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Autore: sese87    17/11/2020    5 recensioni
Tokyo, Giappone. Bulma e Vegeta si incontrano in una giornata di pioggia. Inizieranno una relazione proibita tra studente e professore?
Storia liberamente ispirata a "Il Giardino Delle Parole" di Makoto Shinkai.
Genere: Malinconico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Bulma, Vegeta | Coppie: Bulma/Vegeta
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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GdP4

Il Giardino Delle Parole

Capitolo 4 


Chiare cascate:
Tra le onde si infilano verdi
Gli aghi dei pini.

- Matsuo Basho -


In quei pomeriggi pallidi e afosi, Bulma aveva aspettato la pioggia.
Aveva aspettato la pioggia sotto il pergolato. L’aveva aspettata seduta sull’erba e l’aveva chiamata nei pomeriggi brumosi. Quando la brina del mattino rassicurava quella speranza, prima di essere asciugata dal sole. Quando le serrande dei negozi la svegliavano e lei si chiedeva se quel giorno avesse piovuto.
Aspettava la pioggia da quando Vegeta giocava con il suo intelletto e lo vedeva tutti i giorni, senza che lui volesse essere guardato.
Bulma aveva aspettato la pioggia perché era una ragazza romantica e perché Vegeta doveva averla aspettata con lei.

Doveva
averglielo letto negli occhi!
Così Bulma smise di aspettare la pioggia e iniziò a correre sotto di essa, schiaffeggiando la strada con le sue scarpette di tela rosse. Era, lei sì, in diritto della propria rabbia. E mentre la pioggia sgocciolava lentamente sulla sua maglietta bianca, chiazzandola, Bulma pensava a Vegeta e a se stessa. E quando l’acquazzone improvviso la colse, il suo cuore perse una nota. Sdrucciolò sulla breccia e si rialzò. Riprese a correre, sotto la volta di foglie del lungo viale d’ingresso. Lo zaino le ballonzolava sulle spalle smunte.
Vegeta avrebbe risposto anche di questo.
 

L’erba del cortile era sommersa. Il legno chiaro del portico si era scurito e reggeva a stento il gorgogliare del fango sotto le tegole. La melma schizzava contro le sedie di alluminio. Bulma le scompose passando e riprese fiato sotto un quadrato di luce dalla mensa deserta. Le mani sulle ginocchia. La pioggia nei polmoni. Solo allora si rese conto di non aver considerato dove stesse andando. Ma la finestra illuminata dello studio di Vegeta la chiamò attraverso la nebbia.
Così Bulma varcò la soglia della mensa.
L’aria calda dell’interno le respirò sulle guance arrossate. Il pavimento come ghiaccio sotto le suole.
 

Mentre Bulma saliva al piano professori, le finestre tingevano l’ambiente di nuvole grigie. La moquette scura assorbiva l’acqua delle sue scarpette zuppe. C’erano pochi studenti in quell’ala.
Lo studio di Vegeta era in fondo, l’unico con la luce ancora accesa. La porta era aperta. Il silenzio sussurrava il suo tramestio.
Bulma sorrise, ma senza dimenticare la propria rabbia. Non bussò. E trovò la voglia di parlargli: Vegeta non c’era; la finestra semichiusa sfogliava gli angoli del diario accademico appeso al muro. Le tende si infrangevano nel vuoto. Lo zaino di Vegeta, però, era ancora accanto alla scrivania. Bulma lasciò il proprio lì accanto: la scusa per ritornare.
 

L’istruzione era un percorso duro in Giappone, un dovere più che un diritto. C’erano scuole di ogni tipo, dalla scuola di danza alla scuola per essere ammessi a scuola. All’università si accedeva per merito, riuscirci diventava un lavoro. I voti dovevano essere alti; il sangue versato sui libri era combustibile per bruciare le tappe.
Le scorciatoie non piacevano. Forse una questione d’onore.
Tuttavia, lamentarsi delle proprie gioie disattese era per Bulma questione assai più importante.
Era stato inutile aspettare la pioggia.
Così, alle diciannove e venticinque, decise che qualcuno avrebbe dovuto pagarla.
Spalancò le porte dell’aula e sotto la sua ombra sparì quel punto che, sulla diapositiva, Vegeta indicava.
L’attenzione degli studenti annoiati si schiuse, mentre lei scendeva le scale dell’anfiteatro. Sulle gambe nude aveva rigagnoli di fango, un ginocchio sbucciato. La maglietta, arricciata nei pantaloncini, mostrava le fragole del suo reggiseno. L’ombelico scoperto. I capelli bagnati erano attaccati alla fronte. Bulma scese al primo banco, vestita di pioggia. Bruciava di rabbia.
A Vegeta, che la guardava instupidito, disse: «Non trovavo l’ombrello.»
 

La maggior parte degli studenti giapponesi finiva in finanza o in qualche dipartimento di “IT”, così si diceva. E non importava la meta, ma come la si fosse raggiunta: chi era stato bravo una volta, lo sarebbe stato per sempre. Bisognava soltanto dimostrarlo, una volta e per sempre.
Letteralmente.

Ai peggiori ben poca scelta.
A questo servivano i voti, personalità e carisma. Le attività extracurricolari avrebbero aggiunto il resto. Una questione di standard. Almeno finché gli studenti dell’ultimo anno non trovavano lavoro. E, una volta trovato, i banchi diventavano allori, nel pulviscolo della mattina o nella luce dei neon: in classe si dormiva, per recuperare il sonno beato perso negli anni. I più intrepidi bisbigliavano scrivendo messaggi. E non importava quante domande venissero loro rivolte: erano sempre distratti. Quindi, per quanto Vegeta considerasse importante la conoscenza che usciva dalla sua voce, per rispetto alla sua intelligenza, sapeva non fossero le sue parole ad interessare tanto i suoi studenti del quarto anno.
Bulma rialzò la mano, «Ho un’altra domanda. È possibile fare una pausa?»
«No.»
«E a che ora finisce la lezione?»
«Alle venti e quarantacinque.»
«Devo aspettare ancora così tanto?»
Altri bisbigli e gomitatine nella classe. Vegeta arrossì. «Ci sono altre domande?»
Bulma alzò di nuovo la mano, «Hai fatto un errore di calcolo.»
 

Quando la finestra dello studio di Vegeta restava aperta e lui rientrava, ogni tanto trovava l’odore delle sigarette di Bulma nell’aria. Quelle spire dolciastre, sempre meno fastidiose, salivano fin lì dal cortile, dopo averle riempito la bocca. Dopo essere state nastri tra le sue dita.
Vegeta le respirava.
Seguito da Bulma chiuse la porta del suo studio sbattendola, «Ti sei bevuta il cervello, forse? Come diamine ti è venuto in mente ti presentarti così ad una mia lezione?»
«È colpa tua, mio caro!» Puntellò i gomiti ai fianchi, spuntò il mento all’insù, «Se avessi risposto che avevi una lezione, non sarei tornata indietro sotto la pioggia. Guarda come mi sono ridotta!»
«Non è colpa mia se non hai un ombrello.»
«Questa mattina c’era il sole, perché mai avrei dovuto portarmi un ombrello!»
«Perché è la stagione delle piogge!»
«Non pioveva da giorni, ma che razza di appuntamenti dai!? E dove sono i libri che mi avevi promesso?»
Ancora sulla mensola, da dove Goku avrebbe dovuto prenderli per consegnarli a Bulma quel pomeriggio, Tch.
Anche Vegeta aveva “aspettato la pioggia”, ma le parole di Ginew avevano cambiato tutto. «Sono lì. Prendili e vattene.» Una promessa, era una promessa.
Bulma prese in mano uno dei libri. La ricevuta rosata della libreria di Shibuya scivolò via da una pagina fino a terra. La raccolse. Leggendola si accorse che la data era di quella mattina, «Perché non l’hai detto subito che li stavi ancora cercando?»
Non aveva capito di aver avuto a che fare con una sciroccata! «Non ho avuto modo di dirtelo.» Aveva preferito difendere la propria reputazione.
Le regole a Vegeta erano sempre state un po’ strette. I suoi modi avevano sempre giustificato i suoi fini. Ma non aveva mai conosciuto l’intera storia di Bulma fino a quel giorno. «E tu perché non me l’hai detto che avevi solo diciassette anni?»
«Vuoi dire che non è ovvio, ti sembro più vecchia, forse?!»
Non gli era mai parsa tanto giovane come in quel momento, con i vestiti zuppi e i calzini di spugna infangati. Aveva creduto fosse una donna, truccata come l’aveva vista la prima volta, con la sigaretta, i tacchi alti. «L’avevo dato per scontato, vedendoti all’università.» Adesso, avrebbe dovuto dimenticarla.
«Sono una ragazza precoce. Dovresti saperlo.»
«Lo dici a tutti?»
«A tuo fratello, perché?»
«Beh…comunque adesso i libri li hai, che altro vuoi?»
«Potresti offrirti di riaccompagnarmi a casa.» A quell’ora la strada era pericolosa per una ragazza carina come lei.
«Scordatelo.»
 

Shinjuku non figurava tra i quartieri i più sicuri, nonostante fosse uno dei migliori. Nei primi anni duemila ben centoventi stabilimenti erano stati trovati sotto il controllo della yakuza. Più di mille i membri arrestati, grazie alle razzie della polizia. Tuttavia, il crimine non si era fermato e restava una bizzarra attrazione turistica. Tra le innumerevoli intercapedini urbane potevano nascondersi misteri che ai più stupidi piaceva scovare. I locali, invece, preferivano mantenere un aleatorio senso di giustizia. Molte erano state le donne a capo di bordelli illegali.
Non c’erano stelle a Shinjuku, e sembrava non vi calasse mai la notte, con i suoi bar sempre aperti, la zona a luci rosse e i ristoranti di ramen.
Goku sedeva davanti al portone dell’appartamento di Vegeta. Si alzò in piedi, non appena lo vide uscire dall’ascensore, «Mi dispiace, Vegeta! Ho incontrato Crilin in corridoio e mi sono dimenticato dei libri.» Aveva creduto di aver dimenticato qualcosa quella mattina, ma aveva pensato si trattasse dell’ombrello.
«Risparmiami.»
Ma Goku non si risparmiava mai, «E dai, ti ho portato da mangiare!» Per comprarsi il suo perdono, una scatola di sushi già aperta. «Però aspettandoti mi è venuta fame.»

Tch
, quanto Vegeta rispose.
«E Bulma?» Chiese Goku.
«L’ho appena accompagnata a casa. Non voglio più sentirne parlare.»
«Perché?»
 

 

Continua…

 

Ehilà! Spero che questo capitolo vi sia piaciuto! :D La storia inizia a delinearsi, e cerco di mantenere un certo bilanciamento tra il tono che vorrei questa storia avesse, i dettagli che sarebbe giusto scoprire e la velocità: vorrei che il ritmo delle vicende fosse lento ma non troppo xD Spero quindi di starci riuscendo! 

Pochi collegamenti al manga in questo capitolo, ma non temete, torneranno copiosi! ;)

A presto e un abbraccio forte a tutti! :*

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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