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Autore: Adeia Di Elferas    13/09/2020    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Niccolò Machiavelli aveva ormai da tempo la sensazione che il suo interlocutore non lo stesse minimamente ascoltando. Gli era sembrata una grande fortuna trovare Lorenzo Medici all'osteria, dato che il Popolano, notoriamente, vi andava di rado e non per fare baldoria. Gli era parsa l'occasione giusta per parlargli in modo informale e cercare di capire meglio da lui cosa avesse in progetto per la Signoria e per Firenze, visti i gravissimi fatti di quel giorno.

E invece il Medici rifuggiva il suo sguardo, puntando gli occhi tondi a tratti sul calice – di cui non aveva ancora sorbito nemmeno un sorso – che teneva in mano e a tratti sugli avventori che entravano di quando in quando nella locanda.

Machiavelli aveva pensato, in primo luogo, che Lorenzo fosse distratto perché poco interessato a parlare con lui, ma poi, più l'attenzione del Medici si era fatta labile, più si era convinto che ci fossero altri pensieri a occupare la sua mente e che il motivo di tanta noncuranza fosse quello.

Niccolò si chiese se, per caso, la mente del Popolano non fosse rivolta ai figli della Sforza. Non sapeva dire con certezza se il Medici avesse o meno scoperto del loro nascondersi a Firenze, ma ormai, almeno a livello di chiacchiera, era cosa risaputa.

“E quindi come vi porrete nei confronti della questione pisana?” chiese di nuovo Niccolò, sperando di cavare anche solo una mezza ammissione da parte di Lorenzo.

Questi, con un sospiro infastidito, finalmente posò gli occhi tondi e annoiati sull'altro e, accigliandosi, gli chiese: “Come dovrei pormi, secondo voi?”

“Non saprei.” prese tempo Niccolò, trovandosi subito in difficoltà e rimpiangendo quasi l'apatia dimostrata fino a pochi istanti prima dal Medici: “I pisani si sono consegnati ai francesi, hanno issato le bandiere di re Luigi, e quando i francesi hanno chiesto loro a che patti si stavano consegnando, quelli hanno risposto che l'unica clausola era non finire sotto il dominio di Firenze...”

“Voi come reputate questa cosa? Come un affronto? Come un atto di paura?” domandò Lorenzo, che era facilmente passato dall'essere l'interrogato a essere l'interrogante.

Le dita tozze del Popolano stringevano il calice di legno con forza, e Machiavelli intuiva la sua impazienza. Era lì per un motivo, anche se, quando lui l'aveva incontrato, pareva solo intento a perdere tempo, come se volesse tirare tardi e basta.

Passandosi una mano sui capelli tanto corti da non aggrovigliarsi più in ricci indomabili, Niccolò fece un mezzo sorriso e rispose: “Direi che dai pisani ce lo si poteva ben immaginare. È la risposta dei francesi che mi avrebbe fatto adirare, se fossi al vostro posto.”

“Adirare me?” chiese Lorenzo, sbattendo lentamente le palpebre: “E perché mai?”

“Perché i francesi hanno risposto che non hanno mai avuto la commissione di ridurre Pisa al potere fiorentino... E che quindi i pisani potevano dichiararsi liberi...” fece Niccolò, sporgendosi appena in avanti sul tavolo.

“E allora?” lo incalzò il Popolano: “Firenze, in effetti, non ha il potere di dare ordini al re.”

“Anche se tutti avrebbero apprezzato un suo interessamento, in questa questione... Re Luigi avrebbe potuto benissimo...” ma Macchia non poté terminare la sua frase, perché Lorenzo si era alzato in fretta e furia, borbottando una scusa ed era sparito di colpo, probabilmente dopo aver visto entrare nell'osteria colui che stava aspettando.

Rimasto solo come un allocco, Niccolò si guardò un attimo attorno. L'odore opprimenti di quella locanda cominciava a dargli sui nervi, anche se era un tanfo così familiare da essergli quasi caro.

In realtà preferiva quei posti in pieno inverno, quando il sentore del camino e del vino caldo scaldava l'anima degli avventori. In giugno, invece, si poteva sentire solo puzza di sudore e di aliti pesanti, e dopo un po' il calore diventava insopportabile.

Prendendo il calice lasciato intonso dal Medici, Machiavelli mise nello stomaco un po' di vino e poi, occhieggiando verso il bancone, cercò di capire se la moglie dell'oste fosse libera. Non trovandola, se la immaginò già appartata con qualche cliente nel retrobottega e così, non avendo voglia di aspettare, lasciò il tavolo e si immerse nella notte fiorentina.

Aveva visto del movimento, nella casa affianco alla sua. Forse il marito della sua vicina era partito di nuovo. Avrebbe fatto un tentativo, come sempre. Lei sapeva come fargli capire se era libera o meno.

Mentre attraversava veloce la città, le mani allacciate dietro la schiena e il capo chino, a guardare dove metteva i piedi per evitare di storcersi una caviglia, Niccolò sentì distintamente la voce del Medici. Rallentò, fino ad avvicinarsi abbastanza alla traversa in cui Lorenzo doveva essersi messo a discutere con quello che aveva aspettato per tutta sera.

“No, non è più libera, vi dico.” stava dicendo l'altro, farfugliando un po': “Non è ancora ai ceppi, ma ormai la si può dire prigioniera di guerra.”

“Maxima capitis diminutio.” disse piano il Popolano, usando la formula latina che sottintendeva la perdita totale dei diritti della Tigre.

Anche Niccolò – ormai fermo, vicino al muro, in ascolto – capiva cosa significasse tutto ciò: Caterina Sforza stava perdendo ogni diritto, ma non solo come madre e tutrice dei figli, in particolare dell'ultimo, che era l'oggetto d'interesse del Medici, ma stava perdendo tutti i suoi diritti come cittadina di Firenze.

“A buon rendere.” concluse Lorenzo, dopo aver borbottato ancora qualcosa.

Machiavelli non fece in tempo ad andarsene come avrebbe voluto, che il Medici stava già tornando sulla via principale. Tuttavia, né lui, né l'uomo con cui si era incontrato, parvero accorgersi di Niccolò, che, così, nascosto dal buio della notte, attese ancora qualche istante e poi, vedendo gli altri due ormai lontani, si rimise in marcia, così immerso nei suoi pensieri da dimenticarsi perfino di provare a chiedere alla sua vicina se volesse trascorrere con lui il resto della notte.

 

La frutta macerata nel miele era sempre piaciuta poco, a Bartolomeo, ma in quel momento gli andava bene pure quella, per placare i brontolii del suo stomaco.

L'Alviano era al castello di Polcenigo da poco, ma aveva già avuto modo di passare qualche notte in bianco e di saltare più di un pasto. Era arrivato lì da Gradisca d'Isonzo per combattere contro i turchi, e i turchi gli avevano dato subito del filo da torcere.

Un po' si sentiva sminuito, nel vedersi mettere sul quel fronte e non su quello più vasto e interessante che si stava ricreando tra i francesi e i filonapoletani. Tuttavia, quello era l'ingaggio che il Doge gli aveva proposto, e a Bartolomeo, da quando non c'era più la sua Bartolomea, importava poco di tutto. Gli bastava avere qualche soldo e qualcosa con cui tenersi impegnato e avere una scusa per non dover tornare troppo spesso dalla sua nuova moglie, Pantasilea, donna sicuramente giovane e bella, ma che lui non riusciva ancora a vedere come una consorte.

L'uomo mandò giù un altro pezzetto di frutta, tenendo lo sguardo fisso sul suo secondo, che stava entrando in quel momento nella stanza. L'Alviano tenne gli occhi puntati su di lui finché non lo vide sedersi e prendere un calice per bere un po' di acqua.

“Va tutto bene, fuori?” chiese Bartolomeo, parlando lentamente, per far sì che la sua lingua ferita, e mai più tornata normale, non lo facesse incespicare troppo nelle parole.

“Comincia a piovere.” rispose l'altro, indicandosi i capelli umidi e scuotendo il capo, dopo aver bevuto ancora qualche sorso: “Fanno azione di disturbo, ma secondo me non hanno intenzione di dare un affondo, oggi.”

L'Alviano fece un cenno, per non dover aprire di nuovo la bocca. Avrebbe voluto far presente che lui aveva proposto da giorni di non concentrare troppe energie lì a Polcenigo, perché secondo lui i turchi non aveva alcuna intenzione di sprecare uomini e armi per quel castello. Aveva anche proposto di costruire due bastie, una a Fatta d'Isonzo e una a Lucinico, ma per ora i veneziani, che avrebbero dovuto metterci i soldi, tergiversavano.

Mentre Bartolomeo e il suo secondo restavano in silenzio, l'uno mangiando e l'altro bevendo, arrivò l'attendente dell'Alviano, portando con sé un dispaccio.

“Ci mandano notizie fresche.” disse, porgendo il messaggio al suo signore.

Le novità che la Serenissima aveva voluto condividere riguardavano per lo più le mosse del Sultano. Bartolomeo lesse quella parte molto distrattamente, ritenendo la politica poco importante, per chi, come lui, era dedito alle armi e non alla penna.

Quello che gli risultò più interessante, erano le parti riguardanti innanzitutto Ranuccio da Marciano, che era stato finalmente licenziato dai fiorentini. Di per sé poteva essere una notizia poco interessante, ma per un uomo come l'Alviano, un licenziamento del genere, stava a indicare che Firenze, comunque andassero le cose, dimostrava di avere poco interesse a prendere parte in armi agli affari di re Luigi XII. E nel frattempo pareva che Giannotto, il mercenario francese, fosse pronto a imbracciare una lancia per affiancare i fiorentini nella presa armata di Pisa. Era evidente, quindi, che per la Repubblica c'erano problemi più pressanti della campagna francese...

In secondo luogo, si accennava a uno spostamento di Vitellozzo Vitelli verso Rimini e di un contestuale ritorno – abbastanza repentino – di Pandolfo Malatesta in Romagna. Qualcosa, quindi, si stava muovendo anche su quel fronte.

Bartolomeo ripiegò il messaggio e fece un profondo sospiro. Ancora una volta, pur essendo un uomo di poche parole, avrebbe voluto esprimere i suoi pensieri riguardo a tutte quelle vicende, ma per non impappinarsi e non risultare ridicolo per colpa della sua lingua menomata, si limitò a sollevare un sopracciglio e lasciare la tavola.

Recuperò l'elmo che aveva posato sulla panca e poi la spada, che aveva invece appeso assieme al cinturone a uno dei ganci del muro. Anche se riteneva la sua presenza superflua, aveva deciso di tornare sui camminamenti e provare a infilzare qualche turco.

“Vado sulle mura.” disse, a voce bassa, lentamente, tanto per far sì che sia il suo secondo, sia l'attendente sapessero eventualmente dove cercarlo.

Aveva sulla lingua il sapore troppo dolce della frutta conservata con il miele, e la testa che rimbombava di domande. Non c'era nulla di meglio che menare un po' le mani, per schiarirsi le idee.

Quando uscì, il cielo era molto più grigio di quanto si sarebbe aspettato e la pioggia si era fatta già intensa e fredda. Non gli importava. Non gli importava più niente di nulla.

Con un grido disarticolato, che da tempo, ormai, era andato a sostituire il suo consueto urlo di battaglia, l'uomo andò laddove la battaglia sembrava più accesa – benché ci fosse poco movimento in generale – e guardò giù dalle merlature. Intravedendo un turco che stava cercando di scalare la parete con una corda, il cui arpione aveva fortunosamente trovato un appiglio, Bartolomeo decise di prendersi una piccola soddisfazione.

Invece di provare a buttar giù il nemico scalzando il gancio da cui partiva la fune, si fece prestare un arco da un uno dei soldati che gli stava accanto. Prese la mira per un solo istante e poi scoccò, in parte accecato dalla pioggia.

Era già pronto a incoccare una seconda freccia, quando sentì l'urlo strozzato del turco che, centrato in pieno volto, stava ricadendo verso terra, già morto.

All'Alviano scappò un sorriso un po' sbilenco. Stava pensando a cosa gli avrebbe detto Bartolomea, se solo fosse stata ancora viva. L'aveva sempre preso in giro, dicendogli che con le armi da tiro valeva meno di uno scudiero... Se le avesse potuto raccontare di quel colpo...

Improvvisamente di pessimo umore e con la gola che pungeva, come se volesse farlo piangere da un momento all'altro, Bartolomeo ridiede l'arco al legittimo proprietario e, con poche e secche parole, ordinò che si lanciassero massi e dardi contro quelli che cercavano di scalare la parete.

Non era il momento di perdere fatica e tempo con quegli infedeli: erano come mosche fastidiose e prima li avessero schiacciati tutti, meglio sarebbe stato.

 

“Ma sono notizie affidabili?” chiese Caterina, guardando appena Fortunati, che era arrivato a darle quelle notizie dopo averci pensato tutta la notte e aver deliberato solo a mattina fatta che fosse necessario riferire tutto alla Tigre, per quanto sapesse che per lei non sarebbe stato facile ricevere certe novità.

Il piovano annuì appena e poi, guardando il profilo stanco della sua signora, ci tenne a precisare, come se bastasse a farla restare più tranquilla: “Tramite una via sicura, so che il piccolo è ancora dove sappiamo. Lorenzo non ci ha messo sopra le mani.”

“Io è di Ottaviano, che non mi fido.” la voce della Sforza era sottile, come se stesse per spegnersi, e i suoi occhi verdi erano viziati da una luce strana, acquosa: “Sarebbe capace di andare direttamente a casa di mio cognato per dirgli dove teniamo nascosto Giovannino.”

Francesco si morse il labbro e sollevò le sopracciglia: “Ottaviano forse non sa che siete stata dichiarata priva di ogni diritto, anche come cittadina fiorentina. Questo gioca a nostro favore.”

“Tornate a Firenze.” lo implorò la Leonessa: “A me, qui, non servite a nulla.”

Fortunati ebbe un solo momento di interdizione. Poi, ragionando, si rese conto che il modo brusco in cui la sua signora gli aveva appena parlato non era affatto strano, per lei, né, tanto meno, data la situazione che stavano vivendo.

“Io...” cominciò a dire il piovano, senonché dalla porta, scortati da Aloisio, entrarono due soldati ben armati e si piantarono davanti alla Tigre.

“Sua Santità dice che è stato scoperto un nuovo tentativo di fuga, da parte vostra.” disse uno dei due, quello con l'armatura più elegante, mentre l'altro tratteneva Francesco per una manica, benché il piovano non stesse facendo nulla per ribellarsi o fuggire: “Tuttavia, il Santo Padre, nella sua magnanimità, è convinto che non siate voi a volere la fuga, ma che sia qualcuno che voglia usarvi contro Santa Madre Chiesa. Dunque, questo per informarvi che d'oggi in avanti non riceverete più visite. Il Santo Padre, nella sua lungimiranza, per mettervi al sicuro, sta pensando a un modo per proteggervi meglio.”

Caterina non sapeva cosa dire. Era del tutto estranea a quella notizia. Non aveva incaricato nessuno, a differenza della prima volta...

“Pensate a quello che vi ho detto! Specie ora!” ebbe il tempo di gridare, mentre Fortunati veniva trascinato fuori dalla stanza, con una mano sulle labbra, per impedirgli di rispondere.

Rimasta sola con Aloisio e con il soldato che poco prima le aveva riferito delle decisioni del papa, la donna si finse tranquilla. Teneva le mani in grembo e lo sguardo che passava dall'uno all'altro dei due uomini, come se la loro presenza la toccasse appena.

“Posso avere il necessario per scrivere?” domandò, dopo qualche minuto.

Aveva capito che, in un modo o nell'altro, i Borja dovevano aver trovato il modo per annientarla una volta e per tutte. Sentiva di non avere armi, ormai, per combatterli. C'era solo una cosa che voleva fare, a quel punto: voleva provare a scrivere una lettera a Ottaviano, cercando di fargli capire qualcosa, almeno una volta nella vita.

Se davvero quella era la sua ultima possibilità di comunicare con il mondo, doveva cercare di arginare il disastro che il suo primogenito stava per combinare a Firenze.

“Per scrivere a chi?” chiese Aloisio, stringendo un po' gli occhi: “Non al servo del Duca che doveva farvi scappare... L'hanno ripescato nel Tevere stamattina.”

Trasecolando, Caterina scosse il capo e ribatté subito: “Voglio scrivere a mio figlio.” siccome sia il soldato sia il carceriere si atteggiarono a stupiti, la donna sollevò le sopracciglia e sussurrò: “Tanto ormai so benissimo che avete intercettato tutte le loro lettere... Perché dovrei nascondervelo? Si tratta solo di una madre che vuole dire addio al suo figlio prediletto.” mentì.

Aloisio cercò tacitamente il permesso del soldato che, un po' indeciso, alla fine fece un cenno del capo, permettendo ciò che la prigioniera chiedeva.

La Tigre attese paziente, finché non le portarono un foglio pulito, una penna e un boccettino minuscolo di inchiostro.

Anche se fino a qualche giorno prima avrebbe voluto con tutta se stessa mettersi a gridare contro Ottaviano, mentre scriveva l'intestazione di quella missiva, si rese conto che davvero quelle potevano essere le ultime parole che lasciava al suo primogenito.

L'aveva detestato fin da prima che nascesse, e anche se aveva provato a combattere contro l'astio che aveva sempre provato verso la sua mera esistenza, non era mai riuscita a vincersi. Crescendo, poi, lui l'aveva distrutta, poco le importavano i motivi. Aveva ucciso l'uomo che amava e non aveva fatto nulla, proprio nulla, per discostarsi dall'esempio paterno.

Eppure, mentre lasciava scorrere la punta della penna, le parole che vergava si facevano via via più lisce, come se, finalmente, qualcosa nella sua anima si fosse sciolta e le permettesse di rivolgersi al suo primo figlio senza essere mossa solo dal risentimento.

'Non sacrificate tucto el vostro – scrisse a un certo punto – badate di non diventar poveri per liberar me da questo carcere: piutosto che vedervi rovinati per cagion mia, io son pronta e pazientissima a sopportare ogni disagio et dolore'.

Terminando in poche altre righe la sua missiva, Caterina non volle nemmeno rileggersi. Non si riconosceva in certi termini dolci e morbidi che aveva usato, ma non intendeva tornare sui suoi passi.

Chiuse la lettera e la consegnò ad Aloisio: “Confido nel vostro buon senso, affinché arrivi davvero a destinazione – gli disse, guardandolo appena – perché questa è la lettera di una madre e non di una Contessa.”

L'uomo chinò appena il capo, in segno di assenso e poi, borbottando una scusa per quello che doveva fare, tornò fuori dalla stanza e chiuse a più mandate la porta, gridando ai suoi uomini che da quel momento nessuno, nemmeno una serva per i pasti, avrebbe potuto varcare quella soglia.

Il tramonto di quel 13 giugno, per Caterina, fu particolarmente penoso. Le passarono la cena dal pertugio che stava in mezzo alla porta, e ritirano la scodella vuota dopo nemmeno dieci minuti.

Finita quel frugale pasto, con lo stomaco tanto serrato da non sentire nemmeno la fame, la donna si mise a guardare il cielo di Roma oltre la finestra. Provò una grande rabbia anche nei suoi confronti: non sapeva quante altre notti avrebbe avuto, per osservare la luna, e non trovarla, coperta com'era da spesse nubi nere, le sembrava uno scherzo molto cattivo, da parte del destino.

Malgrado ciò, quando l'alba cominciò a posare le sue dita chiare sulla vigna dei Borja, la Leonessa era ancora sveglia e in piedi a fissare l'orizzonte, fingendosi, almeno con il pensiero, libera.

 

Il signore di Rimini si stava mangiando l'unghia del pollice, mentre fissava con gli occhi sgranati il suo luogotenente, che non faceva altro, da che aveva aperto bocca, se non elencare una disgrazia dopo l'altra.

Prima di tutto gli aveva parlato del Trivulzio, partito per Grenoble, per un Consiglio Generale, indice che i francesi avevano tutt'altro che archiviato la guerra in Italia. Poi gli aveva fatto presente che Vitellozzo Vitelli si stava spostando a grande velocità e che ormai era vicino a Rimini. E infine, sembrava proprio che i castellani delle fortezze malatestiane che avrebbero dovuto difendere i confini fino alla morte, fossero pronti a vendersi ai francesi, o anche ad altri, se l'offerta fatta fosse stata buona.

Pandolfo, che si era ripreso dalle febbri malariche solo quella mattina, aveva la testa che scoppiava.

Si sentiva impazzire e mancare la terra sotto i piedi. Che cosa poteva fare, lui? Era a Coriano, non aveva avuto il coraggio di tornare a Rimini. Aveva provato già a chiedere soccorso ai veneziani, ma il Doge non solo non gli voleva rispondere, ma gli aveva anche fatto intendere che, con ogni probabilità, non gli avrebbe nemmeno rinnovato la condotta.

“E poi c'è la questione della scomunica...” disse il luogotenente, cauto: “Il papa, ormai, si è ripreso molto bene dal malore avuto a inizio mese, e...”

“Al diavolo il papa!” sbottò il Malatesta, tentato di alzarsi dal letto, ma trattenuto dalla moglie, che non aveva alcuna voglia di doverlo recuperare da terra, se fosse svenuto.

Il Pandolfaccio la fulminò, ma non si oppose al suo tocco saldo. Da che erano tornati in Romagna, siccome lui si era ammalato di terzana quasi subito, Violante aveva fatto le sue veci in ogni cosa e lui, non essendo cosciente, non aveva potuto opporsi. Ripresosi, comunque, si era reso conto che la donna aveva fatto molto meglio di come avrebbe fatto lui e così aveva evitato di farle una sfuriata, limitandosi a ingiungerle di non prendersi mai più una simile libertà.

“Una scomunica, adesso, indica una sola cosa.” disse piano la Bentivoglio, cercando di far ragionare il marito: “Il papa è stato male, magari ha anche avuto paura di morire. Suo figlio langue a Roma, ma qualcosa si sta muovendo. Presto tornerà a imbracciare le armi. Dopo Imola e Forlì, Rimini è la preda più sensata. Scomunicandoti, legittima già la sua prossima conquista.”

“Taci!” la rimbrottò il Malatesta, che pure era rimasto per qualche secondo a bocca aperta ad ascoltarla: “Adesso non è la scomunica il mio problema!”

“Ah, no? E quale sarebbe?” il tono di Violante si era fatto più freddo, e anche il luogotenente, sempre ritto in piedi davanti a loro, era curioso di conoscere la risposta del Malatesta.

Questi, sentendosi sotto il fuoco incrociato dei due, borbottò: “I miei castellani... Se cedono le mie rocchette, non c'è nemmeno bisogno di parlarne, della scomunica!”

“Cambiali tutti.” lo consigliò la Bentivoglio: “Dal primo all'ultimo. Se hai paura che si siano messi d'accordo con il papa o con re Luigi, cambiali tutti e basta.”

Il Pandolfaccio avrebbe voluto mettersi a piangere. Non sapeva cosa fare, e ciò che la moglie gli aveva detto gli pareva giusto, ma troppo difficile da mettere in atto...

“Ma io...” balbettò: “Io...”

La donna, toccandogli la fronte, decretò: “Mio marito è ancora febbricitante e straparla. Mi farò dire da lui i nominativi dei nuovi castellani e più tardi ve li riferirò, in modo che possiate nominarli e farli insediare.” dichiarò, rivolgendosi al luogotenente.

Capendo l'antifona, l'uomo ringraziò e lasciò la stanza. Appena furono soli, Pandolfo cominciò a dire che lui non aveva più la febbre e che non aveva la più pallida idea di chi nominare al posto dei traditori.

“Infatti non mi aspetto che tu lo faccia.” disse la Bentivoglio, alzandosi dalla sua sedia accanto al letto e avvicinandosi alla culla in cui dormiva il loro ultimo figlio, Roberto: “Ormai ho troppo da perdere anche io. Malgrado tutto, amo i nostri figli. Se vai a picco tu, ci vado anche io, e non posso permettere che un uomo come te finisca a rovinare non solo la mia vita, ma anche quella dei miei figli. Sigismondo e Roberto non dovranno mai essere costretti a vergognarsi perché il loro padre non ha saputo prendere una decisione quando ce n'era bisogno.”

Detto ciò, preso il piccolo in braccio, risvegliandolo abbastanza bruscamente da indurlo a piangere per qualche secondo, la donna lanciò un'occhiataccia al Malatesta e andò alla porta.

“Tu non hai la più vaga idea di chi nominare, come castellani!” la rimbrottò l'uomo, mentre lei già stava uscendo.

Senza rispondergli, senza perdere tempo a spiegargli che, in quegli anni, lei aveva sempre cercato di restare informata tramite i loro uomini di fiducia, Violante lo lasciò solo, confidando che passare qualche ora in compagnia di se stesso gli facesse capire una volta di più che uomo impossibile fosse.

 

   
 
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