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Autore: Adeia Di Elferas    19/09/2020    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Francesco Gonzaga guardava di sottecchi i suoi ospiti, senza osare mettere becco nei loro discorsi, ma sperando con tutto se stesso che, alla fine, almeno Gaspare Sanseverino decidesse davvero di andarsene.

Lui, il fratello Galeazzo e Marco da Martinengo avevano riparato a Mantova da pochi giorni, ma il Marchese già avrebbe voluto vederli andare via. I francesi nutrivano non pochi dubbi, verso di lui, quindi ospitare tre uomini che fino al giorno prima avevano combattuto contro gli uomini di re Luigi di certo non avrebbe giovato alla sua posizione.

Anche Isabella gli aveva detto, senza troppi giri di parole, di sbrigarsi a liberarsi di tutti loro, in special modo di Fracassa, che, tra tutti e tre, era quello più imprevedibile. In quel momento, per loro così delicato, tendere una mano a un uomo del genere poteva tramutarsi in un errore irreparabile.

Galeazzo Sanseverino, quando il fratello Gaspare tacque un momento, disse, rivolgendo lo sguardo anche al Marchese di Mantova: “Io ritengo che la situazione sia ancora così incerta, che da parte nostra sarebbe auspicabile la maggior prudenza possibile.”

“Ma se lui ci dà un contatto per scappare a Ferrara..!” disse il Fracassa, indicando con la mano aperta proprio Francesco, che rimase sorpreso nel vedersi additare in quel modo militaresco e per nulla adatto né al suo titolo, né alla sua condizione di padrone di casa.

Siccome tutti e tre i suoi ospiti si erano messi a fissarlo, il Gonzaga si sentì in dovere di dire qualcosa: “In realtà io non ho molti contatti, a Ferrara...”

“Che diamine!” sbottò allora Gaspare, allargando le braccia e fissandolo: “Ercole è vostro suocero!”

Francesco fece allora un sorriso molto strano, al quale nemmeno lui seppe dare un significato preciso: “Appunto.” sussurrò.

“Gli avete appena dato un nipote – si intromise Galeazzo che, suo malgrado, concordava con il fratello del trovarsi incredulo dinnanzi all'affermazione del Marchese – un figlio maschio che un giorno erediterà il vostro titolo e le vostre sostanze. Ercole dovrebbe esservi riconoscente...”

“Mio suocero è... Lui è un uomo particolare.” provò a spiegare il Gonzaga, chiedendosi solo in quel momento se la virata caratteriale di sua moglie negli ultimi anni fosse in qualche modo imputabile proprio al sangue di Ercole Este che scorreva nelle sue vene.

Il Duca di Ferrara veniva soprannominato Tramontana a ragione, e non solo per chiacchierare...

Marco da Martinengo ascoltava con un certo distacco i due fratelli Sanseverino, e nutriva anche poco interesse negli evidenti problemi che il Gonzaga aveva nel gestire la sua parentela con gli Este.

Per lui l'arrivo a Mantova era stato quanto di più fortunoso possibile, e gli sembrava già un miracolo trovarsi lì. Nelle mani dei veneziani, dopo la cattura e le trattative per la sua custodia, Marco aveva tentato il tutto e per tutto, chiedendo un salvacondotto al Doge, per riferire notizie di vitale importanza alla Repubblica. Quando gli era stato negato, era riuscito fortunosamente a ricongiungersi con il Fracassa e, grazie a lui, era stato ospitato dal Marchese.

Dunque, non aveva alcuna intenzione di inimicarsi Francesco Gonzaga. Perché alla fine, ne era sicuro, i due Sanseverino con le loro lingue lunghe avrebbero finito per farlo arrabbiare e quindi farsi cacciare.

“Se volete la protezione di Ferrara – disse quindi Marco da Martinengo, mentre la discussione cominciava a farsi accesa – chiedetela direttamente voi.”

Gaspare si accigliò e fece un mezzo ghigno: “Certo, come se il Duca di Ferrara prendesse in considerazione le mie parole... Se invece suo genero...”

“Suo genero, mi pare evidente – riprese la parola Marco – non stima il suocero, e il suocero non stima lui. Credetemi, una sua raccomandazione potrebbe solo mettervi nei guai.”

Anche se la considerazione riguardo la mancanza di stima reciproca tra lui ed Ercole avesse un po' avvilito il Marchese, Francesco fu ben contento di tirarsene fuori, raccogliendo quel prezioso soccorso: “Infatti. Non vi conviene, una mia raccomandazione.”

Con un sospiro pesante, il Fracassa sporse un attimo in fuori le labbra e poi, sbuffando, concluse, sbrigativo: “Ebbene, se le cose stavano così, tanto valeva dirmelo subito.”

Il Gonzaga si scusò un paio di volte e poi, quando Gaspare disse di doversi ritirare un attimo in stanza, per iniziare a lavorare agli accordi con Ferrara, ne approfittò per congedare tutti.

Uscito dal salone, quasi corse fuori dal palazzo. Si fece preparare un cavallo e, incurante della pioggia che iniziava a cadere su Mantova, il Marchese cominciò a cavalcare senza una meta. Era stanco di stare tra quattro mura: avrebbe voluto essere in un campo militare, in guerra. La sua vera casa era quella.

In un padiglione da campo non avrebbe dovuto sopportare ospiti sgraditi, e, se, come capitava in quei giorni, non avesse potuto guardare suo figlio crescere, avrebbe almeno avuto la giusta scusa della lontananza. Era frustrante vivere sotto il suo stesso tetto, e poterlo vedere sì e no per dieci minuti al giorno. Isabella sapeva essere così possessiva, quando le faceva comodo...

Francesco rientrò a palazzo solo a tarda sera. Non volle più vedere nessuno. Si ritirò in stanza e cominciò a rimuginare sulla propria vita, sul proprio matrimonio e su quanto fosse stato facile far intendere ai due Sanseverino e a Marco da Martinengo che tra lui e il suocero non correva buon sangue.

Non poteva scordare che Isabella era sempre e comunque un'Este...

Rigirandosi nel letto, lo stomaco vuoto che brontolava e la mente che si perdeva in ragionamenti per lui troppo complessi, il Gonzaga riuscì comunque ad addormentarsi, ma gli incubi lo perseguitarono senza sosta e, quando al mattino si svegliò, si trovò più stanco di quanto non fosse stato al momento di coricarsi.

 

“Ho detto che sto bene!” sbottò il papa, scansando in malo modo il servo che cercava di avvicinarsi con l'intruglio prescrittogli dai suoi medici: “Sono queste pappette che mi faranno morire, se non la piantate di propinarmele!”

Mentre il ragazzo si ritirava in buon ordine, rinunciando a dare, almeno per il momento, la dose giornaliera di tonico, Cesare, che restava a una certa distanza dal letto del padre, incrociò le braccia sul petto e lo guardò in tralice.

“Siete davvero convinto che queste trattative servano a qualcosa?” chiese il Valentino, indicando con un cenno del capo le lettere che il Santo Padre teneva sparse sopra al copriletto.

Alessandro VI fece un'espressione di insofferenza, come a dire che già la sua salute non era delle migliori, senza che suo figlio ci mettesse del suo angustiandolo anche con quel genere di polemiche.

“La rinuncia della Sforza e dei Riario a Imola e Forlì... Ma vi rendete conto dell'assurdità di queste trattative?” lo incalzò il Duca di Valentinois: “E chiedono anche uno Stato con un introito fisso di tremila ducati, oltre che l'Arcivescovato di Pisa per...”

“L'Arcivescovato – lo zittì Rodrigo, sollevando l'indice ammonitore e recuperando, malgrado il suo aspetto da malato e la testa coperta dalla cuffietta da notte, la sua consueta autorevolezza – non è affar nostro. Il Cardinale Sansoni Riario glielo vuole cedere? Lo faccia.”

“Tutto il resto, però, concorderete con me, è assurdo.” riprovò Cesare, muovendo appena un passo avanti.

“E tu levati di torno!” gridò il papa, allontanando con uno spintone il servo, che stavolta si era avvicinato per offrirgli una sciallina: “Si muore di caldo e tu mi rincorri con questa cappa pesante come una cotta di maglia?! Sparisci!”

Il domestico, questa volta, non se lo fece ripetere, e, chinandosi un po', in segno tanto di rispetto, quanto di scusa, raggiunse la porta, lasciando finalmente soli padre e figlio.

Rodrigo, a quel punto, ravvivato dalla breve sfuriata di poco prima, si tolse il copriletto dalle gambe e provò a mettersi seduto. Aveva dovuto rimandare un sacco di eventi importanti, in quei giorni, e non avrebbe voluto, non perché gli importasse qualcosa delle Messe giubilari o delle cene piene di dignitari stranieri, ma perché non voleva apparire debole agli occhi di nessuno.

Di quel passo, temeva, qualcuno avrebbe anche potuto dire che il Santo Padre era prossimo alla morte, dato che era stato male e stava evitando tutti gli eventi mondani.

“Aiutami ad alzarmi.” disse piano il Borja, chiamando a sé il figlio con un gesto della mano inanellata.

Cesare, seppur sbuffando, si fece avanti e lasciò che il padre appoggiasse su di lui buona parte del suo peso non indifferente e si tirasse in piedi. Il pontefice indossava una vestaglia da camera e una cuffietta un po' troppo vissuti, molto diversi dagli abiti sfarzosi con cui era solito vestirsi. Quando si stava male, aveva detto lui stesso, era meglio indossare cose comode, che cose appariscenti.

Aggrappandosi ancora un po' al figlio, Rodrigo si schiarì la voce, e poi gli chiese, stringendo appena le palpebre: “E della Sforza che mi dici?”

“Il messo francese dice che accettano un cambio di dimora, a patto che quella maledetta lasci la torre solo per andare in un luogo più sicuro, ma altrettanto confortevole.” spiegò il Duca di Valentinois, guardando davanti a sé, un po' imbarazzato per quell'inusuale vicinanza fisica con il padre.

Il papa si lasciò andare a un lungo sospiro e poi, con un paio di cenni del capo, chiese a Cesare di accompagnarlo fino al suo scranno: voleva provare a stare un po' seduto, per vedere se le forze gli stavano davvero tornando, come sosteneva uno dei suoi medici.

“Credi che una cella di Castel Sant'Angelo sia altrettanto confortevole che la stanza in cima al Belvedere?” chiese Rodrigo, con una risata strozzata dalla fatica di stare dritto contro lo schienale.

Il Valentino lo scrutò per un lungo istante, chiedendosi cosa il padre volesse sentirsi dire. In quel momento gli sembrava vecchio e malato, un altro uomo, rispetto a quello che sapeva mettere in riga l'intero Vaticano. Forse, non sarebbe mai tornato a essere l'Alessandro VI di un tempo. Quella consapevolezza lo spaventò a morte.

“Aspettiamo qualche giorno ancora.” sussurrò il Valentino: “Il messo francese verrà presto richiamato dal re, mi hanno detto. Gli assicurerò che agiremo come da accordi, ma appena sarà lontano, sbatteremo quella cagna nel buco che si merita. Giuro su Dio che non rivedrà mai più la luce del sole.”

“Attento, a giurare su Dio...” ribatté il Santo Padre, facendosi di colpo pensieroso: “Ti sorprenderà, ma è un azzardo che anche io faccio di rado, e solo quando sono sicuro di quello che dico...”

Il Duca sbatté un paio di volte le palpebre e poi rimarcò: “Quella donna finirà nella cella più buia e profonda di Castel Sant'Angelo, e non ne uscirà più. Costi quel che costi.”

“La farai uccidere?” indagò il pontefice, sporgendo un po' in fuori le labbra: “Perché in quel caso, comunque, dovrai stare attento a...”

“No, no, ormai non la voglio più morta.” lo interruppe il figlio: “Preferisco saperla in una cella senza scampo, nelle viscere del castello, in mezzo ai ratti e corrosa dall'umidità.”

“Se è quello che hai deciso...” concluse Rodrigo, alzando le mani, con aria fatalista: “Sai cosa serviranno per cena?”

Perfino il Valentino rimase contraddetto dalla facilità con cui il padre era passato dal parlare di una condanna del genere a un argomento leggero come la cena, eppure, senza troppo sforzo, si trovò a rispondergli: “Credo stiano preparando dell'uccellagione...”

 

Bianca era un po' nervosa. Di norma, non veniva quasi mai coinvolta nella vita comunitaria del convento. Anzi, di solito non c'era proprio vita comunitaria, alle Murate. Esclusi i pasti, qualche Messa vista da lontano e qualche raro momento di preghiera comune, le suore di clausura mantenevano la distanza l'una dall'altra, rispettando la regola che avevano sposato abbastanza fedelmente.

Quel pomeriggio, però, la Riario era stata pregata da Suor Ubbidienza di seguirla nel refettorio e, quando era arrivata, aveva trovato anche tutte le altre già sedute e in attesa di un discorso della Superiora.

La ragazza sperò che il tutto durasse poco, perché aveva lasciato Giovannino e Cornelia da soli nella sua cella. Erano tranquilli, dormivano entrambi, ma era sempre un pericolo, lasciare due bambini tanto piccoli senza nessuno che li controllasse.

Quasi a leggerle nel pensiero, mentre Suor Elena si schiariva la voce, Suor Ubbidienza si chinò appena su Bianca e le sussurrò: “Io so già cosa deve dire la nostra Madre Superiora. Vado di sopra dai piccoli... Non mi fido a lasciarli.”

La Riario la ringraziò di cuore e poi, sistemandosi un po' il velo – a cui non si era ancora abituata del tutto – tornò a guardare verso Suor Elena, in attesa di sentire le sue parole.

“Sorelle – iniziò la donna, guardando un punto imprecisato dell'orizzonte – sembra che in Firenze siano stati scoperti dei casi del morbo.”

Ci volle qualche istante, prima che la notizia facesse presa. Rompendo il silenzio, che usualmente contraddistingueva gli ambienti del convento, molte suore iniziarono a parlottare, dicendosi spaventate e in ansia.

Anche Bianca aveva avvertito una stretta allo stomaco, ma la sua mente, addestrata forse dagli anni passati accanto a sua madre, non si era soffermata tanto sul rischio che lei stessa o i suoi fratelli stavano correndo, nell'essere in una città in cui stava iniziando, forse, un'epidemia di peste. Il suo pensiero era andato subito ai metodi per combattere l'infezione e mettere in salvo la popolazione intera.

Non ascoltò più quello che Suor Elena stava dicendo. Non le importava di sentirla redarguire le altre suore sull'importanza di non lasciare per nessun motivo le Murate. Le risultava anche noioso il modo in cui la Superiora stava dando disposizioni riguardo le forniture di cibo che di quando in quando dovevano far arrivare dall'esterno, e che ora sarebbero state momentaneamente sospese.

Non fece una piega neppure quando le sentì dire che, fino a nuovo ordine, del giardino e delle piante se ne sarebbero occupate tutte loro in prima persona, in modo da non far entrare nel perimetro del convento nessun estraneo. Ciò implicava ben più di quanto sembrasse, e un paio tra le suore più giovani non trattenne un moto di sconforto al pensiero che il bel giardiniere che serviva da tempo le Murate non sarebbe passato di lì per un po'.

Alla Riario non interessava nemmeno di lui. In fondo, l'aveva avuto un altro paio di volte, e non aveva una smania irrefrenabile nei suoi confronti. L'aveva solo usato – come in fondo facevano in tante – per calmarsi e sopportare meglio la situazione claustrofobica in cui si trovava.

Quando il discorso di Suor Elena arrivò alla conclusione, e le presenti, poco per volta, lasciarono i loro posti e uscirono dal refettorio per tornare alle loro occupazioni, Bianca aspettò e, quando fu certa di essere ormai rimasta sola con la Superiora, le si avvicinò.

“Mia madre aveva messo a punto ottimi rimedi per la peste, e soprattutto delle strategie che hanno permesso a Imola e a Forlì non avere meno morti di tutte le altre città, quando siamo stati colpiti dal morbo.” le disse, tenendo lo sguardo basso in segno di rispetto, ma usando un tono più deciso del solito: “Di certo, se si trovasse il modo di portare all'attenzione di Firenze i suoi metodi, la città ne trarrebbe grande giovamento e...”

Suor Elena aveva sollevato una mano, per fermarla: “Non spetta a noi.” disse.

Alla Riario sembrava strana, la placidità con cui quella donna le aveva risposto. Era una persona intelligente, anche disposta a correre dei rischi, come aveva dimostrato nel dare asilo a lei e a Giovannino. Eppure sembrava quasi che la paura per la peste non la toccasse.

“Ma noi potremmo...” riprese la ragazza, convinta di riuscire a perorare la sua causa.

“Noi non possiamo nulla. Possiamo solo pregare.” la zittì la Madre Superiora, per poi abbassare la voce e farle presente: “Questo convento deve mantenere un basso profilo. I casi di peste sono ancora pochi e non è detto che aumentino come l'ultima volta. La fazione di Lorenzo sta prendendo forza, perché Pietrasanta, Pisa, Serrezzana e Montepulciano si sono ribellate, ma i francesi stanno marciando per restituirle a Firenze, come il Medici aveva promesso.”

Bianca stava per ribattere, ma ancora una volta la donna la fermò, prima che provasse a insistere di nuovo.

“A Pisa si sta combattendo. C'è pure quel Giannotto francese che so che aveva tradito vostra madre durante la presa di Imola...” con quelle poche parole, Suor Elena ricordò come non mai alla Riario quanto fosse davvero una donna di mondo e non solo una monaca dedita alla clausura: “Lorenzo sta esercitando un forte ascendente sulla Signoria, in questi giorni. Credete sia davvero il caso di accendere l'attenzione sulle Murate proprio adesso? C'è la peste? Pregheremo e staremo al sicuro, più di questo non possiamo fare.”

Un po' mortificata – più per aver dimostrato di non aver ragionato abbastanza che altro – Bianca fece un breve inchino e poi si congedò con un semplice: “Grazie, Suor Elena. Siete sempre una donna saggia.”

La Madre Superiora fece un profondo sospiro e ribatté: “Cerco solo di fare al meglio il mio dovere.”

 

Era la mattina del 26 giugno del 1500, ma per Caterina quello era solo un giorno identico a tutti gli altri. Non era più riuscita a tenere il conto del tempo che passava: sapeva solo che era da un po' che il suo isolamento si era fatto più stretto, e temeva che, prima o poi, la situazione sarebbe cambiata di nuovo.

Infatti, quasi non si sorprese quando vide entrare quattro uomini in armatura assieme ad Aloisio, che, mangiandosi un po' le parole, le annunciava: “Dovete... Dovete spostarvi da qui. Il papa... Ha trovato un posto più sicuro e meno dispendioso, per la vostra custodia.”

“Una tomba, magari?” ebbe lo spirito di commentare la Tigre.

La reazione mesta del carceriere, però, la spense all'istante. Si era attesa una battuta di rimando, o anche una reprimenda feroce per punirla della sua insolenza. Invece Aloisio aveva fatto un mezzo sorriso riluttante, e poi aveva scosso il capo, come a dire che non era il caso di fare dell'ironia.

“Scegliete un vestito comodo.” le consigliò: “E che vi tenga anche caldo.”

Quel consiglio, dato che erano comunque all'inizio dell'estate, mise i brividi alla Sforza. Si avvicinò alla minuscola cassapanca in cui stavano i pochi abiti che le erano stati concessi. Oltre a quelli che le aveva regalato il Borja e alla veste da notte che indossava in quel momento, possedeva solo un altro abito, abbastanza semplice, ma comodo, e, come suggerito da Aloisio, più caldo di tutti gli altri.

Non badando ai cinque uomini che erano nella stanza con lei, la Leonessa si spogliò e si cambiò con lentezza. Non sapeva cosa l'attendeva, ma voleva protrarre quei momenti il più possibile, perché qualsiasi cosa il papa avesse deciso per lei, non poteva che essere un peggioramento, rispetto al suo attuale status.

Quando fu pronta, con un nodo alla gola, sussurrò: “Andiamo dove si deve e non pensiamoci più.”

Le legarono le mani, e le intimarono di non aprire bocca, se non voleva avere un bavaglio sulle labbra. Caterina annuì e si disse che avrebbe davvero fatto come le dicevano. Trovò fastidioso essere tenuta ferma da un soldato per parte, mentre uno li precedeva e uno chiudeva il piccolo corteo, ma in un certo senso ne fu anche gratifica. Anche se fiaccata nel fisico e nell'animo, era evidente che faceva ancora paura ai Borja, altrimenti non avrebbero predisposto un trasbordo tanto organizzato e sicuro.

Scendere i gradini della torre fu per lei un'impresa. Malgrado la sua forza di volontà – che in quel momento sembrava quasi tornata a essere quella di un tempo – la donna sentiva le proprie gambe cedere ogni tre o quattro passi. Anche quando uscirono finalmente da Belvedere, il sole caldo sulla pelle e l'aria ancora abbastanza fresca che le sfiorava il viso, le fecero quasi girare la testa.

Dopo settimane di reclusione, essere all'aperto la stordiva. Eppure, per quanto già stremata dalla poca strada percorsa, per quanto nauseata dal profilo medievale e altero di Roma, per quanto terrorizzata da quello che le stava accadendo, la Tigre fece del suo meglio per imprimersi tutto quanto nella mente. Perfino gli sguardi straniti dei pochi passanti erano per lei qualcosa di prezioso.

Dio solo sapeva quando avrebbe potuto di nuovo uscire per strada e sentire i rumori di una città.

Doveva assorbire tutto, vedere tutto, sentire e annusare tutto. Il suo cuore, perfino, batteva rapido come non mai, quasi volesse anche lui catturare tutto ciò che quei minuti potevano regalare.

Dopo qualche minuto ancora di cammino – molto lento, per permetterle di non inciampare troppo spesso – la Sforza cominciò a riconoscere la via. Sapeva, ormai, dove stavano andando.

Senza che lo volesse, Caterina avvertì il cuore mancare un colpo, e le gambe cedere di netto, tanto che, se non fosse stata sorretta di peso dai soldati, sarebbe di certo rovinata in terra.

“Là no.” sussurrò: “Vi prego...” ma nessuno degli uomini che la stava scortando diede mostra di aver sentito la sua debole protesta.

Quando, ormai quasi sempre sollevata da terra dai suoi accompagnatori, la donna vide profilarsi la struttura impressionante e minacciosa di Castel Sant'Angelo, scoppiò a piangere. Ad averla spezzata così di colpo, non era stata tanto la consapevolezza di quello che l'aspettava lì dentro – sapeva bene quanto fossero buie, anguste e tremende le celle della fortezza adrianea – era stato più che altro il ricordo dell'ultima volta in cui aveva visto quella fortezza.

La sua mente era tornata indietro di anni, a quando, con Livio ancora nel suo grembo, reduce dalla sua prima guerra, aveva attraversato il Ponte Mollo sul Tevere e aveva preso, da sola, Castel Sant'Angelo, arrivando a piegare ai suoi piedi l'intero Vaticano.

Non poteva sopportare l'idea che la sua vita potesse finire là, nello stesso posto in cui era cominciata la sua fama di donna guerriera.

“Non piangete, Madonna...” le disse piano il soldato che la teneva per il braccio destro, dall'accetto spiccatamente milanese: “Vi prego...”

Caterina lo guardò per un solo istante, chiedendosi come avesse fatto, un figlio del Ducato, a finire nell'Urbe, a servire un diavolo come il Borja. Se lo chiese solo per un istante, però, perché il corteo avanzava ancora e prima che potesse rendersene conto, stava varcando la soglie del castello.

Con grande sforzo, si voltò un'ultima volta a guardare verso il fiume. Ebbe una fugace visione di qualche persona, un carretto e un gabbiano che planava con impertinenza sul ponte, e, subito dopo, il portone venne chiuso e il soldato che la teneva per il braccio sinistro le diede uno strattone, costringendola a tornare a guardare dritto davanti a sé.

   
 
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