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Autore: Adeia Di Elferas    04/09/2020    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
Capitoli:
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Corvarano non riusciva a prendere sonno, quella notte. Più si rigirava nel letto, più la sensazione di essersi messo in un pasticcio più grande di lui lo pervadeva.

All'inizio gli era sembrato tutto semplice: un modo veloce e moderatamente facile per fare soldi, per di più con la speranza di guadagnare i favori del papa, dimostrandosi un suo fedele servitore.

E all'inizio era stato davvero facile. Aveva preso contatto con frate Lauro Bossi, l'aveva convinto di essere l'uomo che faceva al caso suo, e aveva anche fatto in modo di coinvolgere l'ignaro Giovanni Battista di Imola nei giochi, in modo da apparire ancor più motivato e in buona fede.

Aveva sussurrato lui all'orecchio del frate come muoversi, e quello aveva fatto esattamente come gli era stato detto. Aveva convinto la Tigre di Forlì a fingersi malata, in modo tale da poterla visitare per confessarla e darle l'unzione riservata a morenti e malati gravi, e poi aveva convinto senza sforzo i carcerieri a far entrare proprio lui, Corvarano, spacciandolo per qualcuno capace di alleviare le di lei sofferenze in un momento tanto critico.

A quel punto, ben istruita, la donna gli aveva girato la lettera scritta da Lauro Bossi, e a lui non era bastato che farsela scivolare dalla cinta proprio mentre passava davanti al Duca di Valentinois. In quel modo non si era macchiato formalmente di tradimento, ma, allo stesso tempo, come da accordi, aveva fatto in modo che Cesare Borja ottenesse le prove di un tentativo di fuga da parte della sua prigioniera.

Tutto era andato secondo i piani, eppure quella notte tra il 25 e il 26 maggio, Corvarano non riusciva a prendere sonno. Gli sembrava che, nella notte di Roma, ogni cigolio e ogni abbaiata di cane in lontananza fossero segni che qualcosa, per lui, stesse per andare tremendamente storto.

L'uomo stava inseguendo le ombre gettate sul soffitto dalla luce fredda della luna, quando avvertì distintamente uno schianto. Con il cuore che schizzava in gola, deglutì e chiese a voce alta che stesse accadendo.

Nessuno gli rispose, ma sentì subito le voci dei suoi servi, al piano di sotto, fare domande e gridare, preda dello spavento, e, subito dopo, qualcuno correre sulle scale.

Immobilizzato dalla paura, Corvarano non riuscì nemmeno ad alzarsi dal letto. Era come pietrificato: solo il battere impazzito del suo cuore, e il respiro affannoso gli ricordavano di essere ancora vivo.

Quando i soldati del papa lo presero di peso per portarlo via, Corvarano si accorse di essersi urinato addosso, ma in quel momento non gliene importava nulla. Tutto ciò che avrebbe voluto, sarebbe stato gridare e implorare pietà, ma, per quanto ci provasse, l'unica cosa che usciva dalla sua gola era un rantolo terrorizzato, più simile al miagolio di un piccolo gatto che non alla voce di un uomo adulto.

 

Baccino, mosso soprattutto dalla voglia di vedere come stesse davvero Caterina, si era svegliato molto presto e prima ancora che sorgesse il sole era stato pronto per andare al Belvedere. Su consiglio di Braccio, che come lui non aveva trovato pace per tutta la notte, aveva comunque aspettato che fosse mattina, come da accordi con Aloisio, prima di mettersi in strada.

Mentre attraversava alcune strade di Roma, tanto anguste da togliergli il fiato, il cremonese si rese conto all'improvviso della libertà che gli era stata concessa in quegli ultimi giorni. Se solo avesse voluto, in qualsiasi momento avrebbe potuto tagliare per una traversa, mettersi a correre e mescolarsi alla gente dei bassifondi. Sarebbe potuto scappare da Roma nel giro di un giorno, o anche meno.

Mentre affiancava un vicolo, che si diramava sinuoso proprio dall'ultimo tratto di strada che poi l'avrebbe portato al Belevedere, Baccino si fermò un istante. Fu appena un soffio, tra un battito del cuore e l'altro. La guerra tra la voglia di sopravvivere e mettersi al sicuro e il desiderio di restare fedele a Caterina e fare per lei tutto quello che poteva standole vicino si spense molto in fretta.

Con le spalle appena piegate e gli occhi bassi, il ragazzo abbandonò subito l'idea di scappare, e riprese a camminare in mezzo alla confusione, diretto alla torre dei Borja, ormai del tutto disinteressato alle possibili vie di fuga che vedeva a ogni angolo di strada.

Con ancora la mente turbata dall'epifania di poco prima, e, soprattutto, dalla facilità con cui si era trovato a scartare nell'immediato la prospettiva di scappare, il giovane arrivò al portone della torre e, trovandolo chiuso, bussò un paio di volte.

Stava quasi per mettersi a gridare, in modo da richiamare l'attenzione dei carcerieri e farsi aprire, quando fece capolino Aloisio. L'uomo lo squadrò a lungo da capo a piedi e poi, pleonasticamente, gli chiese perché fosse lì.

“Come avevate detto di fare voi – rispose Baccino, fissando il volto grigio del suo interlocutore e cercando di scorgervi qualche traccia di tensione o di qualsiasi altra cosa che l'aiutasse a capire meglio quella strana situazione – sono venuto a sapere se Madonna oggi potrà ricevere messer Braccio, mio padrone.”

Aloisio scosse subito la testa: “No, non si può.”

“Madonna non è più nella torre?” chiese, indagatore, il cremonese, colpito da quell'idea improvvisa.

Il carceriere a quel punto si schiarì la voce e, con tono molto più aggressivo, ribatté: “Madonna c'è, ovviamente. Dove altro potrebbe essere? Però non le si può parlare.”

“Sta ancora male?” provò a domandare Baccino: “Sta così male da non poter incontrare nessuno?”

“Andate con Dio, ragazzo...” tagliò corto Aloisio, dandogli un piccolo spintone e facendolo indietreggiare abbastanza da chiudergli la porta a un soffio dal naso.

Colto da uno sconforto irrefrenabile, Baccino provò a cacciare un paio di urli, chiedendo che il portone venisse riaperto, perché doveva fare ancora delle domande, ma, ovviamente, non ottenne risposta.

Il presentimento che fosse successo – o stesse succedendo proprio in quel momento – qualcosa di grave, si stava trasformando via via in certezza e Baccino non sapeva come gestire l'ansia che ne derivava.

Dopo aver atteso ancora qualche secondo, essendo ormai convinto che al Belvedere, almeno per il momento, non avrebbe ottenuto nulla, il giovane si mise a ragionare e a camminare, diretto di nuovo al palazzo del suo nuovo padrone, ma prendendo una strada diversa da quella percorsa all'andata.

Con passo spedito, andò fino al Ponte Sant'Angelo, lo attraversò, lasciandosi alle spalle Castel Sant'Angelo, e poi imboccò la Via dei Banchi. Non sapeva nemmeno lui perché avesse scelto quella traversa, dato che si trattava di una strada molto più caotica e confusionaria di quella che seguiva di solito, ma a un certo punto ebbe il sentore che fosse stato il destino a farlo andare da quella parte.

“Voi siete il coppiere di Madonna Sforza!” gridò un uomo, correndogli incontro.

Baccino, seppur allerta, per paura che quell'apostrofarlo sottintendesse una qualche minaccia, si fermò subito e rispose: “Sono io... Anche se adesso lavoro per Messer Braccio.”

“Certo, certo, lo so.” disse l'altro, annuendo frenetico, mentre veniva raggiunto da un suo conoscente: “E credo conosciate frate Lauro Bossi!”

Baccino, abbassando appena la voce, visto che qualcuno dei passanti iniziava a guardarli, incuriosito dai nomi che sentiva fare, ribatté: “Lo conosco, ma dovete dirmi che volete.”

“Noi – spiegò finalmente il secondo arrivato – siamo servitori di Corvarano. Stiamo cercando il frate per dirgli di lasciare immediatamente Roma!”

Il cremonese fece del suo meglio per non scomporsi, ma quell'avvertimento gli suonò solo come una conferma a tutti i dubbi che aveva avuto fino a poco prima: qualcosa era successo, o stava per succedere, e non si trattava di nulla di buono.

“Ma che state dicendo?” chiese Baccino, assumendo un atteggiamento stupito, quasi che mostrarsi sorpreso servisse a qualcosa.

“Corvarano è stato preso questa notte, è stato messo in carcere.” raccontò uno dei due servi: “E così hanno fatto con Giovan Battista da Imola! E dicono che Giovan Battista fosse proprio con Madonna Sforza, quando l'hanno preso. Adesso faranno altrettanto con il frate, perché dicono che c'entri anche lui! Non sappiamo che sia successo, ma pare sia cosa grave!”

“Se quello che dite è vero – fece a quel punto Baccino – perché non andate voi stessi ad avvisare il frate del pericolo che corre?”

“Perché non sappiamo dove alloggi!” rispose prontamente uno di loro: “Stavamo chiedendo in giro, quando vi abbiamo visto e riconosciuto... Voi sapete dove alloggia, no?”

“Sì...” ammise il ragazzo, e poi, scartando l'ipotesi che tutta quella questione fosse una trappola di una qualche sorta, esortò i due servi a seguirlo: “Venite con me. Andiamo ad avvisarlo che deve andarsene e magari lui saprà anche dirci perché Corvarano e Giovan Battista sono stati presi prigionieri.”

I tre uomini, guidati da Baccino, si misero quasi a correre, diretti agli alloggi di frate Lauro. I servi del palazzo in cui Bossi soggiornava non li fermarono, quando li videro entrare, anzi, li seguirono fino alla stanza del religioso, farfugliando qualche spiegazione confusa.

Siccome non solo la porta della camera era aperta e con un cardine rotto, ma la stanza stessa era vuota e il letto ancora sfatto, Baccino chiese, con un certa aggressività: “Che fine ha fatto frate Lauro?!”

I domestici del palazzo si guardarono l'un l'altro, finché uno non confessò: “Sono venuto a prenderlo appena prima dell'alba. Erano famigli del Governatore, li abbiamo riconosciuti. L'hanno portato via a forza, ma non gli hanno detto niente, e lo stesso con noi. Non hanno spiegato nulla...”

Preso da una frenesia cieca, Baccino inspirò a fondo e poi, lasciandosi tutti alle spalle, corse fuori dalla camera, fuori dal palazzo e poi lungo la strada, di nuovo diretto al Belvedere. Erano stati arrestati tre uomini che, bene o male, potevano dirsi vicini a Caterina. Non era possibile che a lei non fosse successo nulla.

La torre dei Borja si stagliava ritta davanti a lui, tagliando il cielo a metà. L'ombra densa che gettava in terra sembrava quasi una scure pronta a tagliare il capo a chiunque si fosse avvicinato.

Il cremonese, però, non vedeva nulla, se non il portone lasciato mezzo aperto. Forse, si disse, sarebbe riuscito a entrare senza nemmeno essere visto, e salire in cima, fino alla cella della Tigre.

Aveva appena finito di formulare quel pensiero, però, che una guardia uscì e si mise proprio davanti al pesante legno dell'uscio, spada alla mano e celata abbassata.

“Devo vedere Madonna Sforza.” disse il cremonese, gonfiando il petto, sentendo di potersela vedere alla pari con il soldato che aveva dinnanzi.

Da quando era a Roma, dovendosi fingere prima un servile coppiere e poi un tuttofare qualunque, aveva finito quasi per dimenticarsi del suo vero mestiere, ovvero quello delle armi. Se non fosse stato un armigero, e uno anche abbastanza bravo, era certo, tanto per dirne una, che la Leonessa non si sarebbe mai interessata a lui. Dunque era bene ricordarselo e mettere in mostra i propri muscoli con una postura fiera e bellicosa.

“Non potete vederla.” si oppose la guardia, allargando un po' le gambe e contrapponendo alla prestanza fisica di Baccino, tutto il ferro che portava addosso: “Anzi, vi consiglio di andarvene subito, perché c'è grande scandalo, e tutti sanno che voi siete il diavolo delle cose di Madonna e si dice che siate stato trovato qui nel suo letto anche di recente. Fossi in voi non mi farei vedere molto, prima di fare la fine di frate Bossi e di tutti gli altri.”

“Che intendete? Nel suo letto..? Ma che state..? Che fine ha fatto frate Bossi?” le parole uscivano dalle labbra del cremonese come una slavina, arrotolandosi l'una sulle altre, senza lasciare spazio a nessuno dei suoi pensieri di formarsi per intero.

“Andate con Dio, e che Dio vi salvi, perché ce ne sarà bisogno.” concluse la guardia e, impugnando più saldamente la spada, continuò a fissarlo da sotto la celata finché Baccino non si sentì costretto ad andarsene.

 

Caterina aveva perso il senso del tempo. Era abbastanza sicura che fosse già pomeriggio per via della luce obliqua che arrivava dalla finestra, ma di fatto non riusciva nemmeno a contare i rintocchi delle campane, quando suonavano l'ora.

Il giorno prima aveva fatto come frate Lauro le aveva detto. Si era finta di nuovo indisposta e a Bossi era stato permesso arrivare da lei. Lui le aveva dato una lettera, chiedendole di passarla a Corvarano, un uomo che poteva aiutarli, e così aveva fatto.

Non sapeva, però, cosa fosse successo fuori dalla sua cella di lusso, una volta che quell'uomo se n'era andato. Sapeva solo che, dopo un po', quando nella sua camera c'era Giovan Battista da Imola, arrivato ufficialmente per aiutarla a riprendersi dal suo malanno, ma in realtà per comunicarle qualcosa riguardo la fuga, l'uomo era stato prelevato da lì con la forza dopo nemmeno due minuti dal suo ingresso. Le guardie lo avevano colpito con violenza in testa e poi, quasi esangue, lo avevano trascinato fuori, richiudendo la porta e lasciandola sola con il silenzio e l'angoscia.

La Tigre, a quel punto, era stata certa di due cose: il suo tentativo di fuga era stato scoperto e Cesare Borja stava mettendo in atto tutte le sue astuzie per farla soffrire. Secondo lei, infatti, non ci sarebbe stato motivo di aspettare che Giovan Battista entrasse nella sua stanza, per catturarlo. Farlo era servito solo a farle vedere, a farle capire, a farla sentire in colpa e in pericolo.

Chiedendosi chi altri fosse stato già preso – e la sua mente le prospettava le peggiori ipotesi, con coinvolti anche Baccino, Fortunati e Argentina – la Sforza aveva cominciato a piangere e aveva continuato tutta la notte e anche il mattino, fino ad arrivare, appunto, a quel pomeriggio, con gli occhi ancora rossi, la gola secca e l'anima tanto stremata da sembrare più sottile, trasparente, pronta a lacerarsi una volta per tutte.

Si era seduta sul letto, le gambe strette al petto. Non mangiava dal giorno prima, eppure non aveva fame. Era in uno stato di tesa sospensione, un po' come le era successo alla morte di Giacomo, ma senza la rabbia consueta a spingerla avanti. Nel suo petto provava solo desolazione e sconforto.

La paura subitanea di morire, però, l'aveva in parte lasciata. Viste passare la notte e la mattina, Caterina si era convinta che, per qualche giochetto crudele, il Valentino avesse deciso di tenerla in vita ancora un po', anche se, forse, un tentativo di fuga di quel tipo sarebbe stato sufficiente a ottenere una condanna a morte accettata anche dai francesi.

Ormai era rimasta più che altro la paura di scoprire cosa fosse successo a quelli che avevano cercato di aiutarla. E così, quando pareva che le lacrime fossero finite, riprendevano.

La Tigre stentava a riconoscersi. Non aveva mai pianto così a lungo e in modo così feroce. Voleva dare la colpa alla paura, alla stanchezza, alla debolezza del fisico, ma, intimamente, non poteva smettere di chiedersi cosa fosse diventata. Si interrogava sulla propria debolezza, dicendosi malignamente che forse lei era sempre stata quella: una donna spaventata che non riesce a far altro che piangere, invece di risolvere i problemi. Forse tutto il resto era sempre stato una maschera.

Le faceva paura, non riconoscersi più. Vedere una simile certezza venir meno era come sporgersi a guardare un dirupo e sentire la terra mancare sotto ai piedi.

Incapace di trovare una via d'uscita al labirinto in cui la sua mente si trovava incarcerata, la donna iniziò silenziosamente a pregare.

Quasi fosse stato uno scherzo del destino, proprio mentre le sembrava di aver trovato un minimo conforto nelle formule ripetitive e altisonanti delle preghiere che aveva imparato da bambina, quando ancora viveva protetta da una Milano che sentiva amica, Caterina sentì la porta spalancarsi.

“Credevi di fare la furba con me.” la voce di Cesare Borja era tagliente come un costoliere.

La Leonessa non aveva il coraggio di guardare verso il figlio del papa. Ne avvertiva la presenza, l'odore, perfino il calore. La nausea, peggiorata dallo stomaco vuoto e dall'ansia di quelle lunghissime ore, si fece insopportabile e, prima che potesse frenarsi, la donna dovette piegarsi di lato e, con le mani che si stringevano sull'addome, tentare un conato di vomito. Ovviamente non espulse nulla, se non una boccata acida, ma ciò non fu sufficiente a migliorare la situazione, anzi, la nausea non faceva che aumentare.

“Adesso hai paura?” chiese il Valentino, che, malgrado l'apparente spavalderia, per il momento se ne stava a distanza di sicurezza, non sapendo come avrebbe reagito la sua prigioniera, nel caso in cui si fosse avvicinato troppo o troppo in fretta.

“Mi fai schifo.” riuscì a dire lei, trattenendo un nuovo conato.

“Non sei la prima donna che me lo dice.” ribatté lui, abbozzando addirittura un sorriso: “Ma non è un problema mio.”

Caterina, che stava lentamente riprendendo il controllo del proprio stomaco contratto, si ritrasse ancora un po' di più verso la testata del letto, e provò a chiedere: “Che hai fatto a tutti loro?”

Non c'era bisogno di specificare l'oggetto della discussione, il Borja capì all'istante che la Tigre si stava riferendo al frate e agli altri due che erano stati catturati.

“Non è una cosa di cui tu ti debba preoccupare.” rispose, laconico, provando, questa volta, a ridurre la distanza tra loro: “Piuttosto, fossi in te mi preoccuperei per i tuoi figli... Da soli, a Firenze...”

Il modo in cui l'uomo aveva detto l'ultima frase, fece sollevare di colpo lo sguardo di Caterina. Era chiaro che il Duca non stesse cercando di indurla a confessare dove fossero: lui ormai lo sapeva per certo.

Abbastanza divertito dallo smarrimento che lesse negli occhi della sua preda, Cesare rise: “Tuo figlio Ottaviano non è molto sveglio, lasciatelo dire... Sua madre è pronta a vendere l'anima al diavolo pur di nasconderlo, e lui che fa? Manda subito lettere a destra e a manca indicando la città da cui sono partite...” la risata si trasformò in un ghigno carico d'odio: “E con che richieste, poi... Se uno non lo sapesse, a leggerle, si penserebbe che la guerra l'ha vinta lui e non io.”

La Sforza si era chiusa in un silenzio sordo. Guardava il Valentino, ora senza più tenere lo sguardo basso, eppure era come se tutto ciò che stava dicendo fosse per lei incomprensibile. In un certo senso, avrebbe trovato più liberatorio e giusto che lui la uccidesse in quel momento, strangolandola o piantandole un pugnale nel petto. Detestava vederlo giocare con lei a quel modo, come un gatto con un topo. Come lei aveva fatto più di una volta con Ludovico Marcobelli e con tanti altri...

“Questa volta non ne uscirai bene.” decretò Cesare, mettendosi un attimo di profilo, per guardare verso la finestra.

Il suo volto, dalla linea strana, un po' schiacciata quasi, riluceva come la pelle di un serpente. Era strano pensare, per la Leonessa, che ci fossero donne capaci di ritenere belli i suoi capelli castani portati lunghi fino alle spalle o la sua barba che cresceva a chiazze affascinante. Per lei ogni dettaglio del viso e del corpo di quell'uomo erano ributtanti. Così come le era successo con Girolamo Riario, non riusciva a vedere nulla di ciò che le altre vedevano nell'uomo che era stata costretta ad accettare più e più volte senza volerlo.

“Anche i francesi, sapendo quello che hai cercato di fare, saranno indignati...” mentre diceva così, i suoi occhi felini, più infidi ancor di quelli di Rodrigo, iniziarono a indagarla con una malizia che la raggelò: “Tuttavia, io non posso certo uccidere una donna così bella solo perché il suo tentativo di fuga potrebbe aver fatto adirare un paio di francesi...”

Prima che la Sforza potesse capire cosa stava accadendo, Cesare le si era avventato addosso. Non stava trovando gli ostacoli che avrebbe creduto. Da un lato questo gli rendeva più difficile quella caccia, perché il brivido, per lui, stava tutto nel vincere la ritrosia altrui. Malgrado ciò, dato che la Tigre era comunque una belva selvatica e pericolosa, non gli spiaceva vederla tanto arrendevole: se non altro, era meno pericolosa.

“Da quando sei a Roma e hai ricominciato a mangiare un po' – le sussurrò, fermandosi per un solo istante – sei più in carne, mi piaci di più...”

Caterina chiuse gli occhi, mentre Cesare le strappava la veste da camera e le allargava le cosce con la forza, graffiandole il collo con la barba ispida e mordendole l'orecchio senza lo slancio di un amante appassionato, ma con il solo desiderio di sopraffarla anche in quel modo.

“Sono felice che tu non sia il tipo di donna che si lascia morire solo perché ha perso tutto quanto, i soldi, lo Stato, i figli...” cominciò a dire lui, armeggiando con i lacci delle brache, e poi dopo aver aggiunto: “Almeno così potrò averti ancora tutte le volte che vorrò...” tacque, troppo preso da quello che stava facendo.

La Tigre ricominciò a piangere, silenziosa, sfinita, lasciandogli fare quello che voleva, chiedendosi se non avesse ragione lui, se non fosse vero che, a quel punto, darsi la morte fosse l'unica scelta sensata che le restasse.

 

Alessandro Braccio era stato in pena tutto il giorno. Prima il Segretario del papa non l'aveva voluto ricevere, poi Baccino gli aveva riferito tutta la questione di Corvarano, Giovan Battista da Imola e frate Lauro...

Il fiorentino aveva cenato da poco, e sentiva ancora l'arrosto salire e scendere in gola, quando si risolse a fare qualcosa di concreto. Chiamò a sé il cremonese e gli chiese se fosse disposto a tornare al Belvedere.

“Io andrò dai famigli di Corvarano, chiedendo se hanno maggiori dettagli sul perché il loro padrone sia stato preso.” spiegò Braccio, posando una mano sulla spalla di Baccino: “E tu, invece, tornerai alla torre e resterai là finché qualcuno non ti dirà almeno se Madonna Sforza è ancora viva o meno, intesi?”

Il giovane annuì. Fuori c'era già buio, ma a lui non interessava. Non aveva potuto fare troppo di testa sua, essendo sotto la protezione, ma anche sotto la potestà, di Braccio, ma adesso che aveva ricevuto un ordine ufficiale, si sentiva pienamente in diritto di alzare la voce e puntare i piedi, se qualcuno gli avesse di nuovo impedito di scoprire in che stato di salute si trovasse la sua Caterina.

Così, mentre il fiorentino andava verso il palazzo di Corvarano, Baccino si incamminò verso il Belvedere, più determinato che mai a scoprire qualcosa.

Con sua grande sorpresa, quando giunse alla torre, trovò il portone spalancato. Entrò, guardingo, e subito venne visto da Aloisio.

Questi, un po' abbacchiato, come se qualcosa l'avesse turbato molto più di quello che lui stesso avrebbe creduto possibile, gli disse: “Ser Baccino... Venite un momento con me nel mio stanzino?”

Il cremonese, che pur avrebbe voluto correre subito in cima alla torre dalla Tigre, pensò che quella fosse la sua migliore occasione per capire qualcosa di tutta quella faccenda e così accettò.

Una volta chiusosi la porta alle spalle, Aloisio, si portò una mano alle labbra e poi, scuotendo appena il capo, come chi avesse visto l'inferno, sussurrò: “Madonna Sforza è viva. Questo ve lo posso assicurare.”

Baccino non poteva immaginare quello che stava passando nella mente del carceriere. Mosso dalla sua consueta curiosità, quando aveva scortato il Borja alla cella, Aloisio si era poi messo a spiare.

Benché fosse un uomo che aveva visto di tutto, nella sua vita, specie per colpa del suo lavoro, si pentì subito di aver voluto vedere anche quello.

“Vi dico che è successo un disastro...” riprese Aloisio, cauto: “Madonna ha tentato la fuga, almeno così pare. Dicono che Corvarano abbia per errore fatto cadere una lettera in cui si evinceva tutto proprio mentre passava davanti al Duca... Sia come sia, quando ha saputo che i suoi complici sono stati presi, Madonna ha cominciato a piangere e ha pianto tutto il giorno. Non ha mangiato mai, e non so se sia riuscita a bere anche solo un po' d'acqua...”

“Ma è ancora viva? Che le faranno adesso?” chiese Baccino.

Il carceriere sollevò un sopracciglio. Aveva lo sguardo assente, perso nel ricordo di quello che aveva visto in cima alla torre. La bestia che si era sprigionata dal figlio del papa non aveva nulla a che fare con quello che lui, come carceriere di una donna di rango, aveva accettato di fare.

“Non lo so.” ammise: “Spero che...” ma non concluse la frase, indicando la porta a Baccino e dicendo: “Perdonatemi. È meglio per tutti che ora va ne andiate, credetemi.”

Il cremonese, intuendo come Aloisio stesse parlando, una volta tanto, in modo sincero, fece un cenno con il capo e ubbidì.

Uscito dalla torre, guardò in alto per un po', pensoso. Colto da una strana curiosità, volle provare ad aggirare la costruzione, quasi sperando che, da altre angolazioni, si potesse scorgere qualcosa, anche se non aveva idea di cosa.

Trovandosi sul versante opposto della torre, dal lato che dava sulle vigne, si accorse, tra i filari nascosti dal buio, di una figura. Spaventato, si ritrasse, ma fu proprio l'uomo celato nell'oscurità a palesarsi.

Muovendo un paio di passi in avanti, abbastanza da far sì che le torce a muro appese alla parete della torre gli illuminassero un po' il viso, Cesare Borja fece una smorfia indecifrabile e disse: “Tu sei il coppiere di quella dannata sgualdrina.”

Baccino non rispose, chiedendosi che ci facesse il Valentino lì e perché gli stesse parlando.

“Sono stato tutti il pomeriggio a...” Cesare sospese volontariamente la voce per qualche istante e poi, con un tono difficile da fraintendere, proseguì: “A parlare con la tua vecchia padrona...”

Il sorriso storto che il Borja fece seguire alle parole, fece crescere nel petto del cremonese una voglia irrefrenabile di saltare al collo del Duca e ucciderlo. Avrebbe potuto farlo, lo sapeva. Però, sapeva anche che se l'avesse fatto, il papa avrebbe usato la morte del figlio come scusa per far uccidere una volta per tutte Caterina, e lui non poteva permetterlo.

“Coppiere...” soppesò il Borja: “Scommetto che anche tu hai passato qualche notte a parlare con la tua vecchia padrona...”

La risata rauca che uscì dalla gola del Valentino era troppo, per le orecchie di Baccino. Senza dire nulla, il giovane provò a voltare le spalle al figlio del papa, ma questi non volle lasciarlo andare subito, portato, come sempre, a esasperare chiunque si trovasse ad avere a che fare con lui.

“Scommetto che in fondo anche a lei piace.” disse, avanzando di un paio di passi, per colmare la distanza con il cremonese: “Dopo tutto, per una donna del genere, una chiacchierata in un più o una meno, che differenza vuoi che faccia, no?”

Questa volta, per imporsi di non reagire, Baccino si mise a correre, scappando dalla vigna e dal Valentino. Era già lontano, eppure poteva sentirne ancora la risata. Ormai aveva capito benissimo cosa quell'uomo avesse fatto a Caterina, e tanto gli bastava per odiarlo ancora di più. E anche per sentirsi l'essere più inutile della terra, incapace perfino di proteggere la donna che amava.

Roma, avvolta dalla notte, popolata da demoni antichi quanto il mondo, si apriva davanti a lui con i suoi lenoni e le sue meretrici, le sue taverne illuminate e i suoi odori acri e sfatti. Nulla lo toccava, però. Tutto era fumo e oscurità. L'unica cosa a cui riusciva a pensare, mentre tornava al palazzo di Braccio, era a come sarebbe stato bello poter tagliare la gola di Cesare Borja e vederlo morire a poco a poco, dissanguato come un animale da macello, preda del dolore e degli spasmi della vita che lo lasciava...

 

   
 
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