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Autore: keska    21/08/2009    41 recensioni
Tranquilli è a LIETO FINE!
«Perché… anche la pioggia, sai» singhiozzai «anche la pioggia tocca il mio corpo,
e scivola via, non lascia traccia… non… non lascia nessuna traccia. L’unico a lasciare una traccia sei stato tu Edward…
sono tua, sono solo tua e lo sono sempre stata…».

Fan fiction ANTI-JACOB!
E se Jacob, ricevuto l’invito di nozze non avesse avuto la stessa reazione? Se non fosse fuggito? Come si sarebbe comportato poi Edward?
Storia ambientata dopo Eclipse. Lupacchiotte, siete state avvisate, non uccidetemi poi…
Genere: Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Edward Cullen, Isabella Swan | Coppie: Bella/Edward
Note: What if? | Avvertimenti: Spoiler! | Contesto: Eclipse, Breaking Dawn
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'CULLEN'S LOVE ' Questa storia è tra le Storie Scelte del sito.
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«Edward

«Edward?» lo chiamò dall’altro lato della porta la voce di Carlisle.

 Lui, con un’espressione seria e preoccupata mi fece alzare e mi aiutò a sciacquarmi il volto.

«Bella, Carlisle ti dovrebbe rifare le medicazioni alle braccia» disse poi «te la senti?» mi chiese scrutandomi.

Io annuii, nascondendo il volto sul suo petto.

Non sembrava ancora convinto, ma dopo un po’ sospirò, guidandomi fuori dalla stanza. Ad attenderci oltre la porta c’era Carlisle, con un’espressione serena sul volto. «Venite, per di qua» disse facendoci strada. Carlisle era la persona con cui avevo interagito di più, dopo Edward e Rosalie, in quelle ultime due settimane. Sentivo che mi voleva bene come un padre, ma il nostro rapporto ultimamente era stato molto più medico che familiare e questo mi agitava un poco.

Varcammo la porta della stanza che doveva essere quella di Carlisle e Esme. Un’atmosfera di quiete e pace regnava incontrastata. Era come se quella stanza fosse il nucleo di tutta la casa, e irradiasse segnali positivi nel giro di chilometri.

«Siediti qui» mi disse Carlisle, indicandomi una sedia imbottita posta dinanzi ad una scrivania.

Feci come diceva, senza mai staccare la presa dalla mano di Edward, che stava dritto accanto a me.

Carlisle si sedette con una sedia di fronte alla mia, prese la sua borsa e accese un’intesa luce da lettura.

Titubante tolsi la mia mano da quella di Edward, che poggiò entrambe le sue mani sulle mie spalle, infondendomi coraggio. Tesi le braccia in avanti, verso Carlisle.

Lui fece un sorriso rassicurante e cominciò a sciogliere le bande con gesti veloci ed automatici, stando attento a non toccarmi mai.

Quando concluse la sua opera rimasi senza fiato. L’avambraccio era coperto da escoriazioni rosse e pulsanti. In alcuni punti, le ferite frastagliate e irregolari, sovrapponendosi, formavano dei solchi più profondi, chiusi da piccoli gruppi di uno o due punti. Deglutii, distogliendo lo sguardo.

Ero stata io a farmi tutto quello. Appoggiai la testa all’indietro, contro Edward. Poco dopo sentii il fiato freddo sul mio collo e capii che si era abbassato alla mia stessa altezza.

«Mi dispiace» sussurrai mesta, pensando al dolore che dovevo avergli causato.

Lui mi accarezzò una guancia. «Dispiace a me di non averti fermato prima».

«Non avresti potuto» sussurrai soltanto, ripensando alla prigionia mentale che sentivo in quel momento. Il desiderio di cancellare quel tocco dalla mia pelle… Trasalii allo sfioramento di Carlisle.

Si bloccò, e attese che mi rilassassi e che gli dessi il mio consenso prima di ricominciare. Sbendò anche l’altro braccio, in condizioni leggermente migliori rispetto al sinistro. Carlisle esaminò le ferite con lo sguardo. «Dovresti controllare se posso togliere questi punti» disse rivolto a Edward, indicandoli, «e anche questi».

Distolsi lo sguardo, agitata. Carlisle era fresco. Come Rosalie. Come Edward. Come Alice. Mi feci coraggio, e presi la sua mano fredda fra le mie.

Lui sollevò lo sguardo dalle mie braccia, sorpreso.

«Fallo tu» sussurrai, lo sguardo basso.

Lui mi sorrise, mite. «Va bene».

Mi controllò le suture e tolse alcuni punti, poi fece nuovamente il bendaggio. Mi strinsi al petto le braccia, più leggere e pulite di prima. «Grazie. Per tutto. Lo so che non è stato facile. Che non ti ho reso facile il compito, in questi giorni» farfugliai contrita.

«Apprezzo che tu me lo dica, Bella, ma non mi devi ringraziare. La tua famiglia è qui, e lo sarà sempre quando ne avrai bisogno».

Edward mi posò una mano sulla spalla. Mi sorrise, rassicurante. «Diglielo».

Annuii. «Ho bisogno di parlare con tutti voi».

Carlisle sorrise, mentre finiva di sistemare le cose nella borsa. «Riunione di famiglia. Andiamo».

Presi la mano di Edward e mi strinsi a lui, lasciandomi guidare verso il soggiorno. Lì tutti ci aspettavano seduti, in nostra attesa. Ci sedemmo sul divano bianco, di fronte a loro. Strinsi con più forza la presa sulle sue dita.

«Io e Bella dovremmo discutere di qualcosa di importante con tutti voi» cominciò Edward.

Chiusi e aprii le mani, poi mi feci coraggio. «La mia trasformazione» conclusi io.

Non notai una particolare reazione nei loro volti. Se lo aspettavano.

«Io vorrei aspettare» disse Edward, rivolgendosi a me. «Dopo tutto quello che è successo mi sembra giusto aspettare».

«Sono d’accordo» disse Carlisle, spiazzandomi. Mi fece un sorriso mesto. «La trasformazione è qualcosa che cristallizza il nostro essere. Una volta trasformata i cambiamenti saranno quasi impossibili, sarebbe meglio che tu ti riprenda prima» mi spiegò, esponendomi la sua teoria.

Abbassai il capo. Ormai ero già dannata pensai, ma non lo dissi. Avevo ucciso un essere umano, trasformarmi in un essere dannato non avrebbe cambiato le cose. Questo evento aveva cambiato la mia prospettiva sulle parole di Edward, su quanto tenessi alla salvezza della mia anima. Potevo ancora recuperare?

«Tu hai detto… Fra quanto smetterò di prendere i farmaci?» domandai flebile ad Alice.

I suoi occhi si assentarono solo un attimo. «Non passerà molto. Meno di un mese».

Sentii Edward irrigidirsi. Lo vidi scambiare uno sguardo d’incomprensione con il padre. Gli pareva troppo poco, lo sapevo. Pareva troppo poco anche a me, adesso che me ne sentivo così dipendente.

«Non vedi altro?» domandai speranzosa.

Scosse lentamente il capo, con un sorriso mesto. «È la tua decisione».

Mi guardai le mani, insicura. Le braccia bendate, la pelle che si sarebbe rimarginata e le ferite che non sarebbero mai guarite. Sollevai di nuovo il volto. «Due mesi» dissi decisa. Mi voltai verso Edward «fra due mesi mi trasformerai».

«Prima succede meglio è per me» fece Emmett, deciso.

«Bella, tesoro, pensi di potercela fare?» mi chiese Esme.

Deglutii. «Penso che ci sono cose che non guariranno mai» sussurrai con un filo di voce.

«Possiamo vedere come va fra due mesi e discuterne nuovamente» fece Jasper.

Mi voltai verso Rosalie. «Noi ne abbiamo già parlato» fece lei con un sorriso mesto «è ancora il tuo desiderio?» domandò, incerta della sua stessa domanda.

«Anche se dovessi essere triste per l’eternità» sussurrai, avvicinando la mia mano a stringere quella di Edward «preferisco una lunga eternità triste con lui, che una breve vita meno triste senza di lui».

Carlisle mi guardò intensamente. «C’è sempre la possibilità di essere perdonati» mi disse dopo un lunghissimo silenzio. «Non farlo se pensi che ormai sia la tua unica scelta».

«Non lo è?».

«No» mi disse Edward lentamente, guardandomi con estrema serietà.

Sospirai. «Anche se non lo fosse, la mia idea non cambierebbe. L’avevo già scelto prima».

I suoi occhi così scuri rimasero fermi, come solo un vampiro può fare. «Jasper ha ragione. Riparliamone fra due mesi. Non sappiamo cosa ci spingerà a sospendere la terapia così presto, è possibile che starai meglio, oppure…».

«Oppure?».

«Non lo so. Possiamo riparlarne fra due mesi?» mi domandò, chiedendomi implicitamente se mi fidassi ancora di lui.

Mi arresi e decisi di fidarmi.

Mi abbracciò, stretta, come per ringraziarmi.

«C’è qualcos’altro di cui dovremmo discutere» iniziò cautamente Jasper.

Edward s’irrigidì un poco. «Non…» iniziò, ma fu interrotto da Emmett.

«Gli umani. Dobbiamo parlarne» fece Emmett, richiamando l’attenzione su di sé.

«Gli umani?» domandai agitata, liberandomi dalla presa di mio marito.

«Sì, gli umani» disse, alzandosi in piedi in tutta la sua tonante statura. «L’ispettore Swan, tua madre, tutta Forks».

«In che senso?» chiesi allarmata.

Sentii un ringhio cupo nascere dal petto di Edward.

Emmett sollevò un sopracciglio, e poi esasperato le braccia al cielo «Deve saperlo!».

«Alice non ha detto che sarebbe andato così tanto bene da poterglielo dire» sbraitò, infuriato.

Gli occhi della piccola veggente si allontanarono, mentre aveva un'altra piccola visione. «Edward…» mormorò, alzandosi in piedi, lo sguardo perso. «Non ti agitare, peggiorerai le cose»

«Cosa devo sapere? Dirmi cosa? Cosa c’è che non posso sapere?» chiesi agitata, voltandomi verso Edward. Il suo sguardo avrebbe incenerito Emmett, e sentivo che si stava trattenendo, probabilmente a causa della visione di Alice.

Tutti gli altri ci fissavano attenti, l’aria carica di tensione.

«Edward?!» chiesi ancora, il tono di voce lievemente isterico.

Lui sospirò, abbandonando la sua maschera truce, ma non mi rispose.

«Bella» mi chiamò Carlisle.

Mi voltai immediatamente verso di lui.

«Ci sono stati alcuni problemi» cominciò a spiegarmi. «Il tuo rapimento è avvenuto in un locale pubblico e con dei testimoni. Quindi non abbiamo potuto nascondere nulla alla polizia, ancor più perché la donna che ha assistito alla scena ha identificato Jacob. Anche la polizia ha condotto delle ricerche e ormai la questione è di dominio pubblico».

Sospirai, abbassando lo sguardo verso il basso, colpita. C’era un’importantissima domanda che andava posta. «Come» deglutii, risollevando lo sguardo «cosa avete detto?» chiesi.

Carlisle intuì quello che volevo sapere. «Loro sanno che Jacob è scappato dopo aver ottenuto il riscatto che aveva chiesto».

Mi tranquillizzai lievemente. «Mio padre?» chiesi con voce tremante.

«Anche lui» disse Carlisle, rassicurandomi.

Feci un sospiro di sollievo, lasciandomi andare con la schiena contro la spalliera del divano e chiudendo gli occhi. «E i licantropi?» chiesi riaprendo gli occhi, preoccupata.

Questa volta fu Jasper a rispondermi. «Loro sanno tutto».

Chiusi e riaprii molto lentamente gli occhi.

«Era l’unico modo» continuò risoluto «è stata un’idea mia e me ne assumo le responsabilità, se te la devi prendere con qualcuno prenditela con me. Ma se gli avessimo detto che fosse stato uno di noi a ucciderlo, anziché te, il patto sarebbe stato considerato rotto. Invece così è stata solo legittima difesa. Lo so che è doloroso per te, ma ti ripeto è stata solo è unicamente una mia decisione».

Alzai un braccio. «Va bene. Ti capisco» presi un grosso respiro. Solo in quel momento stavo realizzando che se fosse stato Edward a ucciderlo al posto mio, si sarebbe scatenata una sanguinosa guerra. Presi un respiro più profondo. Non capivo come, ma questo mi faceva sentire solo un po’ meglio.

«Come l’hanno presa? Billy?» chiesi ancora.

«Non è facile, Bella. Billy è stato ripudiato» rispose Esme con dolore «ha detto che non era più suo figlio, ma un figlio ti rimane per sempre dentro, non importa cosa faccia o se sia vico o morto.  Soffre molto, per lui e per quello che ti ha fatto. Come tutti noi vorrebbe che tutto questo non fosse mai accaduto».

Poggiai schiena sul petto di Edward, che mi strinse da dietro con le braccia. «Stai bene?» mi chiese in un sussurro, avvicinando la bocca al mio orecchio.

Avevo ancora la nausea, ma avevo deciso di non pensarci. Strofinai una mano sul suo braccio freddo. «Sì» mormorai, lasciando andare il capo contro la sua spalla.

«Stanca?» mi chiese Rose venendomi accanto e accarezzandomi i capelli.

«Sì» sussurrai ancora. Ero così intontita e stremata.

È stata una giornata lunga» disse Edward, prendendomi fra le braccia e sollevandosi in piedi «ti porto qualcosa da mangiare in camera, riposati un po’».

Appoggiai la testa sul suo petto, salutando con una mano il resto della famiglia, che ricambiarono al mio saluto con dei sorrisi e delle parole cortesi. Sbadigliai ancora e mi portai la mano alla bocca.

Mangiai la mia cena in camera, insieme a Edward.

«Finito» dissi, sperando di farlo felice. Ero riuscita a mangiare un intero piatto di carne.

«Brava» disse Edward contento prendendolo dalle mie mani. «Vuoi la frutta?».

Feci una smorfia. Sapevo che non potevo spingermi troppo oltre, se non volevo che finisse come il pranzo. «No, mi dispiace».

«Come vuoi, non ti preoccupare» mi rassicurò con un sorriso.

«Bella» mi chiamò Rose dal bagno «ti ho preparato il pigiama».

Mi sollevai dal letto, sorridendo. Accidentalmente, l’orlo del vestito si sollevò più del previsto, fino a mostrare buona parte della coscia. Mi irrigidii totalmente, voltandomi verso Edward.

Era immobile. Fissava i graffi con un’espressione dolorosa in volto. Non dissi nulla e non mi mossi. Eravamo entrambi immobili.

«Bella, tutto ben…» Rosalie si interruppe, capendo quello che era successo.

In fretta riabbassai la stoffa, arrossendo e abbassando lo sguardo. Non volevo che lui soffrisse. Passarono alcuni istanti di interminabile silenzio. Nessuno si era mosso.

Poi sentii delle braccia fredde intorno alle spalle. «Mi dispiace tanto Bella» disse Edward abbracciandomi.

Risposi al suo abbraccio. «L’ho detto» mormorai a fior di labbra «ci sono ferite che guariranno. Altre no. Per fortuna queste sono fra quelle che guariranno».

«Guariranno tutte» mi promise, mettendo una sua mano fredda sulla mia «ti aiuterò io».

Quella notte dormii accanto a Edward, abbracciata a lui. Non mi impedì di avere degli incubi e di svegliarmi sudata e urlante. Ma almeno, quando mi svegliai, avevo ad accogliermi le fredde braccia di mio marito.

Quando fui sveglia e lucida gli sorrisi, debolmente. «Ehi».

«Ehi» fece lui, mettendomi un dito sulla punta del naso. «Sai che giorno è oggi?».

Sgranai gli occhi. Mi sentivo come un’alunna che non è preparata per l’interrogazione.

Edward rise della mia espressione. «Oggi è il 13 Settembre, sciocchina, tanti auguri!».

Mi portai una mano alla testa, disorientata. Un altro compleanno. «Accidenti, diciannove anni».

Rise della mia espressione. «Quando arriverai a 105 mi dirai cosa si prova».

Sorrisi, e mi stupii di poter essere divertita. Mi accoccolai fra le sue braccia, rassicurata dal freddo del suo corpo. Volsi lo sguardo verso l’ampia vetrata, titubante. «Com’è il tempo oggi?».

«Freddissimo» disse Edward con un sorriso.

Lo guardai, facendomi coraggio. Dopotutto, il giorno precedente non era andata troppo male. «Bene» dissi, sollevandomi malamente in piedi. Andai a spalancare la finestra e inspirare a pieni polmoni l’aria ghiacciata che mi pungeva la pelle. «Perfetto» ribadii, rabbrividendo.

«Bella» mi chiamò Edward incerto «fa davvero molto freddo, ti verrà un malore, ti sei appena ripresa».

Mi voltai, e sorrisi debolmente di lui. «Un malore» dissi scherzosa imitando la sua voce, ma lasciai che chiudesse le imposte.

«Ti prendi gioco di me!?» disse lui fingendosi scandalizzato e ridacchiando insieme a me. Poi cambiò espressione. «Amore» mi chiamò, sistemandomi una ciocca di capelli dietro l’orecchio. «Ecco… Alice si chiedeva se poteva parlarti» poi si avvicinò con la bocca al mio orecchio, sussurrando a bassa voce «Non te la prendere con lei, non voglio che tu faccia qualcosa forzatamente, ma valuta la sua proposta, ne sarebbe molto felice». Capii che aveva a che fare con il mio compleanno. «Ti assicuro che si è contenuta tantissimo, non è nulla di che».

Sospirai, chiudendo gli occhi. Non ero in vena di affrontare una festa di compleanno, ma Edward aveva ragione. Alice aveva sofferto tanto a causa mia e meritava una piccola felicità. E poi ero sicura che anche tutti gli altri ne sarebbero stati contenti. «Lasciami prima prendere i miei psicofarmaci» dissi infine, con solo una punta di scherzo nella voce.

Edward mi sorrise, passandomi la boccetta dal comodino.

Appena ebbi finito di ingoiare la compressa sentimmo bussare, e la porta si aprì dolcemente, lasciando passare Alice e Rosalie. Avrei preferito che i calmanti iniziassero a fare effetto prima di parlare con qualcuno che non fosse Edward. Mi feci coraggio. Alice mi porse una scatola bianca rettangolare, poggiandola sul letto. Muoveva nervosamente una mano contro l’altra. «È… non è nulla di che… non devi metterlo per forza… solo se ti va» disse balbettando.

Annuii, sforzandomi di sorridere. Ci stavo provando, davvero, a far tornare ogni cosa come prima. Mi andai a sedere sul letto e faci cenno a lei di sedersi accanto a me. Mi misi la scatola in grembo e l’aprii. C’era un vestito color avorio, di una stoffa con dei motivi a rilievo e con delle impunture color cioccolato. Per un attimo nella mente si proiettò l’immagine di Jacob e dei vestiti che aveva rubato a casa di mio padre. Scossi il capo e mandai giù l’ondata di nausea che mi aveva investito. «È molto carino» dissi infine «lo metterò di sicuro».

Lei sorrise, speranzosa. Poi tornò titubante e impaziente. «Posso darti gli auguri?».

Annuii. «Sì, va bene» e mi feci abbracciare da lei.

Poi me li feci dare anche da Rosalie. «Auguri Bella» mi disse con un sorriso. «Cosa vuoi fare oggi?».

«Io avrei un’idea» risposi incerta, guardando di sottecchi Edward.

Annuì con un sorriso.

Circa un’ora dopo, mi ritrovavo a fare una passeggiata nell’enorme giardino dei Cullen, con il mio nuovo vestito e in compagnia di Edward.

«Come stai?».

Mi voltai verso di lui con un sorriso. Non pensavo davvero che fosse possibile, ma mi sentivo piuttosto bene. Davvero, tanto che avevo paura che da un momento all’altro sarebbe successo qualcosa e che quel momento di pace sarebbe finito. Avevo freddo, e il freddo passava sotto il soprabito che mi avevano fatto indossare, mi arrivava al cuore e mi placava. Non avevo neppure la nausea quel giorno. Mi strinsi al suo braccio, beandomi maggiormente della sua temperatura. Rabbrividii.

«Ricorda, non vogliamo che ti ammali» mi riprese Edward, mettendomi in spalla il suo giaccone.

Sospirai. «Va bene».

Rimanemmo fuori a girovagare per non so quanto tempo. Niente che non potessi controllare, ogni cosa che facevamo da quando avevo iniziato a riprendermi era pensata e misurata. Poi ci fermammo per fare un piccolo pic-nic, solo io e lui. Continuavo a controllare il giardino, in tutto il suo perimetro e fino al limitare del bosco. Lì si perdeva il mio sguardo, spaventato di cosa ci potesse essere dietro agli alberi. Mi ero fatto rassicurare più e più volte da Edward che non avvertiva alcun pensiero a distanza di un chilometro, oltre e quelli della sua famiglia.

C’era ancora così tanta strada da fare. Mi bastava chiudere gli occhi per vedere i suoi occhi sgranati e sentire vividissime le mie urla. Tentavo di non pensarci. Tentavo di pensare a Edward che era accanto a me, tentavo di pensare al suo corpo freddo, e tentavo di pensare che quello che avevo fatto era veramente servito a qualcosa e che era stato un gesto necessario. Purtroppo però non c’era verso di pensarla allo stesso modo per quello che lui aveva fatto a me.

«Amore» mi chiamò Edward preoccupato. «Piangi?».

Senza dire nulla mi sollevai dalla tovaglia e andai a mettermi fra le sue braccia, asciugandomi le lacrime. Nuove immagini terribili cominciarono ad affiorare nella mia testa, e ringraziai il cielo che Edward non potesse leggere nella mia mente. Non riuscivo a calmarmi, l’ansia cresceva sempre di più, a io non volevo piangere di nuovo. Sentivo ogni tanto il bisogno di impormi un respiro forzato, come se ci fosse qualcosa a comprimermi i polmoni o come se avessi paura di non riuscire a respirare. Odiavo così tanto quel momento che sembrava stesse rovinando quel giorno finalmente perfetto.

«Edward. T-ti prego» biascicai querula, desolata che la mia tranquillità per quel giorno iniziato così bene fosse finita così in fretta «Ho bisogno di calmarmi» farfugliai, e sapeva cosa stessi cercando.

Mi fissò con attenzione. «Non è passato molto tempo dalla prima compressa».

Singhiozzai, portandomi una mano al collo. Eccola, di nuovo, la sensazione di non riuscire a respirare. «Non ci riesco».

Esitò. Poi estrasse dalla tasca del suo giaccone, posato sulle mie spalle, il flaconcino con i farmaci. Mise sul palmo della sua mano l’ultima compressa che rimaneva, poi mi porse una bottiglietta d’acqua.

La ingoiai in un sorso, rimettendomi fra le sue braccia lasciandomi cullare. Bastarono pochi minuti, e mi calmai. «Scusa» farfugliai, la bocca già più impastata «stava andando così bene».

Lui mi strinse a sé, coprendomi con il suo giaccone. «Non so veramente come Alice…» mormorò, guardando in lontananza. Scrollò le spalle. «Non ti preoccupare, chiederemo a Carlisle com’è meglio comportarci e vedremo come aggiustare la terapia».

Qualche minuto dopo Alice e Rosalie ci raggiunsero.

Alice si morse il labbro, incerta. «C’è una torta di là, e anche gli altri vorrebbero darti gli auguri, cosa ne pensi?».

«Andiamo» dissi con un debolissimo sorriso a Edward.

Entrammo insieme a casa, ma lui mi teneva su per i gomiti, come se avessi paura che cadessi. Mi sentivo intontita. Edward si riprese il giaccone prima che potessi lamentarmi per il caldo, e lo appese all’appendiabiti nell’ingresso. Poi entrammo in salotto.

«Auguri Bellina!» esclamò Emmett stritolandomi nella sua presa.

Tutti s’irrigidirono, preoccupati per una mia reazione, ma io, complice la mia doppia dose giornaliera, mi rilassai fra le sue braccia, ricambiando il suo affetto con una breve risatina fiacca. Mi sentivo già meglio e l’intorpidimento stava scemando, lasciando il posto ad una innaturale quiete. Anche gli altri mi fecero gli auguri. Jasper si tenne a distanza. Probabilmente in altre occasioni l’avrebbe fatto anche lui, ma i suoi occhi erano scurissimi, come quelli del resto della famiglia.

Fu una bella serata, e i miei incubi non riuscirono a rovinarla. Soffiai sulle candeline per spegnerle - tutte e diciannove - e desiderai che la mia vita potesse tornare felice come lo era stata un giorno. Fortunatamente, a parte Alice, nessuno mi aveva fatto regali. Rosalie accese la musica e si mise a ballare con Emmett. Erano davvero stupendi insieme. Quando finirono sorridevo contenta e mi voltai verso Edward. Era molto felice. Eravamo entrambi di nuovo pieni di speranza per il futuro.

Anche tutti gli altri andarono a ballare, e io mi feci trascinare da Edward.  Ballare. Chi avrebbe mai pensato che sarei tornata a ballare, calma e serena fra le braccia di mio marito?

Dopo un po’ mi dichiarai esausta, e mi andai a sedere sul divano. Edward continuò a ballare con Esme, mentre le altre coppie ancora volteggiavano per il salone. Carlisle venne a sedersi accanto a me.

Mi sporsi verso di lui, facendogli segno di avvicinarsi. «Dobbiamo parlare» sussurrai ad un suo orecchio, a voce bassissima «della caccia» aggiunsi.

Lui si ritirò sullo schienale e mi fece l’occhiolino.

«Champagne!» esclamarono Alice e Rosalie portando il secchiello con il ghiaccio.

«Cioè praticamente solo per me» esclamai incerta «non ne vale la pena».

Vidi Edward lanciare un’occhiata a Carlisle e muovere velocemente le labbra. Lui fece un piccolo sorriso e un cenno affermativo.

Bevvi appena un sorso di champagne, ma il resto non andò sprecato. Emmett e Jasper fecero una scommessa: chi riusciva a berne di più.

«Ma non gli farà male?» chiesi a Edward.

Lui fece spallucce. «Non credo, ma io non berrei comunque quella roba, ha un odore orrendo…».

Poco dopo Emmett, che aveva vinto contro Jasper, venne e reclamarmi per ballare. Fu molto più divertente - anche se meno romantico - che ballare con Edward, dato che mi strapazzava come un peluche facendomi volteggiare per aria.

La festicciola procedeva bene. Ero contenta, anche se un po’ stanca.

«Andiamo a prendere i puzzle?» propose Alice, euforica.

«Sì! Facciamo gara di puzzle!» esclamò contento Emmett.

«Per te va bene Bella?» mi chiese Edward, speranzoso ma preoccupato di tirare un po’ troppo la corda per quella sera.

Era così bello potermi sentire di nuovo anche solo un po’ normale. Volevo solo distrarmi. E poi sapevo che tutti ne sarebbero stati contenti. Annuii.

Alice e Rosalie presero quattro scatole di puzzle da mille miliardi di pezzi. C’era da aspettarselo da dei vampiri. Sotto loro esortazione andai a scegliere il disegno che più preferivo, lasciando Edward seduto sull’ultimo gradino delle scale.

Mentre stavo andando verso il tavolo del salotto alle mie spalle tuonò il vocione di Emmett. «Ehi Bellina, non vorrai mica stare in squadra con Edward vero? Non preferisci il tuo fratellone?».

Mi voltai per ribattere, ma nonostante mi fossi fermata, sentii a testa continuare a girare. Travolta dall’improvvisa ondata di vertigini sentii le gambe cedere e la vista offuscarsi. Poco prima di toccare il pavimento sentii delle braccia fredde afferrarmi.

Avevo una completa percezione delle voci di chi mi stava intorno, e che mi chiamavano, e anche delle braccia che mi stringevano il busto mentre ero stesa sul pavimento.

«Bella, mi senti?» chiese Carlisle.

Sentii dei colpetti freddi sul volto. Sbattei le palpebre velocemente, aprendo gli occhi. Aspettai che l’immagine sdoppiata di Carlisle, e di tutta la famiglia alle sue spalle, diventasse una sola. La confusione si diradò velocemente. Ero fra le braccia di Edward, che mi guardava preoccupato. Mi sollevai con il busto.

Carlisle mi mise le mani sulle spalle, costringendomi a rimettermi stesa. «Stai giù» mi ordinò. Esme mi teneva le gambe sollevate.

«Io…» balbettai «non so cosa è successo… è stato… solo un forte capogiro…» dissi portandomi una mano alla testa.

Edward mi mise una mano sulla fronte, cancellandomi il sudore e lasciandomi un bacio.

Tutti mi guardavano dall’alto, preoccupati. Le loro immagini incombevano su di me. Mi sentivo soffocare. Ansimai lievemente.

«Ragazzi, state indietro» disse Carlisle intuendo i miei pensieri. Prese il mio polso fra le dita, con delicatezza. Poi mi passò una mano sulla fronte e sotto la gola.

«Ha la pressione un po’bassa» disse infine. «È successo tutto in un istante o ti sentivi male già prima?».

«No» farfugliai «è stato quando mi sono voltata».

Lui mi osservò attentamente. «Non è il caso di preoccuparsi più del necessario, è stato solo un lieve mancamento».

Io chiusi gli occhi, stringendomi a Edward e gemendo piano. Era ritornata la nausea. «Sarà stato lo champagne» mormorai poi debolmente, riaprendo gli occhi con un debolissimo sorriso.

Carlisle mi sorrise e mi fece una carezza. «Ti gira ancora la testa?».

Scossi il capo. «Ho un vago senso di vertigini» chiusi gli occhi.

Mi sentii sollevare da Edward. «Ti porto in camera a riposare».

Aprii le palpebre, allarmata. «Ma… i puzzle» balbettai, guardando rapidamente gli altri. Erano incerti e preoccupati e sviavano il mio sguardo.

«Amore» mi ghermì delicatamente Edward, catturando la mia attenzione «è stata una lunga giornata e sei tanto debole. Non è colpa tua» aggiunse, a beneficio del mio labbro tremante e del senso di colpa che mi si leggeva in faccia «sarebbe stato molto molto faticoso per qualunque umano. E poi» aggiunse, misurando le parole per paura di turbarmi «c’è stata la doppia dose di calmanti. Possiamo fare i puzzle domani se ti va».

Sentii gli occhi inumidirsi e le lacrime bussare alla loro porta. Deglutii, decisa come non mai a non piangere ancora. «Mi dispiace, sono ancora solo un’umana» provai a scherzare debolmente, ma la voce mi uscì roca e spezzata. Abbassai le palpebre stanche e provai sollievo.

Mi sentii sollevare e appoggiai la testa sul petto di Edward.

«Non dovrebbe essere nulla di grave, ma se non ti senti bene non esitare a chiamarmi» disse la voce di Carlisle.

Mi decisi a tenere le palpebre chiuse, preoccupata di mostrare nei miei occhi tutta la mia debolezza. Sentivo nella stanza un innaturale silenzio.

«Su ragazzi, non fate quelle facce, Bella sta bene».

Sorrisi debolmente alle parole di Carlisle, e sperai che addormentarsi sarebbe davvero stato facile.

 

   
 
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