«Edward?» lo
chiamò dall’altro lato della porta la
voce di Carlisle.
Lui,
con un’espressione
seria e preoccupata mi fece alzare e mi aiutò a sciacquarmi
il volto.
«Bella, Carlisle ti
dovrebbe rifare le medicazioni
alle braccia» disse poi «te la senti?» mi
chiese scrutandomi.
Io annuii, nascondendo il volto sul
suo petto.
Non sembrava ancora convinto, ma
dopo un po’ sospirò,
guidandomi fuori dalla stanza. Ad attenderci oltre la porta
c’era Carlisle, con
un’espressione serena sul volto. «Venite, per di
qua» disse facendoci strada. Carlisle
era la persona con cui avevo interagito di più, dopo Edward
e Rosalie, in
quelle ultime due settimane. Sentivo che mi voleva bene come un padre,
ma il
nostro rapporto ultimamente era stato molto più medico che
familiare e questo
mi agitava un poco.
Varcammo la porta della stanza che
doveva essere
quella di Carlisle e Esme.
Un’atmosfera di quiete e
pace regnava incontrastata. Era come se quella stanza fosse il nucleo
di tutta
la casa, e irradiasse segnali positivi nel giro di chilometri.
«Siediti qui»
mi disse Carlisle, indicandomi una sedia
imbottita posta dinanzi ad una scrivania.
Feci come diceva, senza mai
staccare la presa dalla
mano di Edward, che stava dritto accanto a me.
Carlisle si sedette con una sedia
di fronte alla mia,
prese la sua borsa e accese un’intesa luce da lettura.
Titubante tolsi la mia mano da
quella di Edward, che
poggiò entrambe le sue mani sulle mie spalle, infondendomi
coraggio. Tesi le
braccia in avanti, verso Carlisle.
Lui fece un sorriso rassicurante e
cominciò a
sciogliere le bande con gesti veloci ed automatici, stando attento a
non
toccarmi mai.
Quando concluse la sua opera rimasi
senza fiato. L’avambraccio
era coperto da escoriazioni rosse e pulsanti. In alcuni punti, le
ferite
frastagliate e irregolari, sovrapponendosi, formavano dei solchi
più profondi,
chiusi da piccoli gruppi di uno o due punti. Deglutii, distogliendo lo
sguardo.
Ero stata io a farmi tutto quello.
Appoggiai la testa
all’indietro, contro Edward. Poco dopo sentii il fiato freddo
sul mio collo e
capii che si era abbassato alla mia stessa altezza.
«Mi dispiace»
sussurrai mesta, pensando al dolore che
dovevo avergli causato.
Lui mi accarezzò una
guancia. «Dispiace a me di non
averti fermato prima».
«Non avresti
potuto» sussurrai soltanto, ripensando
alla prigionia mentale che sentivo in quel momento. Il desiderio di
cancellare
quel tocco dalla mia pelle… Trasalii allo sfioramento di
Carlisle.
Si bloccò, e attese che
mi rilassassi e che gli dessi
il mio consenso prima di ricominciare. Sbendò anche
l’altro braccio, in
condizioni leggermente migliori rispetto al sinistro. Carlisle
esaminò le
ferite con lo sguardo. «Dovresti controllare se posso
togliere questi punti»
disse rivolto a Edward, indicandoli, «e anche
questi».
Distolsi lo sguardo, agitata.
Carlisle era fresco.
Come Rosalie. Come Edward. Come Alice. Mi feci coraggio, e presi la sua
mano
fredda fra le mie.
Lui sollevò lo sguardo
dalle mie braccia, sorpreso.
«Fallo tu»
sussurrai, lo sguardo basso.
Lui mi sorrise, mite. «Va
bene».
Mi controllò le suture e
tolse alcuni punti, poi fece
nuovamente il bendaggio. Mi strinsi al petto le braccia, più
leggere e pulite
di prima. «Grazie. Per tutto. Lo so che non è
stato facile. Che non ti ho reso
facile il compito, in questi giorni» farfugliai contrita.
«Apprezzo che tu me lo
dica, Bella, ma non mi devi
ringraziare. La tua famiglia è qui, e lo sarà
sempre quando ne avrai bisogno».
Edward mi posò una mano
sulla spalla. Mi sorrise,
rassicurante. «Diglielo».
Annuii. «Ho bisogno di
parlare con tutti voi».
Carlisle sorrise, mentre finiva di
sistemare le cose
nella borsa. «Riunione di famiglia. Andiamo».
Presi la mano di Edward e mi
strinsi a lui,
lasciandomi guidare verso il soggiorno. Lì tutti ci
aspettavano seduti, in
nostra attesa. Ci sedemmo sul divano bianco, di fronte a loro. Strinsi
con più
forza la presa sulle sue dita.
«Io e Bella dovremmo
discutere di qualcosa di
importante con tutti voi» cominciò Edward.
Chiusi e aprii le mani, poi mi feci
coraggio. «La mia
trasformazione» conclusi io.
Non notai una particolare reazione
nei loro volti. Se
lo aspettavano.
«Io vorrei
aspettare» disse Edward, rivolgendosi a me.
«Dopo tutto quello che è successo mi sembra giusto
aspettare».
«Sono
d’accordo» disse Carlisle, spiazzandomi. Mi fece
un sorriso mesto. «La trasformazione è qualcosa
che cristallizza il nostro
essere. Una volta trasformata i cambiamenti saranno quasi impossibili,
sarebbe
meglio che tu ti riprenda prima» mi spiegò,
esponendomi la sua teoria.
Abbassai il capo. Ormai
ero già dannata pensai,
ma non lo dissi. Avevo ucciso un essere umano, trasformarmi in un
essere
dannato non avrebbe cambiato le cose. Questo evento aveva cambiato la
mia prospettiva
sulle parole di Edward, su quanto tenessi alla salvezza della mia
anima. Potevo
ancora recuperare?
«Tu hai detto…
Fra quanto smetterò di prendere i
farmaci?» domandai flebile ad Alice.
I suoi occhi si assentarono solo un
attimo. «Non
passerà molto. Meno di un mese».
Sentii Edward irrigidirsi. Lo vidi
scambiare uno
sguardo d’incomprensione con il padre. Gli pareva troppo
poco, lo sapevo.
Pareva troppo poco anche a me, adesso che me ne sentivo così
dipendente.
«Non vedi
altro?» domandai speranzosa.
Scosse lentamente il capo, con un
sorriso mesto. «È la
tua decisione».
Mi guardai le mani, insicura. Le
braccia bendate, la
pelle che si sarebbe rimarginata e le ferite che non sarebbero mai
guarite. Sollevai
di nuovo il volto. «Due mesi» dissi decisa. Mi
voltai verso Edward «fra due
mesi mi trasformerai».
«Prima succede meglio
è per me» fece Emmett, deciso.
«Bella, tesoro, pensi di
potercela fare?» mi chiese Esme.
Deglutii. «Penso che ci
sono cose che non guariranno
mai» sussurrai con un filo di voce.
«Possiamo vedere come va
fra due mesi e discuterne
nuovamente» fece Jasper.
Mi voltai verso Rosalie.
«Noi ne abbiamo già parlato»
fece lei con un sorriso mesto «è ancora il tuo
desiderio?» domandò, incerta
della sua stessa domanda.
«Anche se dovessi essere
triste per l’eternità»
sussurrai, avvicinando la mia mano a stringere quella di Edward
«preferisco una
lunga eternità triste con lui, che una breve vita meno
triste senza di lui».
Carlisle mi guardò
intensamente. «C’è sempre la
possibilità di essere perdonati» mi disse dopo un
lunghissimo silenzio. «Non
farlo se pensi che ormai sia la tua unica scelta».
«Non lo
è?».
«No» mi disse
Edward lentamente, guardandomi con
estrema serietà.
Sospirai. «Anche se non
lo fosse, la mia idea non
cambierebbe. L’avevo già scelto prima».
I suoi occhi così scuri
rimasero fermi, come solo un
vampiro può fare. «Jasper ha ragione. Riparliamone
fra due mesi. Non sappiamo
cosa ci spingerà a sospendere la terapia così
presto, è possibile che starai
meglio, oppure…».
«Oppure?».
«Non lo so. Possiamo
riparlarne fra due mesi?» mi
domandò, chiedendomi implicitamente se mi fidassi ancora di
lui.
Mi arresi e decisi di fidarmi.
Mi abbracciò, stretta,
come per ringraziarmi.
«C’è
qualcos’altro di cui dovremmo discutere»
iniziò
cautamente Jasper.
Edward
s’irrigidì un poco.
«Non…» iniziò, ma fu
interrotto da Emmett.
«Gli umani. Dobbiamo
parlarne» fece Emmett,
richiamando l’attenzione su di sé.
«Gli umani?»
domandai agitata, liberandomi dalla presa
di mio marito.
«Sì, gli
umani» disse, alzandosi in piedi in tutta la
sua tonante statura. «L’ispettore Swan, tua madre,
tutta Forks».
«In che senso?»
chiesi allarmata.
Sentii un ringhio cupo nascere dal
petto di Edward.
Emmett sollevò un
sopracciglio, e poi esasperato le
braccia al cielo «Deve saperlo!».
«Alice non ha detto che
sarebbe andato così tanto
bene da poterglielo dire» sbraitò, infuriato.
Gli occhi della piccola veggente si
allontanarono, mentre
aveva un'altra piccola visione.
«Edward…» mormorò, alzandosi
in piedi, lo
sguardo perso. «Non ti agitare, peggiorerai le cose»
«Cosa devo sapere? Dirmi
cosa? Cosa c’è che non posso
sapere?» chiesi agitata, voltandomi verso Edward. Il suo
sguardo avrebbe
incenerito Emmett, e sentivo che si stava trattenendo, probabilmente a
causa
della visione di Alice.
Tutti gli altri ci fissavano
attenti, l’aria carica di
tensione.
«Edward?!»
chiesi ancora, il tono di voce lievemente
isterico.
Lui sospirò,
abbandonando la sua maschera truce, ma
non mi rispose.
«Bella» mi
chiamò Carlisle.
Mi voltai immediatamente verso di
lui.
«Ci sono stati alcuni
problemi» cominciò a spiegarmi.
«Il tuo rapimento è avvenuto in un locale pubblico
e con dei testimoni. Quindi
non abbiamo potuto nascondere nulla alla polizia, ancor più
perché la donna che
ha assistito alla scena ha identificato Jacob. Anche la polizia ha
condotto
delle ricerche e ormai la questione è di dominio
pubblico».
Sospirai, abbassando lo sguardo
verso il basso,
colpita. C’era un’importantissima domanda che
andava posta. «Come» deglutii,
risollevando lo sguardo «cosa avete detto?» chiesi.
Carlisle intuì quello
che volevo sapere. «Loro sanno
che Jacob è scappato dopo aver ottenuto il riscatto che
aveva chiesto».
Mi tranquillizzai lievemente.
«Mio padre?» chiesi con
voce tremante.
«Anche lui»
disse Carlisle, rassicurandomi.
Feci un sospiro di sollievo,
lasciandomi andare con la
schiena contro la spalliera del divano e chiudendo gli occhi.
«E i licantropi?»
chiesi riaprendo gli occhi, preoccupata.
Questa volta fu Jasper a
rispondermi. «Loro sanno
tutto».
Chiusi e riaprii molto lentamente
gli occhi.
«Era l’unico
modo» continuò risoluto «è
stata un’idea
mia e me ne assumo le responsabilità, se te la devi prendere
con qualcuno
prenditela con me. Ma se gli avessimo detto che fosse stato uno di noi
a
ucciderlo, anziché te, il patto sarebbe stato considerato
rotto. Invece così è
stata solo legittima difesa. Lo so che è doloroso per te, ma
ti ripeto è stata
solo è unicamente una mia decisione».
Alzai un braccio. «Va
bene. Ti capisco» presi un
grosso respiro. Solo in quel momento stavo realizzando che se fosse
stato
Edward a ucciderlo al posto mio, si sarebbe scatenata una sanguinosa
guerra. Presi
un respiro più profondo. Non capivo come, ma questo mi
faceva sentire solo un
po’ meglio.
«Come l’hanno
presa? Billy?» chiesi ancora.
«Non è facile,
Bella. Billy è stato ripudiato» rispose
Esme con dolore
«ha detto che non era più suo figlio,
ma un figlio ti rimane per sempre dentro, non importa cosa faccia o se
sia vico
o morto. Soffre
molto, per lui e per
quello che ti ha fatto. Come tutti noi vorrebbe che tutto questo non
fosse mai
accaduto».
Poggiai schiena sul petto di
Edward, che mi strinse da
dietro con le braccia. «Stai bene?» mi chiese in un
sussurro, avvicinando la
bocca al mio orecchio.
Avevo ancora la nausea, ma avevo
deciso di non
pensarci. Strofinai una mano sul suo braccio freddo.
«Sì» mormorai, lasciando
andare il capo contro la sua spalla.
«Stanca?» mi
chiese Rose venendomi accanto e
accarezzandomi i capelli.
«Sì»
sussurrai ancora. Ero così intontita e stremata.
È stata una giornata
lunga» disse Edward, prendendomi
fra le braccia e sollevandosi in piedi «ti porto qualcosa da
mangiare in
camera, riposati un po’».
Appoggiai la testa sul suo petto,
salutando con una
mano il resto della famiglia, che ricambiarono al mio saluto con dei
sorrisi e
delle parole cortesi. Sbadigliai ancora e mi portai la mano alla bocca.
Mangiai la mia cena in camera,
insieme a Edward.
«Finito» dissi,
sperando di farlo felice. Ero riuscita
a mangiare un intero piatto di carne.
«Brava» disse
Edward contento prendendolo dalle mie
mani. «Vuoi la frutta?».
Feci una smorfia. Sapevo che non
potevo spingermi
troppo oltre, se non volevo che finisse come il pranzo. «No,
mi dispiace».
«Come vuoi, non ti
preoccupare» mi rassicurò con un
sorriso.
«Bella» mi
chiamò Rose dal bagno «ti ho preparato il
pigiama».
Mi sollevai dal letto, sorridendo.
Accidentalmente,
l’orlo del vestito si sollevò più del
previsto, fino a mostrare buona parte
della coscia. Mi irrigidii totalmente, voltandomi verso Edward.
Era immobile. Fissava i graffi con
un’espressione
dolorosa in volto. Non dissi nulla e non mi mossi. Eravamo entrambi
immobili.
«Bella, tutto
ben…» Rosalie si interruppe, capendo
quello che era successo.
In fretta riabbassai la stoffa,
arrossendo e
abbassando lo sguardo. Non volevo che lui soffrisse. Passarono alcuni
istanti
di interminabile silenzio. Nessuno si era mosso.
Poi sentii delle braccia fredde
intorno alle spalle.
«Mi dispiace tanto Bella» disse Edward
abbracciandomi.
Risposi al suo abbraccio.
«L’ho detto» mormorai a fior
di labbra «ci sono ferite che guariranno. Altre no. Per
fortuna queste sono fra
quelle che guariranno».
«Guariranno
tutte» mi promise, mettendo una sua mano
fredda sulla mia «ti aiuterò io».
Quella notte dormii accanto a
Edward, abbracciata a
lui. Non mi impedì di avere degli incubi e di svegliarmi
sudata e urlante. Ma
almeno, quando mi svegliai, avevo ad accogliermi le fredde braccia di
mio
marito.
Quando fui sveglia e lucida gli
sorrisi, debolmente.
«Ehi».
«Ehi» fece lui,
mettendomi un dito sulla punta del
naso. «Sai che giorno è oggi?».
Sgranai gli occhi. Mi sentivo come
un’alunna che non è
preparata per l’interrogazione.
Edward rise della mia espressione.
«Oggi è il 13
Settembre, sciocchina, tanti auguri!».
Mi portai una mano alla testa,
disorientata. Un altro
compleanno. «Accidenti, diciannove anni».
Rise della mia espressione.
«Quando arriverai a 105 mi
dirai cosa si prova».
Sorrisi, e mi stupii di poter
essere divertita. Mi
accoccolai fra le sue braccia, rassicurata dal freddo del suo corpo.
Volsi lo
sguardo verso l’ampia vetrata, titubante.
«Com’è il tempo oggi?».
«Freddissimo»
disse Edward con un sorriso.
Lo guardai, facendomi coraggio.
Dopotutto, il giorno
precedente non era andata troppo male.
«Bene» dissi, sollevandomi
malamente in piedi. Andai a spalancare la finestra e inspirare a pieni
polmoni
l’aria ghiacciata che mi pungeva la pelle.
«Perfetto» ribadii, rabbrividendo.
«Bella» mi
chiamò Edward incerto «fa davvero molto
freddo, ti verrà un malore, ti sei appena ripresa».
Mi voltai, e sorrisi debolmente di
lui. «Un malore»
dissi scherzosa imitando la
sua voce, ma lasciai che chiudesse le imposte.
«Ti prendi gioco di
me!?» disse lui fingendosi
scandalizzato e ridacchiando insieme a me. Poi cambiò
espressione. «Amore» mi
chiamò, sistemandomi una ciocca di capelli dietro
l’orecchio. «Ecco… Alice si
chiedeva se poteva parlarti» poi si avvicinò con
la bocca al mio orecchio,
sussurrando a bassa voce «Non te la prendere con lei, non
voglio che tu faccia
qualcosa forzatamente, ma valuta la sua proposta, ne sarebbe molto
felice».
Capii che aveva a che fare con il mio compleanno. «Ti
assicuro che si è contenuta
tantissimo, non è nulla di che».
Sospirai, chiudendo gli occhi. Non
ero in vena di
affrontare una festa di compleanno, ma Edward aveva ragione. Alice
aveva
sofferto tanto a causa mia e meritava una piccola felicità.
E poi ero sicura
che anche tutti gli altri ne sarebbero stati contenti.
«Lasciami prima prendere
i miei psicofarmaci» dissi infine, con solo una punta di
scherzo nella voce.
Edward mi sorrise, passandomi la
boccetta dal comodino.
Appena ebbi finito di ingoiare la
compressa sentimmo
bussare, e la porta si aprì dolcemente, lasciando passare
Alice e Rosalie. Avrei
preferito che i calmanti iniziassero a fare effetto prima di parlare
con
qualcuno che non fosse Edward. Mi feci coraggio. Alice mi porse una
scatola
bianca rettangolare, poggiandola sul letto. Muoveva nervosamente una
mano
contro l’altra. «È… non
è nulla di che… non devi metterlo per
forza… solo se ti
va» disse balbettando.
Annuii, sforzandomi di sorridere.
Ci stavo provando,
davvero, a far tornare ogni cosa come prima. Mi andai a sedere sul
letto e faci
cenno a lei di sedersi accanto a me. Mi misi la scatola in grembo e
l’aprii.
C’era un vestito color avorio, di una stoffa con dei motivi a
rilievo e con
delle impunture color cioccolato. Per un attimo nella mente si
proiettò
l’immagine di Jacob e dei vestiti che aveva rubato a casa di
mio padre. Scossi
il capo e mandai giù l’ondata di nausea che mi
aveva investito. «È molto
carino» dissi infine «lo metterò di
sicuro».
Lei sorrise, speranzosa. Poi
tornò titubante e
impaziente. «Posso darti gli auguri?».
Annuii. «Sì,
va bene» e mi feci abbracciare da lei.
Poi me li feci dare anche da
Rosalie. «Auguri Bella»
mi disse con un sorriso. «Cosa vuoi fare oggi?».
«Io avrei
un’idea» risposi incerta, guardando di
sottecchi Edward.
Annuì con un sorriso.
Circa un’ora dopo, mi
ritrovavo a fare una passeggiata
nell’enorme giardino dei Cullen,
con il mio nuovo
vestito e in compagnia di Edward.
«Come stai?».
Mi voltai verso di lui con un
sorriso. Non pensavo
davvero che fosse possibile, ma mi sentivo piuttosto bene. Davvero,
tanto che
avevo paura che da un momento all’altro sarebbe successo
qualcosa e che quel
momento di pace sarebbe finito. Avevo freddo, e il freddo passava sotto
il
soprabito che mi avevano fatto indossare, mi arrivava al cuore e mi
placava.
Non avevo neppure la nausea quel giorno. Mi strinsi al suo braccio,
beandomi
maggiormente della sua temperatura. Rabbrividii.
«Ricorda, non vogliamo
che ti ammali» mi riprese
Edward, mettendomi in spalla il suo giaccone.
Sospirai. «Va
bene».
Rimanemmo fuori a girovagare per
non so quanto tempo. Niente
che non potessi controllare, ogni cosa che facevamo da quando avevo
iniziato a
riprendermi era pensata e misurata. Poi ci fermammo per fare un piccolo
pic-nic,
solo io e lui. Continuavo a controllare il giardino, in tutto il suo
perimetro
e fino al limitare del bosco. Lì si perdeva il mio sguardo,
spaventato di cosa
ci potesse essere dietro agli alberi. Mi ero fatto rassicurare
più e più volte
da Edward che non avvertiva alcun pensiero a distanza di un chilometro,
oltre e
quelli della sua famiglia.
C’era ancora
così tanta strada da fare. Mi bastava
chiudere gli occhi per vedere i suoi occhi sgranati e sentire
vividissime le
mie urla. Tentavo di non pensarci. Tentavo di pensare a Edward che era
accanto
a me, tentavo di pensare al suo corpo freddo, e tentavo di pensare che
quello
che avevo fatto era veramente servito a qualcosa e che era stato un
gesto
necessario. Purtroppo però non c’era verso di
pensarla allo stesso modo per
quello che lui aveva fatto a me.
«Amore» mi
chiamò Edward preoccupato. «Piangi?».
Senza dire nulla mi sollevai dalla
tovaglia e andai a
mettermi fra le sue braccia, asciugandomi le lacrime. Nuove immagini
terribili
cominciarono ad affiorare nella mia testa, e ringraziai il cielo che
Edward non
potesse leggere nella mia mente. Non riuscivo a calmarmi,
l’ansia cresceva
sempre di più, a io non volevo piangere di nuovo. Sentivo
ogni tanto il bisogno
di impormi un respiro forzato, come se ci fosse qualcosa a comprimermi
i
polmoni o come se avessi paura di non riuscire a respirare. Odiavo
così tanto
quel momento che sembrava stesse rovinando quel giorno finalmente
perfetto.
«Edward. T-ti
prego» biascicai querula, desolata che
la mia tranquillità per quel giorno iniziato così
bene fosse finita così in
fretta «Ho bisogno di calmarmi» farfugliai, e
sapeva cosa stessi cercando.
Mi fissò con attenzione.
«Non è passato molto tempo
dalla prima compressa».
Singhiozzai, portandomi una mano al
collo. Eccola, di
nuovo, la sensazione di non riuscire a respirare. «Non ci
riesco».
Esitò. Poi estrasse
dalla tasca del suo giaccone,
posato sulle mie spalle, il flaconcino con i farmaci. Mise sul palmo
della sua
mano l’ultima compressa che rimaneva, poi mi porse una
bottiglietta d’acqua.
La ingoiai in un sorso,
rimettendomi fra le sue
braccia lasciandomi cullare. Bastarono pochi minuti, e mi calmai.
«Scusa» farfugliai,
la bocca già più impastata «stava
andando così bene».
Lui mi strinse a sé,
coprendomi con il suo giaccone. «Non
so veramente come Alice…» mormorò,
guardando in lontananza. Scrollò le spalle.
«Non ti preoccupare, chiederemo a Carlisle
com’è meglio comportarci e vedremo come
aggiustare la terapia».
Qualche minuto dopo Alice e Rosalie
ci raggiunsero.
Alice si morse il labbro, incerta.
«C’è una torta di
là, e anche gli altri vorrebbero darti gli auguri, cosa ne
pensi?».
«Andiamo» dissi
con un debolissimo sorriso a Edward.
Entrammo insieme a casa, ma lui mi
teneva su per i
gomiti, come se avessi paura che cadessi. Mi sentivo intontita. Edward
si
riprese il giaccone prima che potessi lamentarmi per il caldo, e lo
appese
all’appendiabiti nell’ingresso. Poi entrammo in
salotto.
«Auguri
Bellina!» esclamò Emmett stritolandomi nella
sua presa.
Tutti s’irrigidirono,
preoccupati per una mia reazione,
ma io, complice la mia doppia dose giornaliera, mi rilassai fra le sue
braccia,
ricambiando il suo affetto con una breve risatina fiacca. Mi sentivo
già meglio
e l’intorpidimento stava scemando, lasciando il posto ad una
innaturale quiete.
Anche gli altri mi fecero gli auguri. Jasper si tenne a distanza.
Probabilmente
in altre occasioni l’avrebbe fatto anche lui, ma i suoi occhi
erano scurissimi,
come quelli del resto della famiglia.
Fu una bella serata, e i miei
incubi non riuscirono a
rovinarla. Soffiai sulle candeline per spegnerle - tutte e diciannove -
e
desiderai che la mia vita potesse tornare felice come lo era stata un
giorno.
Fortunatamente, a parte Alice, nessuno mi aveva fatto regali. Rosalie
accese la
musica e si mise a ballare con Emmett. Erano davvero stupendi insieme.
Quando
finirono sorridevo contenta e mi voltai verso Edward. Era molto felice.
Eravamo
entrambi di nuovo pieni di speranza per il futuro.
Anche tutti gli altri andarono a
ballare, e io mi feci
trascinare da Edward. Ballare.
Chi
avrebbe mai pensato che sarei tornata a ballare, calma e serena fra le
braccia
di mio marito?
Dopo un po’ mi dichiarai
esausta, e mi andai a sedere
sul divano. Edward continuò a ballare con Esme,
mentre le altre coppie ancora volteggiavano per il salone. Carlisle
venne a
sedersi accanto a me.
Mi sporsi verso di lui, facendogli
segno di
avvicinarsi. «Dobbiamo parlare» sussurrai ad un suo
orecchio, a voce bassissima
«della caccia» aggiunsi.
Lui si ritirò sullo
schienale e mi fece l’occhiolino.
«Champagne!»
esclamarono Alice e Rosalie portando il
secchiello con il ghiaccio.
«Cioè
praticamente solo per me» esclamai incerta «non
ne vale la pena».
Vidi Edward lanciare
un’occhiata a Carlisle e muovere
velocemente le labbra. Lui fece un piccolo sorriso e un cenno
affermativo.
Bevvi appena un sorso di champagne,
ma il resto non
andò sprecato. Emmett e Jasper fecero una scommessa: chi
riusciva a berne di
più.
«Ma non gli
farà male?» chiesi a Edward.
Lui fece spallucce. «Non
credo, ma io non berrei
comunque quella roba, ha un odore orrendo…».
Poco dopo Emmett, che aveva vinto
contro Jasper, venne
e reclamarmi per ballare. Fu molto più divertente - anche se
meno romantico -
che ballare con Edward, dato che mi strapazzava come un peluche
facendomi
volteggiare per aria.
La festicciola procedeva bene. Ero
contenta, anche se
un po’ stanca.
«Andiamo a prendere i
puzzle?» propose Alice,
euforica.
«Sì! Facciamo
gara di puzzle!» esclamò contento
Emmett.
«Per te va bene
Bella?» mi chiese Edward, speranzoso
ma preoccupato di tirare un po’ troppo la corda per quella
sera.
Era così bello potermi
sentire di nuovo anche solo un
po’ normale. Volevo solo distrarmi. E poi sapevo che tutti ne
sarebbero stati
contenti. Annuii.
Alice e Rosalie presero quattro
scatole di puzzle da
mille miliardi di pezzi. C’era da aspettarselo da dei
vampiri. Sotto loro
esortazione andai a scegliere il disegno che più preferivo,
lasciando Edward
seduto sull’ultimo gradino delle scale.
Mentre stavo andando verso il
tavolo del salotto alle
mie spalle tuonò il vocione di Emmett. «Ehi
Bellina, non vorrai mica stare in
squadra con Edward vero? Non preferisci il tuo fratellone?».
Mi voltai per ribattere, ma
nonostante mi fossi
fermata, sentii a testa continuare a girare. Travolta
dall’improvvisa ondata di
vertigini sentii le gambe cedere e la vista offuscarsi. Poco prima di
toccare
il pavimento sentii delle braccia fredde afferrarmi.
Avevo una completa percezione delle
voci di chi mi
stava intorno, e che mi chiamavano, e anche delle braccia che mi
stringevano il
busto mentre ero stesa sul pavimento.
«Bella, mi
senti?» chiese Carlisle.
Sentii dei colpetti freddi sul
volto. Sbattei le
palpebre velocemente, aprendo gli occhi. Aspettai che
l’immagine sdoppiata di
Carlisle, e di tutta la famiglia alle sue spalle, diventasse una sola.
La
confusione si diradò velocemente. Ero fra le braccia di
Edward, che mi guardava
preoccupato. Mi sollevai con il busto.
Carlisle mi mise le mani sulle
spalle, costringendomi
a rimettermi stesa. «Stai giù» mi
ordinò. Esme
mi
teneva le gambe sollevate.
«Io…»
balbettai «non so cosa è successo…
è stato… solo
un forte capogiro…» dissi portandomi una mano alla
testa.
Edward mi mise una mano sulla
fronte, cancellandomi il
sudore e lasciandomi un bacio.
Tutti mi guardavano
dall’alto, preoccupati. Le loro
immagini incombevano su di me. Mi sentivo soffocare. Ansimai lievemente.
«Ragazzi, state
indietro» disse Carlisle intuendo i
miei pensieri. Prese il mio polso fra le dita, con delicatezza. Poi mi
passò
una mano sulla fronte e sotto la gola.
«Ha la pressione un
po’bassa» disse infine. «È
successo
tutto in un istante o ti sentivi male già prima?».
«No» farfugliai
«è stato quando mi sono voltata».
Lui mi osservò
attentamente. «Non è il caso di
preoccuparsi più del necessario, è stato solo un
lieve mancamento».
Io chiusi gli occhi, stringendomi a
Edward e gemendo
piano. Era ritornata la nausea. «Sarà stato lo
champagne» mormorai poi
debolmente, riaprendo gli occhi con un debolissimo sorriso.
Carlisle mi sorrise e mi fece una
carezza. «Ti gira
ancora la testa?».
Scossi il capo. «Ho un
vago senso di vertigini» chiusi
gli occhi.
Mi sentii sollevare da Edward.
«Ti porto in camera a
riposare».
Aprii le palpebre, allarmata.
«Ma… i puzzle»
balbettai, guardando rapidamente gli altri. Erano incerti e preoccupati
e
sviavano il mio sguardo.
«Amore» mi
ghermì delicatamente Edward, catturando la
mia attenzione «è stata una lunga giornata e sei
tanto debole. Non è colpa tua»
aggiunse, a beneficio del mio labbro tremante e del senso di colpa che
mi si
leggeva in faccia «sarebbe stato molto molto faticoso per
qualunque umano. E
poi» aggiunse, misurando le parole per paura di turbarmi
«c’è stata la doppia
dose di calmanti. Possiamo fare i puzzle domani se ti va».
Sentii gli occhi inumidirsi e le
lacrime bussare alla
loro porta. Deglutii, decisa come non mai a non piangere ancora.
«Mi dispiace,
sono ancora solo un’umana» provai a scherzare
debolmente, ma la voce mi uscì
roca e spezzata. Abbassai le palpebre stanche e provai sollievo.
Mi sentii sollevare e appoggiai la
testa sul petto di
Edward.
«Non dovrebbe essere
nulla di grave, ma se non ti
senti bene non esitare a chiamarmi» disse la voce di Carlisle.
Mi decisi a tenere le palpebre
chiuse, preoccupata di
mostrare nei miei occhi tutta la mia debolezza. Sentivo nella stanza un
innaturale silenzio.
«Su ragazzi, non fate
quelle facce, Bella sta bene».
Sorrisi debolmente alle parole di
Carlisle, e sperai
che addormentarsi sarebbe davvero stato facile.