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Autore: _camus_    26/09/2020    5 recensioni
Sembri ancora lontana ed estranea, Sorella Morte, sovrasti come stella gelida al mio destino.
[Il viandante alla morte, Hermann Hesse]

Solitudini che si intrecciano all'ombra del Grande Tempio di Atene: il "prima" e il "dopo" la battaglia delle Dodici Case raccontati attraverso quattro diversi – ma collegati – punti di vista.
Storia completamente revisionata
Genere: Drammatico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Shonen-ai | Personaggi: Aquarius Camus, Nuovo Personaggio, Scorpion Milo, Virgo Shaka
Note: Missing Moments, What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Capitolo 12, parte II. Maia

Avvertenze: Ero arciconvinta che un momento simile non sarebbe mai giunto; che questa storia fosse destinata a rimanere per sempre al punto in cui l’avevo lasciata sei – cielo, mi sta venendo un malore – anni orsono.

E invece, contro ogni pronostico, rieccomi qui: proprio vero che per noia si compiono le imprese più impensate!

Cosa molto importante: ho finalmente revisionato da cima a fondo Sorella Morte, riscrivendo i capitoli iniziali di sana pianta e aggiungendo addirittura un secondo prologo – che si trova nello stesso capitolo del primo.

Le linee generali della trama non hanno subito mutamenti sostanziali (tante grazie, è incentrata su quella originale XD), ma ho “uniformato” il tono della narrazione e inserito diversi dettagli in più: qualora ci fosse qualche anima pia che, all’epoca, seguiva questa storia, le consiglio vivamente di tornare indietro a dare un’occhiata.

Avevamo lasciato Maia a fare i conti con la consapevolezza della morte di Camus; in questa seconda parte qualche nodo comincia a venire al pettine – ingarbugliando ancora di più la situazione, invero.

Orbene, a voi (alleluia); ci vediamo dabbasso!

 

 

 

Capitolo 12, parte II: 24 settembre 1986. Maia

 

 


Dacché ricordava, Maia aveva sempre avuto a che fare con le scale.

Nel corso della sua breve vita doveva aver sceso e salito almeno un milione di gradini – talmente tanti che, ormai, non si lasciava spaventare nemmeno dalle rampe più ripide. Era un’eredità propria di tutti quelli che potevano dire di essere cresciuti al Santuario di Atena, e lei non faceva eccezione.

Ma quel giorno fu diverso; non per le gambe che ancora la sorreggevano malvolentieri, né tantomeno per il terreno crepato o i detriti ammassati alla rinfusa ai lati della via.

No, quello c’entrava poco o nulla.

Tutto il peso, tutto l’affanno che sentiva le derivavano dal pensiero della destinazione, dalla consapevolezza del posto a cui quella particolare scala conduceva; un luogo, visitato tante volte per ragioni di studio, dove mai avrebbe desiderato recarsi per il motivo che adesso l’animava.

Eppure doveva – voleva – farlo. Che il suo stomaco, il suo cuore e tutti i Gold saints del pianeta protestassero pure: lei aveva tutto il diritto di rivederlo – di dirgli addio una volta per sempre. Niente le sembrava più importante, al momento.

«No, Maia» le aveva detto Aiolia la sera prima, rispondendo alle sue richieste «Mi spiace, ma non potrai partecipare alle esequie. Non ti sei ancora rimessa del tutto: assistere a una cerimonia del genere non gioverebbe affatto al tuo stato. Non vogliamo correre rischi inutili».

Maia l’aveva guardato stancamente, senza nemmeno tentare di ricercare l’appoggio degli altri presenti – giacché sarebbe stato perfettamente inutile: pur avendo caratteri e punti di vista fra loro diversissimi, in quel frangente ‘Lia, Milo, Shaka, Mu e Aldebaran stavano dimostrando una stupefacente identità di pensiero.

L’aveva guardato stancamente, sì, e si era voltata verso la parete, rimanendo fissa in quella posizione così a lungo da troncare sul nascere ogni eventuale apologia; non possedeva la forza di polemizzare e, comunque, nella sua testa era già tutto programmato.

Così, la mattina dopo quel colloquio, aveva atteso che i cavalieri prendessero parte alla riunione indetta da quella ragazzina nelle stanze della Tredicesima Casa rimaste ancora in piedi; poi, con la scusa di aver bisogno di riposare, aveva altresì fatto in modo di allontanare dal suo capezzale sia il personale di servizio della Quinta Casa, sia Clio.

Un po’ più difficile era stato togliersi di torno nonna Frandra.

La vecchia signora era così preoccupata per la nipote che, nel corso della sua malattia, raramente l’aveva lasciata sola per più di qualche ora: al fine di convincerla a rientrare a Rodorio, Maia aveva dovuto persino trattarla male. Le aveva rivolto parole dure, maledicendo tutta la sua famiglia per averla costretta a far parte di un mondo che, lungi dall’essere “Un luogo delle fiabe”, si era invece rivelato un vero e proprio inferno di sangue, morti e devastazione – un mondo da cui, alla luce degli ultimi eventi, lei voleva soltanto allontanarsi.

Che lo pensasse sul serio o meno, aveva comunque raggiunto lo scopo di essere lì a barcollare di nascosto lungo la gradinata più triste e appartata dell’intero Grande Tempio – quella che, inoltrandosi nelle profondità della roccia, collegava direttamente l’ospedale da campo all’obitorio.

Un cavaliere di Atena non è destinato ad invecchiare: quanto spesso avesse sentito pronunciare questa frase, Maia non avrebbe saputo dirlo. Lì dentro la ripetevano tutti come fosse un mantra in grado di giustificare qualsiasi scempio, anche quello di dover riporre in dei sacchi neri i corpi senza vita di bambini o di uomini e donne poco più che ragazzi.  

Lei, in qualità di aspirante medico, si era sempre imposta di non concentrarsi troppo sull’a-moralità di tutto ciò che vedeva, limitandosi a svolgere il proprio dovere col distacco scientifico richiesto alla sua professione; eppure, nel riconoscere in quei cadaveri persone con cui aveva avuto a che fare fino al giorno precedente, sovente le erano tremate le mani.

Mai prima di allora, però, si era trovata a odiare di un odio tanto viscerale quelle poche e semplici parole, che le stavano adesso esplodendo nel cervello alla stregua di uno dei dodici fendenti zodiacali: Un cavaliere di Atena non è destinato ad invecchiare.

Era stata un’ingenua a pensare che tale assunto non avrebbe mai riguardato coloro ai quali teneva di più, a credere che la prima linea del fronte – quella dei cavalieri d’oro – sarebbe per sempre rimasta intatta: i Gold saints erano carne da macello come e più degli altri, e i fatti recenti l’avevano ampiamente dimostrato.

Lo stato di lutto proclamato a seguito della battaglia le permise di arrivare a destinazione senza intoppi; ogni attività era stata infatti rimandata a dopo la cerimonia funebre, per cui non aveva trovato difficoltà a sgusciare via dalle stanze di Aiolia e giungere sin lì senza incontrare nessuno.  

Arrivata dinanzi al portellone della sala mortuaria, Maia dovette appoggiarsi alla parete per non cadere; l’energia che l’aveva sorretta sino a quel punto sembrava essersi di colpo volatilizzata, lasciandola impaurita e sola come non lo era mai stata. Le sembrava di essere tornata alla mattina di dieci anni prima, quando, svegliata dallo squillo del telefono, si era recata in salotto e aveva trovato nonna Frandra seduta a terra con la cornetta tra le mani e lo sguardo assente di chi ha appena ricevuto una notizia irreparabile.

«Maia, tesoro. Vieni qui, vieni vicino a me: devo dirti una cosa. Promettimi di essere forte».  

La morte dei suoi genitori era stata dura da mandar giù. Aveva sempre faticato ad accettare che il Santuario si fosse inghiottito il sorriso di mamà e la voce calda di bampàs, sputando in cambio una misera menzione d’onore e tante condoglianze; e tuttavia, in virtù del fioretto fatto a sua nonna, si era consolata al meglio delle sue possibilità, pensando che i fulmini si abbattono anche sugli aerei normali.

Ma cos’aveva di normale quello che era successo pochi giorni addietro? C’era forse qualcosa di naturale nel vedersi spirare fra le braccia il proprio amante, assassinato col beneplacito della divinità che pure aveva servito tutta la vita?

No. Non c’era nulla di normale, nulla di naturale, nulla di giusto.

Con la mente annebbiata da questo pensiero, spalancare i battenti dell’obitorio e varcarne la soglia si rivelò più semplice del previsto; una volta dentro, tuttavia, fu di nuovo a un passo dal crollare.

Il freddo intenso, la luce azzurrognola delle lampade a neon, il silenzio irreale – l’Undicesimo Tempio, il ghiaccio scintillante fra le colonne, l’odore di morte.

Maia si costrinse a tornare alla realtà conficcandosi le unghie nei palmi fino a farli sanguinare: non poteva cedere adesso. Quella era la sua ultima occasione, e non l’avrebbe sprecata per colpa di uno stupido attacco di panico. Dopo avrebbe avuto tutto il tempo che voleva per gettare la spugna e abbandonarsi alle pulsioni più miserande.

«Per buttare fuori tutto lo schifo che sento. Sommergerne il mondo intero».

Quando i battiti cardiaci le si furono riassestati, la ragazza prese ad avanzare lentamente lungo l’enorme stanzone spoglio, composto da più locali; il primo di questi era adibito alle autopsie, mentre il secondo conteneva le celle frigorifere.

Data l’imminenza delle esequie i corpi erano stati lasciati sui tavoli, pronti per essere prelevati; a giudicare dallo stato delle salme – «integre, pulite. Come dei pupazzi» – il personale addetto doveva aver già proceduto alla loro composizione.

A dispetto della convinzione che la Morte renda tutti uguali, i cadaveri si presentavano al contrario disposti in modo strettamente gerarchico. Maia sfilò di fianco ad alcuni soldati semplici e al mancato cavaliere di Pegasus, riservando loro poco più di un’occhiata; tuttavia, non le riuscì di ignorare allo stesso modo le spoglie di Saga di Gemini.

Un dio fattosi uomo, esattamente come lo ricordava: solo qualche ruga agli angoli della bocca tradiva il tempo trascorso, rivelando al mondo che certe maschere ti plasmano più dello scorrere di mille stagioni.

Incredibile che nessuno se ne fosse accorto. Inconcepibile che un assassino avesse regnato sul Santuario di Grecia per tutto quel tempo, senza che una sola voce – se non quella, inascoltata, di Aiolos di Sagitter – si fosse levata a protesta.

No, nonostante lo squarcio al centro del petto Arles non aveva pagato abbastanza: a fare le spese delle sue colpe erano stati chiamati anche i compagni a lui più fedeli – tutti e tre: Death Mask, Shura e Aphrodite.

E poi, lui.

«Je suis désolé, j’ai été impoli. Donc, tu t'appelles comment?»

«Non mi chiamo più così da molto tempo. Adesso sono Camus».

«No di certo. Non cambierei una cosa come questa nemmeno per tutto l'oro del mondo».

«Ciao, chérie!»

«Rimani. Rimani con me. Non andare».

«Ci riabbracceremo presto, vedrai».

Camus indossava uno dei suoi semplici, banali chitoni da allenamento; oltre che della vita, l’avevano depredato anche dell’armatura di Aquarius – un cadavere non è più buono a nulla, tantomeno a combattere. Giusto?

Maia gli sfiorò i lunghi capelli rossi, rimirandone il viso disteso: le sue rade lentiggini si stagliavano nitide in mezzo al pallore ceruleo e le labbra erano lievemente dischiuse.

Sembrava che dormisse – sembrava.  

«Svegliati, Camus. Ti prego, svegliati!»

Il desiderio di vederlo aprire gli occhi – «dorati. Mai più rivedrò degli occhi del genere» – la investì con tanta potenza da trasformarsi quasi in bisogno fisico, mentre la vista le si appannava a causa delle lacrime.

«La prima: quelle che vedo dovranno essere le ultime lacrime che verserai per me».

Che promessa impossibile. Davvero quel pazzo suicida pensava che lei sarebbe stata in grado di mantenerla?

«Tu lo sapevi, vero? Sapevi che l’epilogo sarebbe stato questo. Volevi la gloria e, per ottenerla, ti sei fatto ammazzare. Ma cosa te ne fai adesso della gloria, espèce de gros salaud?!»

Un rumore improvviso la fece voltare di scatto: qualcuno aveva appena aperto la porta dell’obitorio.

In un incredibile guizzo di lucidità, la giovane riuscì a infilarsi nell’armadietto dei camici giusto un attimo prima che lo sconosciuto visitatore superasse la sala autopsie e accedesse alla vera e propria camera mortuaria.

Nel timore di essere scoperta, Maia decise di non arrischiarsi a sbirciare. Quasi sicuramente era soltanto un addetto venuto a recuperare della strumentazione, non ci avrebbe messo molto ad andarsene. Quello che sentì subito dopo, però, fu un inconfondibile suono di passi inguainati di metallo – e gli addetti non indossavano armature. Purtroppo per lei, quindi, doveva trattarsi di un cavaliere.

«Ciao, ‘Mus».

«M-milo?»

«Sì, sono di nuovo qui. Scusami, non ho potuto farne a meno: lo sai che mi piace scocciarti».

Il respiro dello Scorpione era così pesante che sembrava avesse l’affanno: non era affatto normale per un saint, e men che meno per uno del suo rango. Un lieve fruscio, poi la voce di Milo si fece più vicina. Probabilmente si era accostato al tavolo dove giaceva il corpo dell’Acquario.

«La riunione si è conclusa poco fa: hanno deciso che vi sep-» un tremito «seppelliremo domani. “Hanno”, non “abbiamo”: fosse per me, ti terrei qui per sempre. Detesto l’idea che, che-»

Milo si bloccò di nuovo, a prendere una boccata di quell’ossigeno che gli stava venendo a mancare: «… che non ti vedrò più. Non riesco a sopportare l’immagine di te, al buio, in una cassa. Oh, lo so che ti piace stare da solo, in silenzio: me lo ripeti sin da quando eravamo bambini. Ma, Camus… quanto ci metterà la terra a inghiottirti? A mangiarsi il tuo viso, i tuoi… i tuoi capelli. Dei, quanto ho amato i tuoi capelli. Finalmente posso dirtelo – senza paura di farti ribrezzo».

«Guarda:» riprese poi, dopo una breve pausa «ieri ho trovato il tempo di scendere al mercato di Rodorio e ti ho preso questa. La pietra non è lavorata come quella della mia, ma non sono riuscito a scovare di meglio; ha la forma di uno scorpione, se non altro. Spero che ti terrà compagnia… ovunque andrai».

A ogni parola, lo stomaco di Maia si contraeva con violenza sempre maggiore. Quello non era un commiato riservato a un amico: ad Aiolia, cui pure era affezionatissimo, mai Scorpio avrebbe fatto un discorso simile – né da vivo né da morto.

No, Milo non stava salutando un semplice amico: stava dicendo addio a qualcuno di cui era completamente, disperatamente innamorato.

«Lo sapevo. Lo sapevo, maledetto stupido!»

La storia della gelosia, del bacio, del fatto di essersi invaghito di lei era stato tutto un gigantesco, assurdo teatrino montato ad arte. L’evidenza era – ora come allora – tanto lampante che Maia si stupiva di averci creduto anche per un solo istante.

Troppo sconvolta per aver paura delle conseguenze, aprì impercettibilmente una delle ante dell’armadio che le fungeva da nascondiglio; la visuale non era un granché, ma almeno le consentiva di gettare un occhio su ciò che stava avvenendo all’esterno. In quel momento l’Ottavo Custode era in piedi accanto al corpo di Camus, con una mano poggiata sul suo petto e gli occhi immoti: aveva un’espressione indicibile – che metteva i brividi.

Da quando Maia si era svegliata, mai le era parso tanto distrutto: se quello che adesso gli si leggeva in viso era ciò che realmente provava, allora doveva essere davvero un bravo attore.

«Proprio vero che non si finisce mai di conoscerle, le persone».

Avrebbe voluto fargli milioni di domande – «perché non me l’hai mai detto? Per quanto tempo hai guardato Camus col mio stesso sguardo? Quanto male ti ha fatto?» – e tuttavia, fra queste, ce n’era una la cui importanza offuscava di gran lunga le restanti. Una questione assolutamente preliminare, soprattutto alla luce di quanto aveva appena scoperto.

«Se davvero l’amavi, come hai potuto permettere a Hyoga di Cignus di arrivare sino all’Undicesima Casa? Di levare la mano su Camus, ben sapendo che entrambi non si sarebbero fermati dinanzi a niente? Che razza di amore è quello che non protegge il suo oggetto?»

Se il non impedire equivale al cagionare, allora lo Scorpione era colpevole allo stesso modo del cavaliere di bronzo: già da prima traballante, adesso – di fronte a una cosa simile – l’adempimento di un dovere si rivelava una scriminante del tutto insufficiente.

Aveva passato gran parte della giornata a dormire o a fingere di farlo; per lo stato in cui si trovava, avere a che fare con qualsivoglia essere umano le pareva uno sforzo assolutamente insostenibile.

Tuttavia, quando Mu e Aiolia erano venuti a sincerarsi delle sue condizioni, aveva costretto entrambi a sedere accanto a lei e a raccontare esattamente quanto fosse avvenuto tre giorni addietro; dinanzi alla sua ostinazione, i due non avevano potuto far altro che scambiarsi un’occhiata rassegnata e accontentarla.

Per bocca un po’ di uno, un po’ dell’altro, era così venuta a conoscenza di tutto, sia di quello che non era trapelato dalle voci di corridoio circolate durante lo scontro, sia degli avvenimenti succedutisi dopo il suo arrivo all’Undicesima Casa.

Erano tantissimi gli aspetti che, partendo da presupposti diversi, normalmente le sarebbe interessato chiarire, e altrettanti erano i pensieri che avrebbe dedicato a coloro che non ce l’avevano fatta, sebbene non vi fosse particolarmente attaccata; ma ora la morte di Camus si prendeva l’intero spazio disponibile – una volta crollato il muro portante, manca di senso domandarsi quali altre parti del palazzo abbiano ceduto.

Così, tutta l’attenzione di Maia si era catalizzata su pochi punti fondamentali: il cavaliere del Cigno, il cavaliere di Aquarius e il cavaliere di Scorpio. Aveva voluto inquadrare il concreto ruolo giocato da Milo negli eventi da cui era scaturito l’irreparabile, e la risposta finale le aveva fatto ancora più male di quanto pensasse.

«È stato Milo a far sì che Cignus arrivasse sino alla Sacra Anfora. Milo l’ha fatto passare e, in cambio, lui ha trucidato Camus sulla soglia del suo Tempio».

L’aveva sussurrato piano, più a se stessa che ai propri interlocutori, sputando ogni parola come fosse veleno; l’aveva sussurrato piano perché ripeterlo a voce alta le sarebbe suonato davvero troppo ridicolo.

«Non è andata così, Maia».

Diplomatico come sempre, Mu aveva cercato di farle comprendere quanto la faccenda potesse assumere portata differente, se guardata dal loro punto di vista di saints.

«Milo aveva capito che Hyoga era nel giusto, e ha fatto quello che tutti noi avremmo dovuto fare sin dall’inizio: gli ha permesso di passare, pur sapendo che Camus non l’avrebbe imitato. È stato il senso del dovere a uccidere Aquarius: né il Cigno né tantomeno Milo. Solo il senso del dovere... e quell’amor proprio che, purtroppo, gli si è rivelato fatale».

Una parte di Maia – la più razionale – era conscia che quelle parole contenevano un fondo di verità. Sapeva perfettamente quanta importanza il cavaliere dell’Acquario avesse sempre dato a onore e dignità, con quel suo modo vagamente altezzoso di anteporre il merito a tutto il resto; altrettanto bene conosceva la naturale avversione dell’Ottavo Custode per soprusi e ingiustizie, che lo portava ad agire strettamente secondo coscienza, quali ne fossero le conseguenze.

Ma esiste un limite al sacrificabile – e l’incolumità di un amico si trovava oggettivamente al di là di esso.

Avrebbe dovuto intuirla questa sfumatura, Mu di Aries, visto che era stato proprio lui a intromettersi in una battaglia non sua, salvando Shaka di Virgo da un destino ormai segnato.

«Se fosse come dici, allora anche Shaka avrebbe dovuto spirare per mano di Phoenix. Invece, tu sei intervenuto a salvarlo. Perché nessuno ha fatto lo stesso con Camus? Si meritava di morire, lui? Con quale faccia Milo può dire di essergli stato amico se, dopo aver fatto passare quel ragazzino di bronzo, è persino rimasto immobile ad aspettare che l’uno freddasse l’altro?!»

Come era avvenuto quella stessa mattina, la rabbia le stava facendo dimenticare tutta la propria debolezza. Era assurdo che non capissero. Che si ostinassero a nascondere quella tremenda verità dietro il dito della “cosa giusta”.

«Per come la vedo io, Milo avrebbe potuto evitare la morte di Camus. Se solo l’avesse voluto davvero» bisbigliò infine, con lo sguardo rivolto a terra e la voce incrinata.

Fu in quel momento che Aiolia, rimasto in silenzio sino ad allora, prese di colpo la parola.

«Io ti giuro, Maia,» disse, afferratale la mano «ti giuro su quello che ho di più caro che se fosse stato possibile Milo avrebbe impedito il corso degli eventi con qualsiasi mezzo. Anche con la sua stessa vita, ne sono più che certo. E tuttavia, sai bene com’è… com’era fatto Camus. Non gli avrebbe mai perdonato una sua intromissione, non in un combattimento ove era in gioco il suo status».

Poi, inchiodando i propri occhi in quelli neri della ragazza, continuò: «Sono conscio che i nostri discorsi su dovere, giustizia e fedeltà debbano sembrare poco più che parole morte alle orecchie di una persona che non ricopre il ruolo di saint e che, per di più, sta soffrendo per colpa altrui. Però ti prego, Maia,» la presa sulla mano di lei aumentò «ti scongiuro, non rivelare a Milo quello che pensi veramente. È già abbastanza devastato: sentire cose come queste gli darebbe il colpo di grazia».

Avrebbe fatto lo stesso discorso, Aiolia, se avesse saputo ciò che Milo provava per Camus? Proprio lui, che per ben tredici anni aveva segretamente rimproverato al fratello caduto di averlo abbandonato?

Maia non lo sapeva e, sinceramente, neppure le importava; l’unica cosa a cui riusciva a pensare erano le ultime parole che Camus le aveva rivolto lucidamente, un attimo prima di perdersi in spazi inaccessibili.  

«La terza: stai vicino a Milo. Sostenetevi l’uno con l’altra. Dissipate i vostri rancori, quali che siano. Fatelo per me».

Solo adesso, nel guardare Milo stringersi al petto la mano inerte di quello che avrebbe dovuto essere il suo migliore amico, si rendeva conto del reale peso di quella frase.

«Te n’eri accorto. Non so quando, non so come, ma tu alla fine te n’eri accorto. E tuttavia,» pensò, distogliendo penosamente lo sguardo da Scorpio «questa è un’altra promessa che non penso di essere in grado di mantenere, Camus».





Note dell’autore

Ho letto da qualche parte che dopo la battaglia delle Dodici Case i cavalieri di bronzo sono rimasti in coma per circa un mese. Qui, invece – sopravvalutandoli alquanto – gli ho dato tempo due settimane: facciamo finta che Saori-san si sia data una mossa e abbia devoluto loro qualche benedizione divina. Viva la licenza poetica!

Riguardo alle esequie, ero convinta che nella Grecia classica le stesse si sostanziassero sempre e comunque nella cremazione del cadavere; dato che nel caso di specie far bruciare i corpi avrebbe comportato qualche problemino con la successiva saga di Hades, è stato un sollievo scoprire che, in realtà, la procedura più diffusa era anche allora la sepoltura.

Come avrete forse notato, Maia è arrabbiata – arrabbiata con Atena, coi cavalieri di bronzo, col Santuario, con i Gold superstiti, persino con lo stesso Camus.

Potrà esservi sembrata un po’ infantile, ma provate a mettervi nei suoi panni di comune essere umano privo di cosmo, armature e compagnia bella: le hanno ammazzato l’amante praticamente sotto il naso, ma nessuno si è risentito per questo. Nessuno, neppure quelli che, in vita, l’Acquario considerava amici. Anzi, “gli invasori” vengono adesso ritenuti degli eroi ed è proibito provare verso di essi il minimo risentimento.

In quest’ottica scevra da giuramenti e fedeltà, il suo disgusto appare quasi giustificato; e lo scoprire l’esatto ruolo di Milo nella faccenda (nonché i reali sentimenti di quest’ultimo per Camus), non potrà che peggiorare la situazione. Per lei è inconcepibile anteporre la salvezza del nemico – vero o supposto che sia – a quella della persona amata: il fatto che Scorpio abbia anche solo accettato di correre il rischio lo rende, ai suoi occhi, colpevole.

Se il non impedire equivale al cagionare, allora lo Scorpione era colpevole allo stesso modo del cavaliere di bronzo: già da prima traballante, adesso – di fronte a una cosa simile – l’adempimento di un dovere si rivelava una scriminante del tutto insufficiente.” : qui ho giocato un po’ con qualche figura giuridica (scusate, sguazzo in quella roba da mane a sera, è come avere un parassita nel cervello).

Per l’articolo 40 del codice penale “il non impedire un evento che si ha l’obbligo giuridico di impedire equivale al cagionarlo”; una scriminante, invece, è un fatto che, qualora esistente, rende non punibile l’autore del reato – e l’adempimento di un dovere è, per l’appunto, una scriminante.

Dopo l’interessantissimo (come no) approfondimento, vengo alle specificità del capitolo:

- “Un luogo delle fiabe” : frase tratta dal Prologo I;

- «Je suis désolé, j’ai été impoli. Donc, tu t'appelles comment?»: frase tratta dal Prologo I;

- «Non mi chiamo più così da molto tempo. Adesso, sono Camus»: frase tratta dal Prologo II;

- «No di certo. Non cambierei una cosa come questa nemmeno per tutto l'oro del mondo»: frase tratta dal  Capitolo 3, parte II;

- «Rimani. Rimani con me. Non andare»: frase tratta dal Capitolo 9;

- «Ci riabbracceremo presto, vedrai»: frase tratta dal Capitolo 10, parte II.

- «dorati. Mai più rivedrò degli occhi del genere» : questa osservazione sugli occhi di Camus ritorna, variata a seconda del momento, nel Prologo I, nel Prologo II e qui. È un dettaglio che avrei anche potuto non segnalare, ma mi sono voluta togliere lo sfizio XD.

- «La prima: quelle che vedo dovranno essere le ultime lacrime che verserai per me» : frase tratta dal Capitolo 10, parte II.

- espèce de gros salaud : in francese equivale più o meno a “brutto pezzo di idiota”.

- «La terza: stai vicino a Milo. Sostenetevi l’uno con l’altra. Dissipate i vostri rancori, quali che siano. Fatelo per me» : frase tratta dal Capitolo 10, parte II.

Piccolo spoiler: a chi volesse angosciarsi fino alla morte, consiglio vivamente il prossimo capitolo – che sarà su Milo, finalmente.

 

 

 

 

 

 

 

 

   
 
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