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Autore: Adeia Di Elferas    26/09/2020    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Caterina era tanto presa dal combattere con se stessa, per impedirsi di continuare a piangere, che quasi non si accorse del percorso che i soldati le stavano facendo fare. Avrebbe potuto, probabilmente, riconoscere gli ambienti di Castel Sant'Angelo, ma in quei minuti concitati, tutto ciò che vedeva erano pareti spoglie, gradini ripidi e un'oscurità che cresceva man mano che raggiungevano le viscere della fortezza.

I soldati che la sorreggevano e la sospingevano verso il suo destino non parlavano. Solo uno di loro, quello che stava in testa al drappello, dava qualche indicazione ai suoi, ma sempre per monosillabi o suoni inarticolati.

La Sforza ritrovò un minimo di presenza a se stessa, solo quando si accorse che stavano per scendere nel livello più basso, nei sotterranei. La scala di accesso principale era come l'aveva vista vista l'ultima volta, anni prima, quando era entrata in quel castello da conquistatrice e non da condannata. Tuttavia, giunta all'ultimo gradino – che quasi non vide per colpa dell'illuminazione scarsa, affidata solo a un paio di torce abbastanza lontane – si trovò in un ampio salone rettangole che prima non c'era. Anche se aveva gli occhi appannati per le lacrime, e la mente confusa dalla paura, capì subito che quell'ambiente doveva essere stato ricavato da poco. Riconosceva le pareti lisce, ma ancora fresche e anche il pavimento battuto di fresco. In senso lato, le ricordava la sensazione che aveva provato anche la prima volta che aveva visitato la Cittadella di Forlì appena ultimata.

I soldati che la scortavano, però, non sembravano altrettanto interessati all'architettura di quel posto e, senza darle nemmeno un minuto per rifiatare, la trascinarono oltre, verso un corridoio lungo e stretto. Dopo qualche passo, la Leonessa ebbe il sentore che si trattasse di un percorso di forma anulare o quasi. Passarono accanto a due porte molto basse e poi, all'improvviso, si fermarono davanti a una terza.

“Qui.” disse la guardia che guidava le altre tre.

Senza dire altro, una di loro aprì la porta, mentre le altre due spinsero la Tigre nella cella. Per poter entrare, la Sforza dovette quasi inginocchiarsi, tanto l'uscio era basso. Malgrado la fatica, comunque, Caterina non si oppose: sapeva che sarebbe finita a quel modo, non aveva senso provare a scappare. Non l'avrebbero uccisa, se ci avesse provato. L'avrebbero solo picchiata e rimessa al suo posto, senza sottrarla in alcun modo alla sua condanna.

Non aveva ancora fatto in tempo ad abituare gli occhi al buio, quando sentì la porta richiudersi, il chiavistello scattare e i passi dei soldati allontanarsi. Nel giro di pochi istanti, non si sentì nemmeno più lo scalpicciare ritmico dei loro piedi.

Era rimasta sola.

Il silenzio, pressante e assordante, le rimbombava nelle orecchie come un grido. Il buio era accecante, ma non era totale. Proprio sopra alla sua testa c'erano delle sottili fenditure che davano verso l'esterno. Facendo due conti, probabilmente affacciavano sul cortile.

La Tigre deglutì. Era immobile. Stava aspettando di adattarsi meglio alla scarsa luce per capire cosa ci fosse in quella cella, e quanto fosse grande. Aveva paura a muoversi. C'era un odore stagnante di umidità e faceva molto più freddo che ai piani superiori. Benché fosse estate, Caterina si trovò a essere felice di avere addosso il suo abito più pesante.

Quando, dopo chissà quanto tempo, riuscì finalmente a scorgere qualcosa grazie ai sottili fasci di luce che arrivavano dall'alto, la donna dovette trattenere un gemito. Si trattava di una stanza molto piccola, dal perimetro sufficiente, a mala pena, per permetterle di stare sdraiata. Non c'era nulla, a parte la nuda terra battuta. La cosa paradossale, pensò subito la donna, era che si trattava di una cella talmente ben sigillata, eccezion fatta per gli sfiatatoi che si aprivano verso il cortile, che probabilmente lì non avrebbe visto mai nemmeno un topo.

Sforzandosi di non restare paralizzata dalle immagini che la sua mente le proponeva, dalla consapevolezza che in quel posto avrebbe potuto doverci restare per anni, la Leonessa cominciò a vagliare il terreno. Conosceva anche troppo bene la geografia classica di una segreta di detenzione, e lei stessa aveva curato dei dettagli delle prigioni di Ravaldino, a suo tempo. Sapeva bene cosa dovesse esserci o mancare per rendere la prigionia di un condannato accettabile o insopportabile.

Dopo qualche secondo, capì che Alessandro VI, nel progettare quell'ambiente, aveva fatto del suo meglio per renderlo invivibile. Oltre alla totale assenza di un punto rialzato su cui mettersi per dormire, non c'era altra fonte d'aria se non le fenditure del soffitto che, messe in quella posizione, avrebbero permesso di entrare anche alla pioggia e alla polvere, rischiando pure di ostruirsi, se qualcuno nel cortile non avesse provveduto a togliere l'eventuale fango secco in caso di bisogno.

Poi, Caterina si rese conto che non c'era nemmeno un buco di scolo. Questo significava fondamentalmente due cose. Prima di tutto, non c'era modo – se non le avessero dato il prima possibile almeno un secchio – di eliminare i suoi escrementi e l'urina. Quel dettaglio, in una cella, poteva destabilizzare più di quanto la maggior parte della gente potesse pensare. Di norma, la Tigre riservava quel genere di trattamento ai prigionieri di rango più alto, perché erano quelli meno abituati a quel genere di sporcizia. In secondo luogo, quando fosse piovuto in modo intenso, l'acqua arrivata dall'alto non avrebbe avuto modo di defluire da nessuna parte e non solo avrebbe peggiorato l'umidità della cella, ma l'avrebbe letteralmente tenuta a mollo, almeno i piedi, impedendole di sedersi o coricarsi, pena infradiciarsi anche gli abiti.

Con un sospiro tremulo, che sembrò quasi rimbombare nel desolato silenzio che la circondava, la Leonessa si chiese se e quando le avrebbero portato qualcosa da mangiare o almeno da bere. Per il momento, la sola idea che potessero aver deciso di lasciarla lì a morire di stenti l'atterriva, ma non le sembrava così remota.

Facendo del suo meglio per non pensarci, la donna rilassò finalmente le spalle, fece qualche respiro profondo e si impose di stare il più possibile tranquilla. Non avrebbe avuto senso agitarsi, ormai. Il suo destino, in un senso o nell'altro, era stato tracciato, e lei non poteva fare nulla per cambiarne il corso.

Sentendosi improvvisamente stremata, avvertendo di nuovo il fastidio alla gamba rimasta ferita durante l'assedio di Ravaldino e mai del tutto guarito in tutti quei mesi, Caterina alla fine si mise a sedere. La terra battuta, fredda sotto di lei, le ricordò molto da vicino quella di una tomba.

Deglutì, mettendosi a fissare un punto indefinito nella penombra, in direzione della bassa porta di legno massiccio che la divideva dal resto del mondo. Dopo qualche lunghissimo minuto di attonito stupore, in cui, in fine, si rendeva davvero conto di dove fosse e di cosa, verosimilmente, l'aspettasse, la Tigre chinò il capo e, lasciando scendere qualche silenziosa lacrima, cominciò a pregare.

 

“Quando fai così sembri proprio un prete.” disse piano Ottaviano, tenendo lo sguardo fisso sulle proprie mani, che si stropicciavano l'un l'altra senza sosta: “A volte mi chiedo se ho fatto bene a chiederti di venire qui a Firenze.”

Suo fratello Cesare, che in abito talare sembrava un quarantenne stanco di vivere, malgrado avesse in realtà vent'anni non ancora compiuti, scosse piano il capo e ribadì: “Ho solo detto che trovo deplorevole il fatto che tu sappia di avere qui in città una figlia, e, malgrado ciò, che tu non voglia vederla.”

Il Riario più grande fece passare gli occhi tutt'attorno alla sala da lettura del palazzo degli Scali e solo alla fine si soffermò sullo sguardo fisso del fratello: “Che credi? Anche se volessi, non potrei andare da lei. Nostra madre e Fortunati hanno dato ordine di restare nascosti qui e io...”

“Hai palesato la tua presenza qui in molti modi. Andare fino al convento vestito come un popolano, non ti metterebbe più a rischio di quanto tu non sia già.” fece notare il minore.

In realtà, a Cesare interessava molto poco delle sorti di Cornelia. Giudicava uno sciocco suo fratello per aver avuto una figlia fuori dal sacro vincolo del matrimonio, e riteneva un essere di poco conto la bambina in questione. Tuttavia, sapeva che era dovere di un buon cristiano predicare la bontà d'animo e pensava che per un padre fosse sempre e comunque una buona cosa conoscere i propri figli.

Solo che Ottaviano si stava dimostrando un muro molto più spesso di quanto credesse. Anche se erano cresciuti insieme, il tempo che avevano passato separati gli aveva fatto dimenticare il carattere riottoso e ottuso del fratello maggiore.

“E comunque...” soffiò il primogenito della Tigre: “Non è di questo che dobbiamo parlare, ma di cosa fare sulla questione di Giovanni.”

“Giovanni è nostro fratello.” disse piano Cesare, lasciando che la propria voce, per la prima volta da che era lì, venisse smossa da un piccolo tremore: “Nostra madre ha sbagliato a vincolarlo a te in quel modo, ma...”

“A me, appunto.” lo zittì Ottaviano, alzando una mano: “Sono io, quello che finisce nei guai, se non si paga, non tu. Quindi piantala di sputare sentenze. Non sei Dio.”

Il più giovane si fece immediatamente il segno della croce e poi, guardando l'altro con gli occhi torvi, lo redarguì: “Stai attento a come parli. Ricordati i comandamenti: non nominare Dio invano.”

In tutta risposta, il maggiore sollevò una mano, accompagnando il gesto con uno sbuffo, dimostrando tutta la propria insofferenza per le remore di Cesare.

“Quando fai così – bofonchiò questi – sei tale e quale a nostra madre.”

Il primogenito della Tigre, a quel commento, sollevò per un istante gli occhi verso il fratello, assumendo un'espressione particolare. In un certo senso, sembrava quasi che gli facesse piacere, aver ricevuto un simile rimbrotto.

“Piuttosto...” cambiò discorso Cesare, capendo che era inutile discutere ancora: “Sei convinto che cedere la custodia di Giovanni a Lorenzo? Credi che sia una soluzione? Ci hai ragionato davvero sopra?”

Ottaviano fece una smorfia, e poi, seppur con scarsa convinzione, cominciò a dire: “Il Medici vorrà ancora dei soldi e io non li ho. E finché c'è questa storia di Giovanni, dovrò starmene segregato qui come un...”

Non finì la frase, perché in quel momento nel salone era entrata Alessandra Scali. La donna, che cercava come meglio poteva di celare la sua insofferenza verso il Riario maggiore, salutò entrambi con un certo distacco e poi consegnò una missiva proprio a Ottaviano.

“Ci è arrivata per via sicura e confidenziale.” gli fece presente: “Per questo ci ha messo parecchio tempo.”

Il ragazzo ringraziò e poi attese che Alessandra se ne andasse di nuovo, prima di aprire la lettera e iniziare a leggerla. Quasi non riconobbe le parole di sua madre, in quelle vergate sulla pagina.

Mentre Cesare leggeva in silenzio da sopra la sua spalla, il fratello si faceva via via più nervoso, fino a borbottare, leggendo a voce alta: “Badate di non diventar poveri per liberar me da questa carcere... Ma cosa crede? Come se avessimo soldi da spendere... Dopo tutto quello che abbiamo già provato a fare...”

“Intendi risponderle?” domandò il Riario più giovane, con una certa tensione, mentre l'altro ripiegava con gesti nervosi il messaggio.

Ottaviano, che era rimasto spiazzato dai toni usati dalla madre, e che vi aveva visto dietro un intento quasi derisorio, scosse piano il capo e sussurrò: “Per il momento no... Devo... Devo pensarci.”

Cesare preferì non dire la sua e, con un cenno che andava a fare eco alle parole del fratello, cambiò radicalmente discorso, mettendosi a guardare verso la finestra, osservando il cielo grigio di quel 26 giugno: “Ho sentito che ci sono stati altri casi di peste, ma che per ora è tutto abbastanza sotto controllo. Credo che resterò qui ancora qualche settimana, se Madonna Scali me lo concederà.”

 

Caterina si era addormentata senza rendersene conto. Non sapeva dire quanto avesse dormito, né se la luce che filtrava incerta dall'alto fosse quella di un nuovo giorno o meno. Sapeva solo che ad averla svegliata erano state delle grida di donna.

Saltando in piedi con una rapidità che le costò una fitta alla gamba, la donna si avvicinò alla porta di legno. Era spessa, molto spessa, ma lasciava entrare comunque le urla disperate di due prigioniere. Non erano molto lontane e i rumori metallici che seguirono lasciarono intendere alla Tigre che le due malcapitate fosse state fatte accomodare in una delle celle che affacciavano sul corridoio.

Ormai non si sentiva più nulla. La Sforza tendeva l'orecchio, con il respiro tanto affannoso da non riuscire a sentire altro. Voleva capire chi fossero e perché fossero lì. Provò a ripensare a ciò che aveva udito: non aveva capito nemmeno una delle tante parole che erano state gridate, però le era quasi parso di riconoscere uno dei due timbri.

Più si sforzava di riportare alla mente quanto appena ascoltato, più le pareva che una delle due donne potesse essere Argentina. La sola idea, però, che la sua fedele serva fosse finita in quel luogo orribile per colpa sua le risultava così insopportabile che in breve la scartò.

Attese ancora qualche istante, con l'orecchio tesissimo, ma capì che non avrebbe più potuto carpire nulla. Stava quasi per tornarsene seduta contro al muro, in attesa che succedesse qualcosa, quando la porta della sua cella si aprì.

La luce portata dalla torcia tenuta in mano da qualcuno l'accecò per qualche minuto. Anche se teneva la mano alta, per proteggersi gli occhi, non riusciva a capire chi fosse arrivato. Sentiva il calore della fiamma, avvertiva l'odore della stoppa che andava a fuoco, ma a parte quello non riusciva a orientarsi in alcun modo. Non aveva nemmeno la forza di chiedere chi fosse arrivato a cercarla.

Stava a malapena recuperando l'acuità visiva, quando l'uomo finalmente si decise a parlare. Alla Leonessa bastò sentire una sola sillaba uscire dalle sue labbra per retrarsi, in una reazione del tutto incontrollata.

Mentre premeva ormai la schiena contro la parete fredda, Caterina non riusciva nemmeno a capire le parole che Cesare Borja le stava rivolgendo.

Riuscì a tornare presente a se stessa solo quando lo sentì dire: “E così, per far contenti i francesi, ho pensato di prendere due delle tue serve e mandarle quaggiù, ufficialmente per prendersi cura di te, anche se non credo che potranno farlo, stando in un'altra cella.”

“No... No...” squittì Caterina, ricevendo conferma dei suoi dubbi.

Avrebbe voluto sapere chi fossero di preciso le due donne a cui era toccata quella sorte ignobile, ma aveva paura che quella sua domanda attirasse troppo l'attenzione del Valentino. Se avesse poi osato citare Argentina, quel diavolo avrebbe subito capito, e avrebbe fatto in modo di accanirsi sulla serva, al solo scopo di fare un torto a lei.

“Sì, invece.” ribatté Cesare, sollevando un po' di più la torcia, in modo da vedere meglio la sua prigioniera: “Hai voluto far credere al mondo di essere una grande signora, invece della meretrice da due assi che sei sempre stata? Hai voluto che ti credessero più adatta a un palazzo da gran signora piuttosto che a una bettola? Ebbene, che l'inganno continui. Re Luigi ti immagina negli appartamenti alti del castello, con due dame di compagnia e ottimo cibo da mangiare a tua discrezione.”

La Sforza non voleva mettersi di nuovo a piangere, ma sentiva di esserci tanto vicina che sarebbe bastato provare a parlare per crollare in un pianto dirotto. Così tacque.

“Non dici nulla, eh?” sbuffò il Duca: “Comunque... Sono venuto a portarti davvero qualcosa da mangiare.”

Mentre il figlio del papa sollevava la mano libera verso qualcuno che stava alle sue spalle, Caterina si ritrasse ancora di più, appiattendosi tanto da assumere una postura innaturale. Se avesse potuto, avrebbe voluto diventare tutt'uno con il muro, sottraendosi per sempre al suo aguzzino.

Cesare, nel frattempo, aveva recuperato un secchio e una ciotola. Li mise in terra e poi tornò verso la porta.

Si dovette accucciare, per riuscire a uscire, e, quando fu fuori, piegandosi abbastanza per guardare dentro e far sì che la Tigre lo vedesse bene disse: “Qui c'è dell'acqua. E qualcosa da mangiare. Fatti due conti, perché il secchio dovrà servirti anche per altro. Vedi tu, quando bere e come... Arrangiati, ma cerca di non morire troppo presto. Mi disturberebbe dovermi giustificare con re Luigi.”

Caterina non disse nulla. Stava ancora contro la parete, immobile, incapace anche solo di respirare.

“Il cibo fattelo durare. Non ti arriverà tutti i giorni.” aggiunse l'uomo, cominciando a richiudere la cella: “E stai attenta ai ratti. Mi hanno detto che, quando sentono odore di cibo, arrivano dal cortile.”

Mentre il chiavistello scattava e la porta si chiudeva, ripiombando la Sforza in un buio quasi totale, la donna cominciò a staccarsi dal muro. Era stremata, dopo quella breve visita del Borja. La paura le aveva tolto completamente le energie. Provò ad avvicinarsi al secchio e alla ciotola. Dovette mettere una mano nel primo, per capire quanta acqua vi fosse, non poteva che essere l'equivalente di tre o quattro calici al massimo. Nella ciotola, invece, dall'odore, doveva esserci della verdura e, forse, un pezzo di carne cotta.

Sollevò lo sguardo verso le feritoie che davano sul cortile. In effetti, da là qualche animale molto piccolo avrebbe anche potuto passare. Il digiuno non la spaventava più di tanto, al momento. Al Belvedere aveva, bene o male, mangiato a sufficienza per riprendere un po' di peso, e in guerra le era capitato spesso di saltare dei pasti. Anche quando era stata impegnata nel vendicare Giacomo aveva trascorso giorni interi senza cibo. Poteva farcela.

Così iniziò a mangiare, nella speranza, così, di scongiurare l'arrivo di topi o altri ospiti indesiderati.

Dal sapore, si rese conto che la carne era tutt'altro che fresca. Tuttavia il cattivo sapore era abbastanza coperto da quello di bruciato che arrivava dalle parti che erano entrate in contatto diretto con la fiamma. La verdura altro non era che una piccola porzione di ortaggi misti. Era comunque meglio di nulla.

Finito di mangiare, la donna usò la ciotola per prendere un po' di acqua sul fondo del secchio e se la portò alle labbra. Era acqua di stagno, probabilmente, non di pozzo, né di fiume. Aveva un retrogusto di muffa che le diede il voltastomaco. Con quel genere di rancio, non sarebbe stato strano se avesse cominciato ad avere dolori addominali di lì a qualche ora. Smise subito di bere e tornò a sedersi in terra.

Si mise a osservare il soffitto. Cercava di intravedere qualche segno di vita del cortile che stava sopra di lei. L'unica variazione che notò, con il passare delle ore, fu l'abbassarsi della luce e l'arrivo della notte.

Quando il buio fu pressoché perfetto, però, qualcosa illuminò di netto il cielo. Erano lampi. I tuoni che seguirono, erano così forti che sembravano scuotere fin nelle fondamenta Castel Sant'Angelo.

Poco dopo, iniziò a piovere in modo scrosciante. Dalle feritoie, l'acqua cominciò a cadere anche sul pavimento della cella. Caterina non si perse d'animo. Aveva immaginato uno scenario simile. Così decise di sfruttarlo come meglio poteva. Svuotò il secchio, rovesciando in terra l'acqua marcescente che le era stata elargita, e lo posizionò laddove le pareva che la pioggia cadesse meglio.

Per tutta la notte, la Leonessa di Romagna si godette la compagnia del temporale, pian piano recuperò un intero secchio di acqua molto più fresca di quella che aveva all'inizio, e accolse una nuova alba, di nuovo soleggiata, con l'animo un po' più lieto.

Nel corso della nottata, però, si era bagnata gli abiti, e in terra restavano almeno due dita d'acqua che, con ogni probabilità, non sarebbero asciugate in fretta. Non faceva molto caldo, nella cella, e il rischio di ammalarsi non le sembrava remoto.

Standosene in piedi, per non infradiciarsi ancora di più, si appoggiò con la schiena alla parete e, chiedendosi cosa le sarebbe successo nei giorni a venire, si predispose ad attendere, a sperare e a pregare. In fondo, si disse, quelle erano le uniche tre cose che le era ancora concesso di fare.

 

Era il giorno di San Pietro, ovvero il 29 giugno. Alessandro VI non si era mai sentito meglio. Il malore accusato qualche tempo prima era ormai solo un ricordo e il suo corpo gli pareva essere tornato più efficiente di quanto non fosse stato in gioventù.

A riprova di ciò, la sera prima si era intrattenuto fino a tardi a un banchetto, dimostrando a tutti di essere tornato a celebrare in grande stile il Giubileo Straordinario, e si era anche concesso una notte brava assieme a un paio di giovani ragazze che avevano quasi fatto fatica a tenere il suo ritmo. Il riposo che ne era seguito era stato minimo, ma era bastato, al papa, per sentirsi di nuovo fresco e arzillo come un galletto. Aveva scelto i suoi abiti migliori e poi, dopo una veloce colazione, aveva deciso di affrontare subito gli impegni della giornata, per poi avere il tempo di prepararsi ai bagordi di una nuova notte romana. Quel lunedì, quindi, stava cominciando per lui nel migliore dei modi.

La mattina era volata, e così Rodrigo, nel pomeriggio, si era trovato nell'ultima delle stanze dei suoi appartamenti, ad attendere la visita dei suoi figli. Stanco di stare in piedi, si era sistemato sul suo trono, sotto al baldacchino e aveva permesso a due sole persone di restare con lui a continuare l'attesa. Il primo era il Vescovo di Capua, Juan Lopez, mentre il secondo era un suo cubicolare di nome Gaspare, che aveva sostituito, a suo tempo, il povero Perotto.

Le finestre erano tutte aperte, per lasciar passare un po' d'aria e stemperare il caldo, e i tre uomini stavano chiacchierando del più e del meno, ricordando il temporale di qualche notte addietro e paragonandolo con il cielo sgombro e terso di quel pomeriggio, quando sembrò che il cielo stesso volesse smentirli sul colpo.

In meno di un minuto, il cielo si oscurò, assumendo una minacciosissima sfumatura verde, e il vento si fece bufera, soffiando con tanta forza da far anche sbattere qualcuna delle finestre spalancate. Mentre dalle nubi tempestose iniziava a cadere prima una fittissima pioggia e poi una grandine spessa, con chicchi grossi come fave, Gaspare scattò in avanti e cercò di chiudere tutti gli infissi, prima che succedesse qualche disastro.

Anche il Vescovo di Capua, suo malgrado, dovette aiutarlo. Il vento levatosi sui giardini vaticani imperversava con tanta violenza che, anche essendo in due, non riuscivano a serrare le finestre. La confusione regnava sovrana. I due uomini si gridavano l'un l'altro ordini, le imposte sbattevano, la grandine li colpiva e il vento pareva saper far tremare perfino i muri.

All'improvviso, senza che né il Vescovo, né il cubicolare capissero cosa fosse accaduto, un grande frastuono, accompagnato da una luce fulminea e seguito da uno schianto, li fece voltare per guardarsi alle spalle. L'immagine che videro li pietrificò per più di un minuto: laddove fino a poco prima c'era stato il trono con baldacchino del papa, adesso c'erano detriti, pezzi di muro e polvere.

Era come se lo scranno papale si fosse inabissato, assieme al pontefice, in un oceano di travi e calcinacci.

“Il papa è morto!” gridò uno dei due, seguito subito dall'altro.

“Il papa è morto! Il papa è morto!” si gridava nel palazzo.

La voce corse più veloce della saetta che aveva centrato in pieno il palazzo, scaricandosi esattamente nel punto in cui stava il trono pontificio. Mentre la confusione più totale attanagliava Roma, gli uomini del papa cominciavano a capire cosa fosse accaduto.

“Un fulmine – spiegò una delle guardie, che accidentalmente, aveva proprio visto il fascio di luce colpire il tetto – è caduto proprio dove sono gli appartamenti del Duca di Valentinois, che, per fortuna, non era in stanza. Dopodiché deve aver passato ben tre soffitti, fino ad arrivare allo scranno di Sua Santità!”

Passato il primo concitatissimo momento, capito cosa fosse accaduto, si pensò a come muoversi.

Subito intere squadre di operai, con pale e picconi, si misero a scavare, in un silenzio agghiacciante, rotto solo di quando in quando da un timido: “Padre Santo..? Vostra Santità ci sentite?” al quale, però, non arrivava risposta.

I figli del pontefice, accorsi non appena avevano saputo, erano gli unici a non aver preso parte attivamente agli scavi. Lucrecia, intimorita, piangeva in silenzio, senza sapere cosa augurarsi davvero. Joffré aspettava vicino alla porta, il viso trasformato in una maschera priva di espressione.

Solo Cesare sembrava aver fretta di trovare il padre, vivo o morto che fosse. Allungava il collo di continuo, con il respiro mozzo ogni volta che aveva l'impressione di scorgere qualcosa, per poi abbassare le spalle, quando si rendeva conto di aver scambiato un pezzo di tappeto per la stola di suo padre.

Ci vollero ore, prima che, tra un pezzo di muro e una trave spezzata, finalmente si intravedesse un angolo dello schienale del trono e un lembo dell'abito di Alessandro VI.

L'immobilità generale, e il fatto che Rodrigo non stesse rispondendo ai sempre più insistenti richiami, fece credere ai suoi tre figli di averlo perso per sempre. Lucrecia intensificò il suo pianto, nascondendosi il volto tra le mani. Joffré guardò altrove e poi uscì dalla stanza. Cesare, invece, si fece largo tra gli altri e si mise in prima fila, ben deciso a controllare coi propri occhi che suo padre fosse morto davvero.

Gli operai, intanto, stavano continuando gli scavi, ma a mani nude, scansando un pezzo di intonaco, un pezzo di legno, uno stralcio di stoffa, fino a giungere al papa.

Ciò che trovarono, lasciò tutti a bocca aperta.

Ancora seduto al suo posto, perfettamente in salute, salvo un paio di minime escoriazioni, sanguinanti, ma molto superficiali, sulla fronte, sulle guance e sulle mani, Alessandro VI li guardava stupefatto, così esterrefatto da non riuscire a spiccicar parola.

Con delicatezza, lo tirarono fuori dal buco in cui era finito e lo trasportarono di peso a letto. Con l'aiuto dei cerusici, gli vennero lavate le ferite, ma si capì subito che – più probabilmente per lo spavento, che non per un motivo fisico – il Santo Padre scottava per la febbre.

“Resta...” implorò Rodrigo, sollevando a fatica una mano verso Lucrecia, quando i medici suggerirono di lasciarlo per un po' in pace, da solo.

La ragazza, intimorita e ancora in lacrime, si sentì costretta ad accettare quella richiesta e così, presa una sedia, si mise accanto al capezzale del padre.

“Restate anche voi.” ordinò il papa, rivolgendosi al Vescovo di Capua.

Juan Lopez non poté far altro che chinare appena il capo e mettersi in piedi accanto alla Borja, con l'atteggiamento pio di un religioso intento ad assistere un malato molto grave.

“Allora rimango anche io.” si intromise Cesare, che non amava troppo lasciare il padre in compagnia della sorella e di un individuo infido e manipolatore come il Vescovo.

Alessandro VI provò a ribellarsi, dicendo: “No, no, qualcuno deve andare in città a dire che non sono davvero morto...”

“A parte il fatto che non ho nessuna intenzione di starmene in giro mentre diluvia in questo modo, si tratta di un compito che saprà portare a termine anche Joffré.” tagliò corto Cesare: “E magari anche mio cognato Alfonso. In fondo, non gli si chiede mai di fare nulla...”

Lucrecia fece finta di non sentire, rimanendo con gli occhi fissi sul volto graffiato del padre.

“Ma...” provò a dire il papa, sentendo la bocca secca, in parte per la febbre, in parte per una strana ansia legata alla presenza del figlio.

“Non c'è nessun ma.” lo zittì il Valentino: “Ho detto che rimango, e così farò.”

Rodrigo amava molto il suo Cesare, eppure in quel momento nei suoi occhi scuri leggeva una minaccia, e non un'offerta di soccorso. In quel momento, come mai prima di allora, temette che il seme assomigliasse davvero troppo alla pianta che lo aveva generato.

 

   
 
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