Storie originali > Storico
Segui la storia  |       
Autore: Adeia Di Elferas    08/09/2020    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

“E cosa speri di ottenere?” chiese Alessandro VI, guardando il figlio in tralice: “Queste lettere sono solo la prova che i Riario stanno cercando di trattare con me... Senza contare che ora anche quel dannato Giovanni Medici, solo perché è un Cardinale, e crede che questi Riario siano ormai suoi parenti, sta cercando di intercedere per loro... Tutti sanno che Ottaviano Riario cerca il mio favore, quindi non vedo come...”

“Vi posso assicurare che per la Sforza queste lettere sono peggio di una bottiglia di veleno.” disse il Valentino, che non riusciva a capire come mai suo padre, che pur sosteneva di conoscere molto bene la loro prigioniera, non si rendesse conto del potenziale distruttivo che le missive scritte da Cesare e Ottaviano avevano sulla Tigre.

Il papa sembrava ancor titubante. Ciò che aveva letto, in effetti, avrebbe potuto destabilizzare la Leonessa di Romagna, ma era difficile dire quanto. In fondo, era ovvio che lettere scritte ormai qualche giorno addietro non potessero tenere conto degli ultimi sviluppi. Quando i Riario avevano fatto partire le loro missive, la Tigre non aveva ancora tentato la fuga e non era ancora stata scoperta. Si trattava di un pessimo tempismo, il loro, ma secondo Rodrigo anche Caterina avrebbe capito che le loro parole erano dettate solo dal non sapere certe cose e non dall'ottusità o dalla stupidità.

“Va bene...” cedette Alessandro VI, quando intercettò lo sguardo del figlio e comprese che non avrebbe lasciato la presa finché lui non avesse dato il suo benestare: “Fagliele avere. Ma stai attento a quello che fai. I francesi ci tengono d'occhio, e...”

“A proposito...” intervenne il Duca, riprendendo le missive e assumendo un'espressione più formale, quasi degna di un uomo intento a discutere di affari con uno sconosciuto, che non di un figlio a colloquio con il padre: “Abbiamo preso frate Lauro, abbiamo messo in isolamento i complici di quel milanese... Abbiamo le prove che lei non solo era al corrente di tutto, ma era anche d'accordo... Perché non la possiamo mettere in cella a Castel Sant'Angelo? Anche i francesi dovrebbero ammettere che...”

“Stolto!” lo fermò il papa, non appena capì dove stesse andando a parare: “Vuoi fare il gran signore, ma poi non capisci delle cose tanto semplici!”

Mortificato dallo scatto del pontefice, ma non per questo pronto a sottostare in silenzio, Cesare domandò: “Cos'è che non capirei, di preciso?”

“Quella donna, purtroppo – Rodrigo sottolineò bene quella parola, come a ricordare al figlio che parte della colpa di quella situazione era sua, dato che non era stato in grado di trattare come avrebbe dovuto coi francesi nel momento della cattura della Tigre – non è nostra prigioniera, non ufficialmente, almeno. È una nostra protetta. E io non ho mai sentito dire che un ospite di riguardo si possa tenere nelle segrete di un castello.”

Il Duca di Valentinois avrebbe tanto voluto poterlo contraddire, ma sapeva che il pontefice era nel giusto. Non la potevano accusare di nulla, in realtà, o il Balì o chi per lui avrebbe subito ricordato loro che lo status della Sforza era ben diverso da quello di una semplice prigioniera di guerra.

“Sappiamo per certo – riprese il Santo Padre, sforzandosi di mantenere la calma – che l'Imperatore sta mandando degli ambasciatori a parlamentare con il re di Francia. Sai questo che significa?”

Cesare non disse nulla. Non si trattò di un silenzio consapevole: se tacque, lo fece solo per evitare di essere preso a male parole dal padre, ben sapendo di non sapere cosa significasse quella mossa diplomatica.

“Significa – si mise allora a spiegare Alessandro VI, con i fumi al naso – che l'Imperatore vuole portare i francesi a una pace, magari salvando addirittura Milano. E noi non siamo nemmeno stati interpellati! Guai a te se peggiorerai ulteriormente la nostra posizione con Luigi XII per colpa di quella dannata donna!”

“Come dite voi, padre.” bofonchiò il Valentino, poco disposto a sentirsi accusare di tutte le disgrazie del Vaticano.

In fondo, pensava, era suo padre quello che non era stato in grado di mediare come avrebbe dovuto al momento giusto. Lui aveva fatto la guerra con le armi, ma era a Rodrigo che sarebbe spettato farla con incartamenti e dibattiti.

Mentre i due si salutavano, il papa sentiva le tempie pulsare e aveva improvvisamente voglia di stare solo. Anche il cuore frullava in modo anomalo nel petto, e quella sensazione fastidiosa lo rendeva più ansioso di quanto non volesse mostrarsi davanti al figlio.

“Vattene ora.” concluse Rodrigo, indicando di malagrazia la porta a Cesare e poi mettendosi a sedere sullo scranno che aveva fatto sistemare vicino alla finestra.

Il Valentino guardò un momento il padre. Gli era parsa strana, l'espressione che aveva fatto pochi istanti prima. Non aveva capito se fosse legata a qualche disturbo del corpo o dell'anima. Tuttavia, dato che il Santo Padre non lo guardava più, mostrando palesemente il desiderio di essere lasciato solo, il Duca lo accontentò.

Mentre attraversava in fretta gli appartamenti papali, il giovane si rimise a rimuginare su Caterina Sforza e su come fare per ottenere per lei il carcere duro che, a suo modo di vedere, meritava. A quel modo, si diceva, chiusa davvero tra quattro mura al buio, che altro avrebbe potuto cercare, quella donna, se non la consolazione della morte?

Michelotto, che pur era sempre di poche e attente parole, gli aveva fatto intuire che, secondo lui, la sua acrimonia verso la Tigre era ormai quasi ridicola, o, quanto meno, abbastanza infantile. Il Borja non era d'accordo, ovviamente. Secondo lui era giusto rifarsi su di lei e sentiva di non averlo ancora fatto appieno.

Anche se l'aveva vinta, umiliata, anche se l'aveva costretta a digiunare e anche se l'aveva piegata più volte al suo volere, dimostrandole che era solo una donna e non una guerriera, come credeva di essere, Cesare sentiva di non aver ancora ottenuto la soddisfazione che meritava.

Quella maledetta donna si era presa gioco di lui davanti a tutti. Per colpa sua, lui era stato deriso dal suo esercito, era stato preso sottogamba da condottieri che avrebbero dovuto essere suoi sottoposti, ed era stato creduto da tutti più debole di lei. Anche adesso, che lei era reclusa e assomigliava ogni giorno di più allo spettro della Tigre che era stata, in tutta Italia si cantavano le sue lodi, si componevano poesie e ballate per esaltare il suo coraggio e il suo animo bellicoso.

“Di me, è di me, che devono cantare!” sbottò, da solo, Cesare, spaventando i due canonici che gli stavano passando accanto in quel momento.

 

Caterina aveva di nuovo perso il conto dei giorni. Da quando aveva visto imprigionare Giovan Battista da Imola e aveva saputo della cattura di frate Lauro e Corvarano, i giorni si erano susseguiti uno uguale all'altro. A scandire il suo tempo, c'erano solo i continui ricordi dell'ultima tremenda visita che il Borja le aveva fatto, e i rimpianti per tutto quello che aveva perso e che non era riuscita a salvare.

Ormai erano pochissime le persone che avevano accesso alla sua cella, e la maggior parte di loro, la Tigre non la conosceva neanche. Mangiava – sempre poco, per paura del veleno – e beveva quel tanto che bastava per non morire di sete, e per il resto del tempo cercava di dormire o si metteva a scrutare il cielo di Roma che si stagliava oltre la sua finestra.

A istinto, era abbastanza sicura che si fosse già in giugno, ma a parte la temperatura più calda, e le giornate troppo lunghe, non aveva altre certezze per affermarlo.

Quel pomeriggio, quando sentì la porta aprirsi, la Sforza fu certa di essere in uno stato tale di confusione da non essersi resa conto che fosse già calata la sera e che, quindi, le stessero portando la cena. Restò perciò abbastanza interdetta, quando si trovò dinnanzi Fortunati.

“Che ci fate qui?” gli chiese, guardandolo frastornata, come se, invece che pochi giorni, fossero passati anni dall'ultima volta in cui l'aveva visto varcare la soglia di quella stanza.

Francesco si morse il labbro e poi sussurrò: “Dato che frate Lauro, nominato da voi vostro confessore, al momento non può... Non può vedervi...” si schiarì la voce e proseguì: “Ho ottenuto io il permesso di portarvi il conforto della confessione.”

Caterina intuì subito che quello non fosse l'unico motivo che aveva portato il piovano a recarsi al Belvedere, tuttavia, a beneficio di Aloisio che, sicuramente, era in ascolto, gli rispose: “Ne sono lieta. Ho grande bisogno di confessarmi.”

Fortunati la guardò per un lungo istante, e la Leonessa ricambiò l'attenzione. Il volto dell'uomo, dai bei lineamenti, era segnato da rughe di preoccupazioni. Perfino le sue guance e il suo mento, coperti dalla barba incolta di qualche giorno, denunciavano lo stato d'ansia in cui, probabilmente, si era trovato nell'ultimo periodo. Anche i suoi occhi, di norma brillanti e vivi, in quel momento non dimostravano i suoi quarant'anni, ma almeno venti in più.

Mentre la donna si sistemava nel letto, troppo debole per mettersi in ginocchio, il piovano le si sedette accanto e, mentre trafficava con la stola confessionale, fece in modo di far uscire una lettera dalla tasca del suo abito nero. Bastò qualche sguardo tra i due, per capirsi e la Tigre la nascose rapidamente sotto al cuscino.

La confessione, se tale si poteva chiamare, durò pochissimo. Caterina non aveva nulla da dire a Fortunati, perché quello che avrebbe voluto raccontargli era ancora troppo pesante e umiliante per poterlo fare a quel modo, sussurrando e restando impassibili per non insospettire il carceriere. Dal canto suo, nemmeno Francesco disse quello che aveva in mente, perché aveva trovato la sua signora così abbattuta e fragile da non trovare opportuno peggiorare il tutto chiedendole perché mai avesse cercato a quel modo la fuga, senza nemmeno interpellarlo.

Alla fine, facendosi entrambi il segno della croce quasi fosse un modo formale per accomiatarsi, i due si scambiarono ancora una lunga occhiata, senza dire altro, e Fortunati se ne andò.

Rimasta sola, Caterina attese qualche ora, prima di aprire la lettera che il piovano le aveva consegnato. Aveva imparato a sue spese che con quel genere di cose era meglio essere più che cauti.

Aspettando che facesse buio, dopo aver cenato, avendo cura di non dar mostra di quello che stesse facendo, riuscì a togliere il sigillo alla missiva e la lesse tutta. Le bastò farlo una volta sola. La rabbia, la delusione e il risentimento le impedirono di indugiare oltre sulla grafia di suo figlio Ottaviano.

Era palese che quel messaggio fosse stato scritto dopo che il suo primogenito aveva saputo quello che era accaduto lì a Roma. La Leonessa aveva letto le sue frasi, ipocrite e piene di arroganza, immaginandosi la voce di suo figlio. L'aveva rivisto, un po' curvo, sfatto, già rovinato dai vizi, malgrado la giovane età, e con quella faccia, così uguale a quella di Girolamo...

Ripiegando con cura la lettera e rimettendola via, la donna si disse che l'avrebbe resa a Fortunati, in modo che la leggesse anche lui. Forse, facendolo, avrebbe anche capito perché lei aveva provato ad andarsene, pur sapendo cosa rischiava.

 

Alessandro VI si era svegliato con un mal di testa fortissimo. Faceva quasi fatica a tenere gli occhi aperti, ma l'idea di restare ancora a letto lo angosciava.

Aveva passato tutta la notte – o meglio, quel poco che ne era rimasto, dopo il banchetto della sera prima – a fare orribili incubi, pieni di minacce, sangue e veleni di ogni sorta e pensare che quel mondo ipnotico gli si sarebbe ripresentato se si fosse riassopito lo atterriva.

Un po' ciondolante, le ginocchia che protestavano sotto il suo peso non indifferente, l'uomo raggiunse la finestra e la spalancò. Cominciava appena a fare chiaro e l'aria di Roma era fresca e piacevole, per quanto, come sempre, viziata dal tanfo di una città molto popolosa.

Il papa schiuse le palpebre, cercando il sole nascente, ma più ci provava, più il dolore al capo aumentava. Amareggiato, si allontanò dalla finestra, rendendosi conto di essere malfermo. Si appoggiò alla parete più e più volte e infine, rendendosi conto di essere anche confuso e di non sapere nemmeno più in che momento della giornata si fosse, si mise a chiamare il nome di uno dei suoi cubicolari.

“Gaspare! Gaspare!” la voce del Santo Padre assomigliava più a un gracchio sgraziato che al suo solito tono imperioso, ma il servo lo sentì ugualmente.

“Vostra Santità!” esclamò, vedendo il volto del papa terreo e le sue mani, contratte ad artiglio, avvinghiate al muro: “Che succede? State male?”

Rodrigo lo guardò stranito, di colpo la paura aveva lasciato il posto allo stupore. Balbettò qualcosa che il servo non capì, e poi crollò in terra con un tonfo sordo.

 

“Tenetela.” disse piano Caterina, facendo scivolare lesta la lettera di Ottaviano nella tasca del piovano: “Leggetela e ragionate.”

L'uomo accettò senza fiatare, ma poi, accigliatosi, le disse: “Questa mattina è successo un fatto, qui a Roma.”

La Sforza, che non aveva fatto altro, per tutta la notte e tutta la mattina, se non pensare alle parole di suo figlio, si sistemò meglio nel letto e si mise a fissare interrogativa Fortunati. Ciò che l'aveva lasciata più perplessa, era stato il sentirlo parlare senza bisbigliare. Evidentemente, qualsiasi cosa fosse successa, non solo non era un mistero, ma era qualcosa che anche un carceriere come Aloisio si doveva aspettare di veder riferita alla prigioniera.

“Il papa – riprese Francesco – ha avuto una sincope, dicono.”

La Tigre stava già per esultare, già convinta di sentire il normale prosieguo di quel pensiero, ovvero che il papa fosse morto, ma capì da come il fiorentino scuoteva il capo che non era così.

“L'hanno soccorso e dicono che ora stia già bene.” spiegò il piovano: “Dicono che abbia esagerato con i festeggiamenti per il Giubileo. Non è più molto giovane, in fondo.”

Lo sguardo di Francesco continuava a cercare il suo, e da lì la Sforza capì che l'uomo avrebbe voluto dirle di più, se solo avesse potuto. Un malore del papa poteva, in effetti, significare tante cose, per lei.

Nell'immediato aveva dato per scontato che, se il papa fosse morto, lei ne avrebbe avuto un vantaggio e sarebbe magari anche stata liberata. Ora, però, si accorgeva che poteva anche accadere il contrario: morto il pontefice, chi avrebbe garantito la sua incolumità? Chi avrebbe fermato la mano di Cesare? Era certa che fosse Rodrigo, colui che aveva impedito fino a quel momento al Valentino di eliminarla. Il papa era un volpe, sapeva che la vita della sua prigioniera valeva quanto meno il quieto vivere con gli alleati francesi. Il Duca, invece, secondo Caterina, non era altrettanto pragmatico, nelle sue decisioni.

“Mi raccomando.” disse piano la Tigre, allungando una mano, sfiorando la tasca in cui aveva fatto sparire la lettera di Ottaviano, e poi soggiunse: “Portate i miei auguri di pronta guarigione al Santo Padre, se ne avrete l'occasione.”

Francesco annuì e poi, come sempre, chinò il capo e cominciò a fingere di confessare la sua signora, come se una donna costretta tra quattro mura potesse avere nuovi peccati da confessare dopo nemmeno un giorno dall'ultima assoluzione.

Alla fine, dopo averla salutata scoccandole un'altra occhiata che sottintendeva troppe cose affinché lei le capisse tutte, l'uomo lasciò la torre e tornò ai suoi alloggi. Una volta sicuro di essere solo, prese la missiva che la Sforza gli aveva reso, e cominciò a leggerla.

Gli scriventi erano Ottaviano e Cesare Riario, ma fin dalla prima riga Fortunati vi lesse più le parole del primo, che non del secondo. Anche se non aveva mai avuto modo di conoscere davvero a fondo i figli di Caterina, gli sembrava quasi di rivedere il Riario maggiore, mentre leggeva, e di sentire la sua voce declamare quelle frasi piene di arroganza e supponenza.

'Ser Alexandro referirà a V. Ex.tia la resolution che noi habiamo facto sopra le vostre et sue lectere et ad che per satisfatione d V.a Sig.ia siamo discesi: diciamo bene a V.a Ex.ia che se la Sanctita de N. Sig.e non si contenta che queste nostre petitione, non aspecti più da noi per questa via aiuto alcuno perché noi non siamo in veruno modo per volere tanto bene a V.a Signoria inpoveriamo afacto.'.

Il piovano dovette rileggere due volte quell'ultima parte, perché non gli pareva vero che un figlio potesse rivolgersi a quel modo a una madre che non solo aveva rischiato la vita per lui, ma che si trovava carcerata e continuamente a rischio. Non riusciva a capire fino a che punto Ottaviano non avesse capito la gravità della situazione e fino a che, invece, traesse soddisfazione dal trattare a quel modo la Tigre.

'Però quella si adiuti con la Santità de N. Signore in quello modo gli pare adcioché tale acordo segua, che per essere quella Clementissima e Iustissima, siamo certi, essendo tanto humiliati, ne la contenterà; et quando pure altrimenti seguisse, che nol crediamo, la Sig.ia V.a stia secura perché se non altri, Iddio ci aiuterà.'.

Francesco, pur essendo un religioso, trovava quell'ultima invocazione una vera beffa. Provò a pensare a come avesse potuto prenderla Caterina, che, per altro, era sempre molto insofferente a quel genere di ragionamenti. Sentì subito montare dentro di sé una rabbia che non ricordava di aver mai provato, ma che, lo sapeva, non doveva essere nemmeno la centesima parte di quella che aveva provato la Leonessa.

'Questa gli basti – concludeva Ottaviano – per ultima nostra conclusione, et suo conforto et ad Vostra Signoria ce raccomandiamo.'.

Il piovano lasciò la missiva sulla scrivania e si alzò dalla sedia. Teneva le mani stretta l'una nell'altra, con tanta forza da farsi quasi male. Avrebbe voluto avere la lucidità di ragionare con calma e pensare se vi fosse qualcosa di buono da salvare, in quella fila di frasi insensate. Non trovò nulla, assolutamente nulla.

Colto da un frenesia che non gli era familiare, si rimise alla scrivania e prese il necessario per vergare una risposta. Lui, per i figli di Caterina, non era nulla, ma in quel momento si sentiva investito del dovere di difendere la Tigre e, per farlo, innanzitutto doveva rimettere in riga Ottaviano e anche Cesare, dato che aveva avuto il coraggio di firmare assieme al fratello quella serie di sciocchezze.

Prima di tutto, indirizzò la lettera solo al Riario maggiore, affinché il secondogenito si sentisse sminuito e restasse mortificato, ma allo stesso tempo, essendo dichiaratamente quella una risposta all'ultima loro missiva, sentisse il messaggio diretto anche a lui.

E così, con la mano che tremava un po' per la rabbia e l'agitazione, il piovano cominciò: 'Signore, io credo veramente che el Diavolo ve habbia tolto el sentimento et la memoria: poi che voi siete stato di sì poco vedere che voi vi siete lasciato indurre ad far la pazzia che havete facto, non vi ricordando di quelle che le Ex. de Madonna vi dixe a tutti e due'.

Prese un attimo fiato, poi fece presente che Ottaviano era uno stolto a non capire che quella era la sua rovina ultima, e lo ammoniva per essersi di fatto messo contro la madre, non accorgendosi che così facendo si stava scavando la fosse una volta e per tutte.

'Poveri homini – scrisse poi, dimenticandosi di aver indirizzato la lettera solo a Ottaviano, e rivolgendosi a quel modo anche a Cesare – non vedete che el diavolo ci ruina, credete voi chio sia per perdere questa posta con tanta ragione et iustificatione: non vedete voi che io ho meglio in mano di voi et che iusto è che io vinca: ricognoscetevi nel nome di Dio, et ricordatevi che costei è vostra matre et vi ama tucti. Et in che modo Idio fa resistentia ad li superbi. Dicovi che voi possiate et che voi vi lasciate consigliare a chi vi ama.'.

Li esortò poi a sbrigarsi a cercare di riappacificarsi con Caterina, perché il tempo, ormai, poteva essere poco e quindi poteva essere l'ultima occasione.

'Et così dite da mia parte allo Arcivescovo – soggiunse, riferendosi a Cesare Riario nel modo più aulico che potesse, in modo da farlo vergognare ancora di più per la sua condotta infantile e insensata – che Dio perdoni a chi ne è causa et a tanta perfidia quanto io ho cognosciuta.'.

Francesco rilesse tutto un paio di volte e si rese conto di non essere stato chiaro quanto avrebbe voluto. Non aveva, però, intenzione di riscrivere tutto da capo, perché quelle erano state le parole che per prima erano scaturite dalla sua anima e dunque sperava avessero la forza necessaria per raggiungere quella dei due Riario.

A scanso di equivoci, concluse con un semplice: 'Serbate questa che ve la dichiarerò in miglior modo et exporrò in altra lingua.'.

Firmò e si mise ad attendere che l'inchiostro asciugasse bene. Avrebbe fatto partire quella missiva il prima possibile, in modo che arrivasse presto nelle mani dei Riario. Sarebbe poi stato alla loro intelligenza rispondere in un modo che andasse a lenire le ferite aperte della madre.

Con un forte sospiro, il piovano si lasciò ricadere contro lo schienale della sedia e sussurrò: “Se solo il papa fosse spirato stamattina, almeno la situazione si sarebbe sbloccata, in modo o nell'altro...”

Si sentì un vile ad aver augurato a un uomo la morte, anzi, al vicario di Cristo, ma non poteva farci nulla. La morte di Rodrigo Borja era un rischio, per Caterina, ma anche un'opportunità. Nella confusione, si sarebbe potuto provare a organizzare una fuga lampo...

“Che gli venisse un altro colpo, a quel maledetto, e ci restasse secco...” borbottò Francesco, mentre chiudeva la lettera: “In grazia di Dio, si intende.” aggiunse, segnandosi, convinto che, almeno quella volta, anche Dio avrebbe chiuso un occhio sulle sue imprecazioni.

   
 
Leggi le 1 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Storico / Vai alla pagina dell'autore: Adeia Di Elferas