Avvertenze:
Ero
arciconvinta che un momento simile non sarebbe mai giunto; che questa
storia
fosse destinata a rimanere per sempre al punto in cui l’avevo lasciata sei
– cielo, mi sta venendo un malore –
anni orsono.
E
invece, contro ogni pronostico, rieccomi qui: proprio vero che per noia
si
compiono le imprese più impensate!
Cosa
molto importante: ho
finalmente revisionato da cima a fondo Sorella Morte, riscrivendo i
capitoli
iniziali di sana pianta e aggiungendo addirittura un secondo prologo –
che si
trova nello stesso capitolo del primo.
Le
linee generali della trama non hanno subito mutamenti sostanziali (tante
grazie, è incentrata su quella originale XD), ma ho “uniformato” il tono
della
narrazione e inserito diversi dettagli in più: qualora ci fosse qualche
anima
pia che, all’epoca, seguiva questa storia, le consiglio vivamente di
tornare
indietro a dare un’occhiata.
Avevamo
lasciato Maia a fare i conti con la consapevolezza della morte di Camus;
in
questa seconda parte qualche nodo comincia a venire al pettine –
ingarbugliando
ancora di più la situazione, invero.
Orbene,
a
voi (alleluia); ci vediamo dabbasso!
Capitolo
12,
parte II: 24 settembre 1986. Maia
Dacché ricordava, Maia aveva sempre avuto a che fare con le scale.
Nel corso della sua breve vita doveva aver sceso e salito almeno un
milione di gradini – talmente tanti che, ormai, non si lasciava
spaventare
nemmeno dalle rampe più ripide.
Ma quel giorno fu diverso; non per le gambe che ancora la sorreggevano
malvolentieri, né tantomeno per il terreno crepato o i detriti
ammassati alla
rinfusa ai lati della via.
No, quello c’entrava poco o nulla.
Tutto il peso, tutto l’affanno che sentiva le derivavano dal pensiero
della destinazione, dalla consapevolezza del posto a cui quella
particolare
scala conduceva; un luogo, visitato tante volte per ragioni di studio,
dove mai
avrebbe desiderato recarsi per il motivo che adesso l’animava.
Eppure doveva – voleva – farlo.
Che il suo stomaco, il suo cuore e tutti i Gold saints del pianeta
protestassero pure: lei aveva tutto il diritto di rivederlo – di
dirgli addio
una volta per sempre.
«No, Maia» le aveva detto Aiolia la sera prima, rispondendo alle
sue richieste «Mi spiace, ma non potrai partecipare alle esequie. Non ti sei ancora
rimessa del tutto: assistere a una cerimonia del genere non
gioverebbe affatto
al tuo stato. Non vogliamo correre rischi inutili».
Maia l’aveva guardato stancamente, senza nemmeno tentare di ricercare
l’appoggio degli altri presenti – giacché sarebbe stato perfettamente
inutile:
pur avendo caratteri e punti di vista fra loro diversissimi, in quel
frangente ‘Lia,
Milo, Shaka, Mu e Aldebaran stavano dimostrando una stupefacente
identità di
pensiero.
L’aveva guardato stancamente, sì, e si era voltata verso la parete,
rimanendo
fissa in quella posizione così a lungo da troncare sul nascere ogni
eventuale
apologia; non possedeva la forza di polemizzare e, comunque, nella sua
testa
era già tutto programmato.
Così, la mattina dopo quel colloquio, aveva atteso che i cavalieri
prendessero
parte alla riunione indetta da quella
ragazzina nelle stanze della Tredicesima Casa rimaste ancora in
piedi; poi,
con la scusa di aver bisogno di riposare, aveva altresì fatto in modo
di
allontanare dal suo capezzale sia il personale di servizio della
Quinta Casa,
sia Clio.
Un po’ più difficile era stato togliersi di torno nonna Frandra.
La vecchia signora era così preoccupata per la nipote che, nel corso
della sua malattia, raramente l’aveva lasciata sola per più di qualche
ora: al
fine di convincerla a rientrare a Rodorio, Maia aveva dovuto persino
trattarla
male.
Che lo pensasse sul serio o meno, aveva comunque raggiunto lo scopo di
essere lì a barcollare di nascosto lungo la gradinata più triste e
appartata
dell’intero Grande Tempio – quella che, inoltrandosi nelle profondità
della
roccia, collegava direttamente l’ospedale da campo all’obitorio.
“Un cavaliere di Atena non è
destinato ad invecchiare”:
quanto spesso avesse sentito pronunciare questa frase, Maia non
avrebbe saputo
dirlo.
Lei, in qualità di aspirante medico, si era sempre imposta di non
concentrarsi troppo sull’a-moralità di tutto ciò che vedeva,
limitandosi a
svolgere il proprio dovere col distacco scientifico richiesto alla sua
professione; eppure, nel riconoscere in quei cadaveri persone con cui
aveva
avuto a che fare fino al giorno precedente, sovente le erano tremate
le mani.
Mai prima di allora, però, si era trovata a odiare di un odio tanto
viscerale quelle poche e semplici parole, che le stavano adesso
esplodendo nel
cervello alla stregua di uno dei dodici fendenti zodiacali: Un
cavaliere di Atena non è destinato ad
invecchiare.
Era stata un’ingenua a pensare che tale assunto non avrebbe mai
riguardato coloro ai quali teneva di più, a credere che la prima linea
del
fronte – quella dei cavalieri d’oro – sarebbe per sempre rimasta
intatta: i
Gold saints erano carne da macello come e più degli altri, e i fatti
recenti
l’avevano ampiamente dimostrato.
Lo stato di lutto proclamato a seguito della battaglia le permise di
arrivare a destinazione senza intoppi; ogni attività era stata infatti
rimandata a dopo la cerimonia funebre, per cui non aveva trovato
difficoltà a
sgusciare via dalle stanze di Aiolia e giungere sin lì senza
incontrare
nessuno.
Arrivata dinanzi al portellone della sala mortuaria, Maia dovette
appoggiarsi alla parete per non cadere; l’energia che l’aveva sorretta
sino a
quel punto sembrava essersi di colpo volatilizzata, lasciandola
impaurita e
sola come non lo era mai stata.
«Maia, tesoro. Vieni qui, vieni vicino a me: devo dirti una cosa.
Promettimi di essere forte».
La morte dei suoi genitori era stata dura da mandar giù.
Ma cos’aveva di normale quello che era successo pochi giorni addietro?
C’era
forse qualcosa di naturale
nel
vedersi spirare fra le braccia il proprio amante, assassinato col
beneplacito
della divinità che pure aveva servito tutta la vita?
No. Non c’era nulla di normale, nulla di naturale, nulla di giusto.
Con la mente annebbiata da questo pensiero, spalancare i battenti
dell’obitorio e varcarne la soglia si rivelò più semplice del
previsto; una
volta dentro, tuttavia, fu di nuovo a un passo dal crollare.
Il freddo intenso, la luce azzurrognola delle lampade a neon, il silenzio
irreale – l’Undicesimo Tempio,
il
ghiaccio scintillante fra le colonne, l’odore di morte.
Maia si costrinse a tornare alla realtà conficcandosi le unghie nei palmi
fino a farli sanguinare: non poteva cedere adesso. Quella era la sua
ultima
occasione, e non l’avrebbe sprecata per colpa di uno stupido attacco
di panico.
Dopo avrebbe avuto tutto il tempo che voleva per gettare la spugna e
abbandonarsi alle pulsioni più miserande.
«Per buttare fuori tutto lo schifo
che sento. Sommergerne il mondo intero».
Quando i battiti cardiaci le si furono riassestati, la ragazza prese ad
avanzare lentamente lungo l’enorme stanzone spoglio, composto da più
locali; il
primo di questi era adibito alle autopsie, mentre il secondo conteneva
le celle
frigorifere.
Data l’imminenza delle esequie i corpi erano stati lasciati sui tavoli,
pronti per essere prelevati; a giudicare dallo stato delle salme – «integre,
pulite. Come dei pupazzi» – il
personale addetto doveva aver già proceduto alla loro composizione.
A dispetto della convinzione che la Morte renda tutti uguali, i cadaveri
si presentavano al contrario disposti in modo strettamente gerarchico.
Un dio fattosi uomo, esattamente come lo ricordava: solo qualche ruga
agli angoli della bocca tradiva il tempo trascorso, rivelando al mondo
che
certe maschere ti plasmano più dello scorrere di mille stagioni.
Incredibile che nessuno se ne fosse accorto.
No, nonostante lo squarcio al centro del petto Arles non aveva pagato abbastanza: a fare le spese delle sue colpe erano
stati chiamati anche i compagni a lui più fedeli – tutti e tre: Death
Mask,
Shura e Aphrodite.
E poi, lui.
«Je suis désolé, j’ai été impoli. Donc, tu t'appelles comment?»
«Non mi chiamo più così da molto tempo. Adesso sono Camus».
«No di certo. Non cambierei una cosa come questa nemmeno per tutto l'oro
del mondo».
«Ciao, chérie!»
«Rimani. Rimani con me. Non andare».
«Ci riabbracceremo presto, vedrai».
Camus indossava uno dei suoi semplici, banali chitoni da allenamento;
oltre che della vita, l’avevano depredato anche dell’armatura di
Aquarius – un
cadavere non è più buono a nulla, tantomeno a combattere. Giusto?
Maia gli sfiorò i lunghi capelli rossi, rimirandone il viso disteso: le
sue rade lentiggini si stagliavano nitide in mezzo al pallore ceruleo
e le
labbra erano lievemente dischiuse.
Sembrava che dormisse – sembrava.
«Svegliati, Camus. Ti prego, svegliati!»
Il desiderio di vederlo aprire gli occhi – «dorati. Mai più rivedrò degli occhi del genere» – la investì con
tanta potenza da trasformarsi quasi in bisogno fisico, mentre la vista
le si
appannava a causa delle lacrime.
«La prima: quelle che vedo dovranno essere le ultime lacrime che
verserai per me».
Che promessa impossibile.
Davvero quel pazzo suicida pensava che lei sarebbe stata in grado di
mantenerla?
«Tu lo sapevi, vero? Sapevi che l’epilogo sarebbe stato questo. Volevi la
gloria e, per ottenerla, ti sei fatto ammazzare. Ma cosa te ne fai
adesso della
gloria, espèce de gros salaud?!»
Un rumore improvviso la fece voltare di scatto: qualcuno aveva appena
aperto la porta dell’obitorio.
In un incredibile guizzo di lucidità, la giovane riuscì a infilarsi
nell’armadietto dei camici giusto un attimo prima che lo sconosciuto
visitatore superasse la sala autopsie e accedesse alla vera e propria
camera
mortuaria.
Nel timore di essere scoperta, Maia decise di non arrischiarsi a
sbirciare. Quasi sicuramente era soltanto un addetto venuto a recuperare della strumentazione, non ci avrebbe messo molto ad andarsene. Quello che sentì subito dopo, però, fu un inconfondibile suono di passi inguainati di metallo – e gli addetti
non
indossavano armature. Purtroppo per lei, quindi, doveva trattarsi di un cavaliere.
«Ciao, ‘Mus».
«M-milo?»
«Sì, sono di nuovo qui. Scusami, non ho potuto farne a meno: lo sai che
mi piace scocciarti».
Il respiro dello Scorpione era così pesante che sembrava avesse
l’affanno: non era affatto normale per un saint, e men che meno per uno
del suo
rango.
«La riunione si è conclusa poco fa: hanno deciso che vi sep-» un tremito
«seppelliremo domani. “Hanno”, non “abbiamo”: fosse per me, ti terrei
qui per sempre.
Detesto l’idea che, che-»
Milo si bloccò di nuovo, a prendere una boccata di quell’ossigeno che gli
stava venendo a mancare: «… che non ti vedrò più. Non riesco a
sopportare
l’immagine di te, al buio, in una cassa.
«Guarda:» riprese poi, dopo una breve pausa «ieri ho trovato il tempo di
scendere al mercato di Rodorio e ti ho preso questa. La pietra non è
lavorata
come quella della mia, ma non sono riuscito a scovare di meglio; ha la
forma di
uno scorpione, se non altro. Spero che ti terrà compagnia… ovunque
andrai».
A ogni parola, lo stomaco di Maia si contraeva con violenza sempre
maggiore. Quello non era un commiato riservato a un amico: ad Aiolia,
cui pure
era affezionatissimo, mai Scorpio avrebbe fatto un discorso simile –
né da vivo
né da morto.
No, Milo non stava salutando un semplice amico: stava dicendo addio a
qualcuno di cui era completamente, disperatamente innamorato.
«Lo sapevo. Lo sapevo,
maledetto stupido!»
La storia della gelosia, del bacio, del fatto di essersi invaghito di lei
era stato tutto un gigantesco, assurdo teatrino montato ad arte.
Troppo sconvolta per aver paura delle conseguenze, aprì impercettibilmente
una delle ante dell’armadio che le fungeva da nascondiglio; la visuale
non era
un granché, ma almeno le consentiva di gettare un occhio su ciò che
stava
avvenendo all’esterno. In quel momento l’Ottavo Custode era in piedi
accanto al
corpo di Camus, con una mano poggiata sul suo petto e gli occhi immoti: aveva
un’espressione indicibile – che metteva i brividi.
Da quando Maia si era svegliata, mai le era parso tanto distrutto: se
quello che adesso gli si leggeva in viso era ciò che realmente
provava, allora
doveva essere davvero un bravo attore.
«Proprio vero che non si finisce
mai di conoscerle, le persone».
Avrebbe voluto fargli milioni di domande – «perché non me l’hai mai detto? Per quanto tempo hai guardato Camus col
mio stesso sguardo? Quanto male ti ha fatto?» – e tuttavia, fra
queste, ce
n’era una la cui importanza offuscava di gran lunga le restanti.
«Se davvero l’amavi, come hai
potuto permettere a Hyoga
di Cignus di
arrivare sino all’Undicesima Casa? Di levare la mano su Camus, ben
sapendo che
entrambi non si sarebbero fermati dinanzi a niente? Che razza di
amore è quello
che non protegge il suo oggetto?»
Se il non impedire equivale al cagionare, allora lo Scorpione era
colpevole allo stesso modo del cavaliere di bronzo: già da prima
traballante,
adesso – di fronte a una cosa simile – l’adempimento di un dovere si
rivelava
una scriminante del tutto insufficiente.
Aveva passato gran parte della giornata a dormire o a fingere di farlo;
per lo stato in cui si trovava, avere a che fare con qualsivoglia
essere umano
le pareva uno sforzo assolutamente insostenibile.
Tuttavia, quando Mu e Aiolia erano venuti a sincerarsi delle
sue condizioni, aveva costretto entrambi a sedere accanto a lei
e a
raccontare esattamente quanto fosse avvenuto tre giorni addietro;
dinanzi alla
sua ostinazione, i due non avevano potuto far altro che scambiarsi
un’occhiata
rassegnata e accontentarla.
Per bocca un po’ di uno, un po’ dell’altro, era così venuta a conoscenza
di tutto, sia di quello che non era trapelato dalle voci di
corridoio circolate
durante lo scontro, sia degli avvenimenti succedutisi dopo il suo
arrivo
all’Undicesima Casa.
Erano tantissimi gli aspetti che, partendo da presupposti diversi,
normalmente le sarebbe interessato chiarire, e altrettanti erano i
pensieri che
avrebbe dedicato a coloro che non ce l’avevano fatta, sebbene non
vi fosse
particolarmente attaccata; ma ora la morte di Camus si
prendeva l’intero
spazio disponibile – una volta crollato il muro portante, manca di
senso
domandarsi quali altre parti del palazzo abbiano ceduto.
Così, tutta l’attenzione di Maia si era catalizzata su pochi punti
fondamentali: il cavaliere del Cigno, il cavaliere di
Aquarius e il
cavaliere di Scorpio.
«È stato Milo a far sì che Cignus arrivasse sino alla Sacra Anfora. Milo
l’ha fatto passare e, in cambio, lui ha trucidato Camus sulla
soglia del suo
Tempio».
L’aveva sussurrato piano, più a se stessa che ai propri interlocutori,
sputando ogni parola come fosse veleno; l’aveva sussurrato piano
perché
ripeterlo a voce alta le sarebbe suonato davvero troppo ridicolo.
«Non è andata così, Maia».
Diplomatico come sempre, Mu aveva cercato di farle comprendere quanto la
faccenda potesse assumere portata differente, se guardata dal loro
punto di
vista di saints.
«Milo aveva capito che Hyoga era nel giusto, e ha fatto quello che tutti noi avremmo dovuto fare sin
dall’inizio: gli ha permesso di passare, pur sapendo che Camus non
l’avrebbe
imitato. È stato il senso del dovere a uccidere Aquarius: né il
Cigno né
tantomeno Milo. Solo il senso del dovere... e quell’amor proprio
che, purtroppo,
gli si è rivelato fatale».
Una parte di Maia – la più razionale – era conscia che quelle parole
contenevano un fondo di verità.
Ma esiste un limite al sacrificabile – e l’incolumità di un amico si
trovava oggettivamente al di là di esso.
Avrebbe dovuto intuirla questa sfumatura, Mu di Aries, visto che era
stato proprio lui a intromettersi in una battaglia non sua,
salvando Shaka di
Virgo da un destino ormai segnato.
«Se fosse come dici, allora anche Shaka avrebbe dovuto spirare per mano
di Phoenix. Invece, tu sei intervenuto a salvarlo. Perché
nessuno ha fatto
lo stesso con Camus? Si meritava di morire, lui? Con quale faccia
Milo può dire
di essergli stato amico se, dopo aver fatto passare quel ragazzino
di bronzo, è
persino rimasto immobile ad aspettare che l’uno freddasse
l’altro?!»
Come era avvenuto quella stessa mattina, la rabbia le stava facendo
dimenticare tutta la propria debolezza.
«Per come la vedo io, Milo avrebbe potuto evitare la morte di Camus. Se
solo l’avesse voluto davvero» bisbigliò infine, con lo sguardo
rivolto a terra
e la voce incrinata.
Fu in quel momento che Aiolia, rimasto in silenzio sino ad allora, prese
di colpo la parola.
«Io ti giuro, Maia,» disse, afferratale la mano «ti giuro su quello che
ho di più caro che se fosse stato possibile Milo avrebbe
impedito il corso
degli eventi con qualsiasi mezzo. Anche con la sua stessa vita, ne
sono più che
certo. E tuttavia, sai bene com’è… com’era fatto Camus. Non gli avrebbe mai perdonato una sua intromissione, non
in un combattimento ove era in gioco il suo status».
Poi, inchiodando i propri occhi in quelli neri della ragazza, continuò:
«Sono conscio che i nostri discorsi su dovere, giustizia e fedeltà
debbano
sembrare poco più che parole morte alle orecchie di una persona
che non ricopre
il ruolo di saint e che, per di più, sta soffrendo per colpa
altrui. Però ti prego, Maia,» la presa sulla mano
di lei aumentò «ti scongiuro, non rivelare a Milo quello che pensi
veramente. È
già abbastanza devastato: sentire cose come queste gli darebbe il
colpo di
grazia».
Avrebbe fatto lo stesso discorso, Aiolia, se avesse saputo ciò che Milo
provava per Camus?
Maia non lo sapeva e, sinceramente, neppure le importava; l’unica
cosa a cui riusciva a pensare erano le ultime parole che Camus le
aveva rivolto
lucidamente, un attimo prima di perdersi in spazi inaccessibili.
«La terza: stai vicino a Milo. Sostenetevi l’uno con l’altra. Dissipate
i vostri rancori, quali che siano. Fatelo per me».
Solo adesso, nel guardare Milo stringersi al petto la mano inerte di
quello che avrebbe dovuto essere il suo migliore amico, si rendeva
conto del
reale peso di quella frase.
«Te n’eri accorto. Non so quando, non so come, ma tu alla fine te n’eri accorto. E tuttavia,» pensò, distogliendo penosamente lo sguardo da Scorpio «questa è un’altra promessa che non penso di essere in grado di mantenere, Camus».
Ho
letto da qualche parte che dopo la battaglia delle Dodici Case i
cavalieri di
bronzo sono rimasti in coma per circa un mese.
Riguardo
alle
esequie, ero convinta che nella Grecia classica le stesse si
sostanziassero sempre e comunque nella cremazione del cadavere; dato
che nel
caso di specie far bruciare i corpi avrebbe comportato qualche
problemino con
la successiva saga di Hades, è stato un sollievo scoprire che, in
realtà, la
procedura più diffusa era anche allora la sepoltura.
Come
avrete forse notato, Maia è arrabbiata
– arrabbiata con Atena, coi cavalieri di bronzo, col Santuario, con i
Gold
superstiti, persino con lo stesso Camus.
Potrà
esservi sembrata un po’ infantile, ma provate a mettervi nei suoi panni
di
comune essere umano privo di cosmo, armature e compagnia bella: le hanno
ammazzato l’amante praticamente sotto il naso, ma nessuno si è risentito
per
questo. Nessuno, neppure quelli che, in vita, l’Acquario considerava
amici.
In
quest’ottica scevra da giuramenti e fedeltà, il suo disgusto appare
quasi
giustificato; e lo scoprire l’esatto ruolo di Milo nella faccenda
(nonché i
reali sentimenti di quest’ultimo per Camus), non potrà che peggiorare la
situazione.
“Se
il non impedire equivale al cagionare,
allora lo Scorpione era colpevole allo stesso modo del cavaliere di
bronzo: già
da prima traballante, adesso – di fronte a una cosa simile –
l’adempimento di
un dovere si rivelava una scriminante del tutto insufficiente.” :
qui ho
giocato un po’ con qualche figura giuridica (scusate, sguazzo in quella
roba da
mane a sera, è come avere un parassita nel cervello).
Per
l’articolo 40 del codice penale “il non impedire un evento che si ha
l’obbligo
giuridico di impedire equivale al cagionarlo”; una scriminante, invece,
è un
fatto che, qualora esistente, rende non punibile l’autore del reato – e
l’adempimento di un dovere è, per l’appunto, una scriminante.
Dopo
l’interessantissimo (come no) approfondimento, vengo alle specificità
del
capitolo:
-
“Un
luogo
delle fiabe” : frase tratta dal Prologo I;
-
«Je
suis
désolé, j’ai été impoli. Donc, tu t'appelles comment?»:
frase
tratta dal Prologo I;
-
«Non
mi
chiamo più così da molto tempo. Adesso,
sono Camus»: frase tratta dal Prologo II;
-
«No
di
certo. Non cambierei una cosa come questa nemmeno per tutto l'oro
del mondo»:
frase tratta dal Capitolo
3, parte II;
-
«Rimani.
Rimani
con me. Non andare»: frase tratta dal Capitolo 9;
-
«Ci
riabbracceremo
presto, vedrai»: frase tratta dal Capitolo 10, parte II.
-
«dorati. Mai più rivedrò degli
occhi del
genere» : questa osservazione sugli occhi di Camus ritorna,
variata a
seconda del momento, nel Prologo I, nel Prologo II e qui. È un dettaglio
che
avrei anche potuto non segnalare, ma mi sono voluta togliere lo sfizio
XD.
-
«La
prima:
quelle che vedo dovranno essere le ultime lacrime che verserai per
me»
: frase tratta dal Capitolo 10, parte II.
-
espèce de gros salaud : in
francese
equivale più o meno a “brutto pezzo di idiota”.
-
«La
terza:
stai vicino a Milo. Sostenetevi l’uno con l’altra. Dissipate i
vostri
rancori, quali che siano. Fatelo per me» : frase tratta
dal
Capitolo 10, parte II.
Piccolo
spoiler: a chi volesse angosciarsi fino alla morte, consiglio vivamente
il
prossimo capitolo – che sarà su Milo, finalmente.