso della notte passata insonne. Senza rendersene conto, pian piano, finì per assopirsi.

Quando Semiramide entrò nella sala, in un primo momento nemmeno si accorse del marito che dormiva seduto a capotavola. Era così presa dalla mezza discussione avuta poco prima con il figlio Pierfrancesco, da non accorgersi proprio di nulla.

Il suo primogenito stava diventando via via per lei un enorme grattacapo. Quella mattina, per esempio, quando lei era uscita dalla propria stanza dopo una notte passata quasi del tutto insonne, l'aveva visto mentre rientrava a palazzo dopo essere stato fuori tutta la notte.

Il ragazzino aveva dato spiegazioni evasive e contorte del motivo per cui stesse ritornando a casa solo a quell'ora e anche se sapeva che sua madre poteva benissimo immaginare quali fossero state le sue occupazioni, il giovane Medici pareva quasi convinto di poterla ingannare raccontando di improbabili contrattempi e fantasiosi imprevisti.

“Invece di spendere soldi in osterie e donnacce – l'aveva ripreso l'Appiani, afferrandolo per la collottola, con un cipiglio che di rado usava con i figli – avresti dovuto passare la notte a dormire, così questa mattina avresti potuto svegliarti presto per studiare!”

“E perché mai?” aveva ribattuto Pierfrancesco, cupo: “Tanto mio padre ha già deciso che sono un inetto. A che servirebbe studiare ancora?”

A quelle parole, la madre non era più stata in grado di ribattere e l'aveva lasciato andare, osservando il suo profilo disordinato e memore di una notte brava, finché non era sparito in direzione della sua camera.

Così Semiramide era scesa per far colazione, sperando, a quell'ora, di non incontrare nessuno e invece aveva subito trovato il marito assopito seduto al tavolo.

Lo guardò per un lungo istante. In parte sentiva che la colpa degli atteggiamenti che Pierfrancesco aveva assunto nell'ultimo periodo fosse sua. Se il loro primogenito avesse avuto un padre capace di essergli da esempio, si sarebbe comportato in modo molto diverso. Era stato un bambino rispettoso, affettuoso e amabile. Poi, quando il Popolano aveva cominciato a cambiare, anche lui, inesorabilmente, si era trasformato, diventando un ragazzino difficile da capire a ancor più difficile da gestire.

L'Appiani osservò con attenzione i lineamenti del marito. Erano cambiati anche loro, nel corso degli anni. Da quando Giovanni era partito per la Romagna, si erano fatti sempre più affilati. Dopo la morte del Medici, poi, le guance di Lorenzo erano diventate scavate, la fronte sempre aggrottata e le labbra, un tempo imbronciate solo per conformazione, avevano smesso di sorridere per sempre.

In quel momento, però, mentre dormiva in silenzio, sul suo volto il Popolano aveva un velo di pace, come se per qualche minuto potesse scordare tutti i rancori e la rabbia che si portava costantemente dentro. In quel frangente, alla moglie sembrava quasi il ragazzo un po' spaventato e timido che aveva sposato quasi vent'anni prima.

Dimenticando tutto il resto, trasportata dalla voglia imperante di poter tornare indietro e ritrovare l'uomo che aveva sperato di poter tenere al proprio fianco per tutta la vita, Semiramide si chinò appena verso di lui e, senza pensarci oltre, gli sfiorò le labbra con le sue.

Il Medici strinse appena gli occhi, ancora a metà strada tra il sonno e la veglia, e rispose al bacio, ma solo per qualche istante. Nel momento stesso in cui si rese conto di quello che stava accadendo, si ritrasse e fissò la moglie accigliato.

L'Appiani, portandosi una mano alle labbra, in parte a voler fermare la sensazione calda e familiare di poco prima, e in parte vergognandosi per aver ceduto a quell'istinto, che, evidentemente, al marito non era stato gradito, si ritrasse a sua volta e, subito dopo, disse: “Perdonami. Non avevo intenzione di...”

Lorenzo, deglutendo, scosse appena il capo, e si schiarì la voce. Impacciato, anche lui ancora in parte immerso nella sensazione piacevole e calda provata nello svegliarsi con un bacio della consorte, si alzò da tavola e mosse un paio di passi verso la porta.

Malgrado volesse mantenere la sua posizione distaccata e fredda nei confronti di sua moglie, che non era mai stata capace di appoggiarlo, nella sua guerra personale contro Caterina Sforza, l'uomo era restio ad andarsene davvero. Quel bacio, per quanto fugace e dato forse sperando che lui non se ne accorgesse, aveva riattizzato il braciere mai davvero spento che portava nel petto.

“Semiramide...” cominciò a dire, con voce incerta, ma proprio mentre stava per spingersi oltre quel semplice incipit, uno dei suoi servi gli arrivò alle spalle, annunciando una missiva importante.

Senza pensarci un attimo, l'uomo l'afferrò, e, vedendo che arrivava da Lucca, l'aprì all'istante, mettendosi a leggerla là dov'era.

L'Appiani, che fino a un istante prima aveva sperato di vedere un moto di riappacificazione da parte del marito, si rabbuiò nel notare come, con l'arrivo di quella lettera, lei era di nuovo passata in secondo piano.

Il volto di Lorenzo stava virando di colore, dal cereo al violaceo, mentre l'uomo leggeva di come la città di Lucca si fosse levata in armi contro i suoi governanti, che volevano ubbidire al re di Francia, rendendo l'intero territorio alla podestà fiorentina. Con ogni probabilità, diceva il suo informatore, Lucca non sarebbe tornata a Firenze, ma, anzi, quei moti andavano a indebolire non solo il potere del re di Francia in Italia – che di fatto non era stato obbedito – ma anche e soprattutto la Signoria, che non avrebbe avuto nemmeno i mezzi per ottenere ubbidienza con la forza.

'Ora li avrò ancor di più tutti contro' stava pensando Lorenzo, cominciando a sudare freddo, la gola che si seccava e il cuore che batteva più rapido. Era stato lui a imporre l'alleanza con il re di Francia, promettendo grandi vantaggi, e, invece, perfino la questione di Lucca si stava trasformando in una nuova dimostrazione dell'inconsistenza degli aiuti francesi a Firenze. Di fatto, per la Repubblica sostenere re Luigi era stata solo una spesa e un rischio d'immagine, e, in cambio, non si era ottenuto nulla.

'La caduta della Sforza – si diceva da solo il Medici – io ho ottenuto quello. Ma a Firenze non interessa nulla, di lei.'.

“Devo uscire.” fece l'uomo, ripiegando il messaggio, senza nemmeno più guardare la moglie: “E non tornerò per pranzo. Forse... Forse nemmeno per cena.”

Semiramide, che aveva intuito che il cambio repentino di atteggiamento del marito fosse legato a qualche questione politica, ribatté, amareggiata: “Se tu stanotte rientrassi tardi perché sei stato in un bordello, come ha fatto stanotte tuo figlio, ne sarei sollevata. Arrivati a questo punto, sarebbero quasi più sano...”

Il Popolano registrò con fatica le parole della moglie, non riuscendo, nell'immediato, a rilevare tutte le informazioni che la donna aveva voluto far rientrare in due frasi appena. Così, scuotendo il capo, l'uomo le voltò le spalle, senza più dire altro, e da quel momento in poi, per tutto il giorno l'unica cosa a cui riuscì a pensare furono Firenze, la custodia del bambino che tutti ritenevano suo nipote e il potere.

 

“Ve l'assicuro – disse frate Lauro, appena udibile, mentre voltava la schiena alla porta, per coprire come meglio poteva la scena a eventuali occhi indiscreti – scritto a questo modo, non è minimamente riconducibile a quello che stiamo facendo, ma, di contro, chi dovrà capire, capirà e prenderà per buono il vostro pagherò.”

Quando quel giorno Bossi era entrato nella sua stanza, Caterina aveva avuto fin da subito il sentore che portasse con sé notizie importanti riguardo il loro piano. Malgrado ciò, non si era aspettata che il religioso avesse già tutto quasi pronto e che, a suo dire, la partenza sarebbe stata organizzata nel giro di pochi giorni.

Spiegandole che era più prudente non darle troppi dettagli – nel caso sfortunato in cui fossero stati scoperti e l'avessero interrogata per avere i nomi dei complici – frate Lauro le aveva porto con estrema attenzione un foglio da firmare, che sarebbe servito come assicurazione a chi di dovere del fatto che, a progetto ultimato, la Tigre avrebbe saldato il suo debito di riconoscenza.

Abbastanza nascosta da Bossi, che teneva perfino le mani a pugno sui fianchi, per rendere il proprio schermo ancor più ampio, la Sforza lesse in fretta il documento stilato dal frate in persona.

Anche se avrebbe firmato qualsiasi cosa, nella speranza di poter arrivare a Firenze in fretta e mettere in salvo Giovannino dalle mire di Lorenzo Medici, non poté trattenere una mezza esclamazione di sorpresa, quando lesse ciò che Lauro aveva messo nero su bianco.

“Quattrocento ducati d'oro?!” chiese, tenendo la voce più bassa che poteva, ma non riuscendo a impedire al proprio viso di mostrare esattamente ciò che provava: “Credete davvero che io li abbia?”

“No, e infatti con questo documento giurate sui Vangeli e vi impegnate a pagare in futuro, non ora, per tutti i servigi che vi sto offrendo.” ribatté lui, tranquillo, con il consueto sorriso irritante.

“Sappiate – precisò lei, firmando – che potrebbero volerci mesi, se non anni, per aver da me così tanti soldi. Persa Forlì, ho perso tutto, e il denaro che il mio ultimo figlio ha ereditato da suo padre, è ancora nelle mani di mio cognato.”

“Sapremo aspettare.” la rassicurò Bossi e poi, infilando in fretta quel giuramento scritto nel tascone del suo abito, concluse: “Ora devo andare, se vogliamo che tutto sia fatto per tempo. Quando sarà il momento, vi dirò di fingervi indisposta. Poi vi darò una lettera, e la dovrete dare a chi vi dirò io.”

“Voglio portare a Firenze con me anche Baccino. E possibilmente pure Argentina.” si allargò la Leonessa, frenando il religioso mentre già se ne stava andando.

L'uomo, vedendosi afferrare per la manica a quel modo, ebbe un brevissimo moto di pietà, ma poi, categorico, disse: “Per farlo dovrei maneggiare ancora a lungo e con più persone, e non è il caso di farlo, credete a me, che già ho scomodato abbastanza gente. Vostro figlio Ottaviano, anche con l'ultima lettera che ha mandato qui a Roma, a detto a tutti dov'è e si fa vanto di poter trattare con il papa... Fossi in voi, prima di pensare a Ser Baccino o alla vostra serva, penserei a me.”

“Va bene, va bene...” tagliò corto Caterina, sentendosi un mostro nell'abbandonare tanto facilmente chi le era stato vicino nei momenti peggiori, ma sapendo che il frate aveva ragione e, essendo meno coinvolto emotivamente, sapeva vedere le cose nella migliore delle prospettive: “A loro penseremo dopo.”

“Bene.” sospirò Bossi, allargando un po' le braccia, come a dire che se quello era davvero tutto, era pronto ad andarsene.

Poiché la donna non sembrava intenzionata ad aggiungere altro, il frate finse di darle l'assoluzione, borbottò una mezza preghiera e poi fece il segno della croce, a cui la Tigre rispose immediatamente.

“Mi raccomando...” aggiunse frate Lauro, proprio prima di andarsene: “Mangiate qualcosa in questi giorni... Mi servite in forze, siamo intesi?”

 

“Io l'avevo detto che quella donna era inutile!” sbottò il Duca di Valentinois, buttando sulla scrivania la missiva che gli era appena stata recapitata dalla Francia.

“La nascita di una figlia va comunque festeggiata...” provò a blandirlo il papa, che, in realtà, aveva sperato quanto Cesare che il nascituro fosse un maschio: “Si tratta di una nuova anima e...”

“Assurdità!” sbottò il Valentino, grattandosi la guancia, laddove si potevano vedere bene le cicatrici lasciate dalle croste luetiche che l'avevano tormentato nei mesi scorsi: “Adesso mi toccherà tornare da lei e farle fare un altro figlio... Con tutto quello che devo fare qui a Roma!”

Il papa, che aveva chiamato nel suo studiolo il figlio per metterlo al corrente della nascita della bambina, sollevò le sopracciglia e borbottò: “A Roma hai ben poco da fare, in realtà...”

“C'è la questione della Sforza e...” iniziò a dire Cesare, fermandosi però subito, al tacito richiamo del padre, che lo stava fissando con severità.

“Tu non sei il custode di quella donna. Il re di Francia ha dato quel compito a me.” gli ricordò il pontefice: “Tu dovresti essere intento a riorganizzare il nostro esercito per marciare sugli Stati che ancora non si sono piegati al nostro volere. E invece passi le giornate a guardare cosa fa tua sorella Lucrecia e...”

“Non parlatemi così.” il tono del Valentino era così perentorio, che perfino Rodrigo, abituato a prevaricare il prossimo, si trovò a tacere: “Con quale esercito, secondo voi, potrei marciare su città come Rimini o Urbino, ma anche solo Faenza? Per colpa vostra, i francesi si stanno dimenticando di noi, e presto lo faranno anche i fiorentini. Non che, per ora, ci abbiano aiutato granché...”

Il Santo Padre avrebbe voluto ricordare al figlio che, se Luigi XII si stava effettivamente disinteressando alla loro causa la colpa non era certo sua, quando proprio di Cesare, che aveva fatto di tutto per urtarsi coi condottieri d'Oltralpe. Tuttavia, in quel momento gli occhi del Duca erano animati da una fiamma nera che il papa non aveva mai visto, e che temeva più di quanto fosse lecito.

Supinamente, senza neppure più provare a far valere la propria autorità di padre, Alessandro VI riprese dalla scrivania la missiva che annunciava della nascita della nipote, e, con fare dimesso, sentenziò: “Fai come credi, pensa quello che vuoi... Ma ti do un consiglio: risolvi in fretta questa questione della Sforza, se è davvero questo che ti tiene qui a Roma. E poi riprendi subito in mano la spada. È con il sangue che si costruiscono gli imperi, non con le parole.”

Cesare, alle parole del padre, fece un ghigno difficile da interpretare, e si congedò con un formalissimo: “Vostra Santità...”

 

Alessandro Braccio si era svegliato presto, e la sua solerzia sembrava essere stata subito ripagata con l'arrivo di una missiva importante da Firenze. Ottaviano Riario, di fatto il suo committente per quella difficile manovra diplomatica, gli aveva scritto, congiuntamente al fratello Cesare, che pareva essersi da poco ricongiunto a lui, per esporre la sua definitiva richiesta da fare al papa.

Negli ultimi giorni le trattative con alcuni prelati di Roma stavano proseguendo bene, ma i fratelli Riario parevano avere più fretta di quanto il fiorentino credesse all'inizio.

In realtà Braccio era un po' scettico al pensiero che il Santo Padre si sarebbe accontentato di una loro formale e accorata rinuncia a ogni velleità su Imola e Forlì, tanto più essendo ancora Caterina Sforza sua prigioniera, ma faceva da ambasciatore e, come tale, non si sentiva nella posizione di dare consigli. Si tratteneva anche dall'esprimere la sua perplessità riguardo le pretese avanzate da Ottaviano: il Cardinalato e uno Stato, piccolo, ma tranquillo, gli sembravano davvero troppo.

Malgrado ciò, non smetteva di sentirsi molto ottimista. Negli ultimi giorni, poi, proprio grazie ai passi avanti fatti oliando laddove necessario presso uomini importanti come il Cardinale Medici o il Segretario Adriano, uomo di fiducia del papa, ad Alessandro era stato anche permesso di vedere di persona la Tigre. La donna l'aveva trattato con freddezza, chiedendogli in più occasioni perché stesse aiutando i suoi figli in quella che lei riteneva una battaglia persa in partenza, ma, malgrado quel trattamento secco, a Braccio la Leonessa piaceva e voleva fare quello che poteva per aiutarla.

Un paio di giorni prima, addirittura, era riuscito a ottenere da lei Baccino come servo. La donna gli aveva chiesto di sua iniziativa se gli servisse qualcuno ad aiutarlo, e lui, ben felice, aveva subito accettato. Caterina quindi gli aveva proposto quel ragazzo di cremona, dicendogli che l'avrebbe servito in ogni cosa, a patto che lo tenesse al sicuro.

A Braccio quella raccomandazione era suonata un po' strana, ma non si era fatto domande. Aveva richiesto, tramite Adriano, Segretario papale, quella concessione e subito il ragazzo era stato svincolato dalla prigionia e affidato a lui come tuttofare.

Così, quella mattina, finito di mangiare qualcosa, Alessandro si era fatto aiutare proprio da Baccino, e si era preparato per andare innanzitutto dalla Sforza a parlarle del contenuto della lettera dei giovani Riario. Voleva che lei fosse informata di tutto, per evitare incidenti.

“Portatele i miei saluti.” disse, un po' mesto, il cremonese, mentre il suo nuovo signore lasciava il palazzo.

Non aveva capito perché la Tigre l'avesse allontanato a quel modo. A caldo, aveva creduto di aver fatto qualcosa che l'avesse urtata e che quella fosse una sorta di punizione. A freddo, invece, si era reso conto che quella mossa poteva sottintendere qualcosa di diverso. Caterina, lui l'aveva imparato in fretta, tendeva sempre a voler proteggere chi amava in modo spesso difficile da capire.

Allontanandolo da sé, forse stava cercando di difenderlo da qualche pericolo che lui ancora non poteva vedere.

Alessandro Braccio, invece, non pensava minimamente a tutte quelle sfumature: per lui il lavoro appariva semplice e lineare. Aveva una nuova proposta da portare all'attenzione del papa e che prima voleva mostrare alla Leonessa. Tutto era molto semplice, nella sua testa.

E infatti uscì per le vie polverose di Roma con l'animo lieto e la certezza che le sue parole sarebbero state un balsamo anche per l'animo ferito della Leonessa: dimostrarle che i suoi figli si stavano adoperando tanto per lei, l'avrebbe sicuramente fatta sentire meglio.

Arrivato al Belvedere, però, capì subito che ci fosse qualcosa che non andava. Nei giorni precedenti, quando si era portato fino a lì per incontrare la Leonessa, era stato fatto entrare senza problemi. Quella mattina, invece, vide subito il carceriere, Aloisio, nel prato davanti al portone di ingresso alla torre, e gli sembrava chiaro che stesse lì per impedire a chiunque di avvicinarsi.

“Che volete?” chiese, quando Braccio gli si avvicinò.

“Come sapete, quando vengo qui è per parlare con Madonna.” spiegò il fiorentino, accigliandosi.

“Non si può.” tagliò corto Aloisio: “Oggi non si può proprio.”

“Come mai?” chiese allora Alessandro, deglutendo.

“Vi dico che non si può. Che volete dirle?” riprese il carceriere, inquisitorio.

Il diplomatico spiegò, senza scendere nei dettagli, il motivo della sua visita, pensando che fosse sempre meglio omettere qualche dettaglio, ma non mentire spudoratamente.

“Madonna Sforza non si è ancora alzata, oggi.” ribatté, sempre più nervoso, Aloisio: “Purtroppo è di nuovo indisposta e non si può nemmeno pensare di andare a parlarle. Se proprio dovete discutere di queste cose con qualcuno, cercate il Segretario di Sua Santità, Adriano, e conferite con lui, in modo che ne parli al papa.”

“E per parlare con Madonna, invece?” insistette Braccio, che avvertiva man mano un nodo stringersi all'altezza dello stomaco.

Aveva la sensazione che fosse capitato qualcosa, ma non riusciva nemmeno a immaginare cosa di preciso. Era solo conscio del fatto che, più Aloisio parlava, più il suo sguardo si faceva sfuggente e la sua voce acuta.

“Se proprio dovete parlare con Madonna, mandate qualcuno domani, per vedere se si sarà in grado di ricevervi. E ora perdonatemi, ma ho da fare...” e, detto ciò, il carceriere girò sui tacchi, rapido come un fulmine, e varcò il portone della torre, richiudendosela subito alle spalle, quasi a intimidire Braccio e fargli capire di non andare oltre.

Pensieroso, il fiorentino tornò al palazzo dove alloggiava con estrema lentezza. Era quasi a destinazione, quando pensò che seguire le indicazioni di Aloisio era l'unica cosa che al momento potesse concretamente fare. Così, con un sospiro, invertì la direzione di marcia e virò verso le sedi vaticane.

“Vorrei un'udienza urgente con Sua Santità.” spiegò Alessandro, non appena trovò il Segretario del papa: “Perché devo esporgli le richieste che al papa interessano molto e che di certo gli saranno molto gradite. Sono richieste di Messer Ottaviano Riario e del fratello Cesare, che, come voi sapete, è un figlio di Santa Madre Chiesa esattamente come il pontefice.”

Adriano sollevò appena le sopracciglia, sorpreso da quello che riteneva un paragone molto azzardato, tuttavia, quando parlò, non diede mostra di essersi scandalizzato troppo: “Non c'è bisogno che vi prendiate tanto affanno a parlare con Sua Santità. Penserò io a farlo. Riferitemi in modo puntuale e preciso quanto i Riario chiedono, e io farò da tramite.”

Sentendosi costretto a dire tutto, Braccio vuotò il sacco, esponendo capillarmente le richieste avanzate da Ottaviano e Cesare, ben attento a non dimostrare quanto lui stesse ritenesse a tratti quelle pretese eccessive e prive di attrattiva, per il pontefice.

“Sono richieste molto sagge e ben oculate.” commentò Adriano, quando il fiorentino ebbe finito il proprio monologo: “Ne parlerò diffusamente con il Santo Padre, ma sono sicuro che ne resterà molto soddisfatto. In merito all'Arcivescovato per Messer Ottaviano, poi, sono di ferma opinione che il Santo Padre non farà difficoltà alcuna, e lo stesso vale per lo Stato che richiedono. Però, in merito a ciò, vorrei una piccola delucidazione.”

“Quello che vi occorre.” disse prontamente Braccio, sorpreso nel trovare il Segretario tanto morbido alle sue preghiere.

“Voi sapete se Messer Ottaviano abbia intenzione di richiedere uno Stato in particolare? Ne vorrebbe uno più di un altro?” per la prima volta da che la loro conversazione era cominciata, Alessandro avvertì una nota viscida nelle parole del suo interlocutore.

Fece finta di nulla e rispose: “No, no, non che io sappia. Uno Stato vale l'altro, purché si tratti di uno Stato sicuro e netto.” siccome l'altro annuiva e basta, Braccio soggiunse, accorato: “Posso sperare che voi mettiate una buona parola per questa causa e abbiate compassione per questi giovani che si sono trovati in mezzo alla tempesta per colpa di una madre troppo testarda e violenta?”

“Lo farò.” promise il Segretario, con un sorriso stentato: “Ho molti obblighi verso la memoria di Sua Santità papa Sisto IV, e anche verso il compianto Messer Girolamo Riario. Inoltre confesso che la causa di questi poveri ragazzi mi fa pietà ed è dovere di ogni buon cristiano aiutare chi ci suscita pietà.”

“Che Dio vi benedica.” ringraziò Alessandro: “E sappiate che i miei Signori non vi saranno ingrati.”

“Ne sono sicuro.” fece eco Adriano, per concludere, mentre già accompagnava alla porta il fiorentino: “Tornate domattina. Questa sera avrò modo di stare con il papa, e gli parlerò di tutto quanto.”

Braccio ringraziò e uscì dal palazzo, inoltrandosi ancora una volta nelle vie sinuose e strette di Roma.

Era così soprappensiero, che si perse per ben due volte, ma alla fine riuscì a tornare al proprio alloggio. Anche se, per il momento, era stato rassicurato e gli sembrava, comunque, di aver ottenuto qualche piccolo risultato, non riusciva a scrollarsi di dosso la sensazione che stesse per accadere qualcosa di brutto.

Si chiese se quel 25 maggio avrebbe davvero portato con sé qualcosa di tremendo, oppure se era solo colpa della stanchezza, che a volte gli giocava brutti scherzi, facendogli vedere segni nefasti anche dove non ce n'erano.

“Domani mattina – disse Braccio, quando incrociò Baccino, intento a riattizzare un camino in una delle sale – voglio che voi andiate al Belvedere. Oggi non mi hanno permesso di vedere Madonna Sforza, perché mi hanno riferito che è indisposta, e mi hanno detto di mandare qualcuno domani a vedere se si fosse rimessa. Vorrei che andaste voi.”

“Io?” soffiò il cremonese, che in realtà non aspettava altro se non una scusa per rivedere la donna che amava: “Perché mandate proprio me? Madonna Sforza mi ha ceduto a voi... Mi pare chiaro che...”

“Perché siete un tipo sveglio.” lo zittì Braccio: “Ho capito che non siete solo un coppiere. Voglio che andiate e vi guardiate in giro. Se notate anche voi qualcosa di strano, dovrete riferirmelo subito.”

“Voi avete notato qualcosa di strano?” chiese Baccino, cominciando a sentirsi teso.

“Non lo so...” soppesò Alessandro: “Ma fino a domani mattina, non possiamo fare altro che attendere.”

   
 
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