Il Giardino Delle Parole
Capitolo 4
Chiare
cascate:
Tra
le onde si infilano verdi
Gli
aghi dei pini.
- Matsuo Basho -
In
quei pomeriggi pallidi e afosi, Bulma aveva aspettato la pioggia.
Aveva
aspettato la pioggia sotto il pergolato. L’aveva aspettata seduta sull’erba e
l’aveva chiamata nei pomeriggi brumosi. Quando la brina del mattino rassicurava
quella speranza, prima di essere asciugata dal sole. Quando le serrande dei
negozi la svegliavano e lei si chiedeva se quel giorno avesse piovuto.
Aspettava
la pioggia da quando Vegeta giocava con il suo intelletto e lo vedeva tutti i
giorni, senza che lui volesse essere guardato.
Bulma
aveva aspettato la pioggia perché era una ragazza romantica e perché Vegeta
doveva averla aspettata con lei.
Doveva averglielo letto negli occhi!
Così
Bulma smise di aspettare la pioggia e iniziò a correre sotto di essa,
schiaffeggiando la strada con le sue scarpette di tela rosse. Era, lei sì, in
diritto della propria rabbia. E mentre la pioggia sgocciolava lentamente sulla
sua maglietta bianca, chiazzandola, Bulma pensava a Vegeta e a se stessa. E
quando l’acquazzone improvviso la colse, il suo cuore perse una nota.
Sdrucciolò sulla breccia e si rialzò. Riprese a correre, sotto la volta di
foglie del lungo viale d’ingresso. Lo zaino le ballonzolava sulle spalle
smunte.
Vegeta
avrebbe risposto anche di questo.
L’erba
del cortile era sommersa. Il legno chiaro del portico si era scurito e reggeva
a stento il gorgogliare del fango sotto le tegole. La melma schizzava contro le
sedie di alluminio. Bulma le scompose passando e riprese fiato sotto un
quadrato di luce dalla mensa deserta. Le mani sulle ginocchia. La pioggia nei
polmoni. Solo allora si rese conto di non aver considerato dove stesse andando.
Ma la finestra illuminata dello studio di Vegeta la chiamò attraverso la
nebbia.
Così
Bulma varcò la soglia della mensa.
L’aria
calda dell’interno le respirò sulle guance arrossate. Il pavimento come
ghiaccio sotto le suole.
Mentre
Bulma saliva al piano professori, le finestre tingevano l’ambiente di nuvole
grigie. La moquette scura assorbiva l’acqua delle sue scarpette zuppe. C’erano
pochi studenti in quell’ala.
Lo
studio di Vegeta era in fondo, l’unico con la luce ancora accesa. La porta era
aperta. Il silenzio sussurrava il suo tramestio.
Bulma
sorrise, ma senza dimenticare la propria rabbia. Non bussò. E trovò la voglia
di parlargli: Vegeta non c’era; la finestra semichiusa sfogliava gli angoli del
diario accademico appeso al muro. Le tende si infrangevano nel vuoto. Lo zaino
di Vegeta, però, era ancora accanto alla scrivania. Bulma lasciò il proprio lì
accanto: la scusa per ritornare.
L’istruzione
era un percorso duro in Giappone, un dovere più che un diritto. C’erano scuole
di ogni tipo, dalla scuola di danza alla scuola per essere ammessi a scuola.
All’università si accedeva per merito, riuscirci diventava un lavoro. I voti
dovevano essere alti; il sangue versato sui libri era combustibile per bruciare
le tappe.
Le
scorciatoie non piacevano. Forse una questione d’onore.
Tuttavia,
lamentarsi delle proprie gioie disattese era per Bulma questione assai più
importante.
Era
stato inutile aspettare la pioggia.
Così,
alle diciannove e venticinque, decise che qualcuno
avrebbe dovuto pagarla.
Spalancò
le porte dell’aula e sotto la sua ombra sparì quel punto che, sulla
diapositiva, Vegeta indicava.
L’attenzione
degli studenti annoiati si schiuse, mentre lei scendeva le scale
dell’anfiteatro. Sulle gambe nude aveva rigagnoli di fango, un ginocchio
sbucciato. La maglietta, arricciata nei pantaloncini, mostrava le fragole del suo
reggiseno. L’ombelico scoperto. I capelli bagnati erano attaccati alla fronte.
Bulma scese al primo banco, vestita di pioggia. Bruciava di rabbia.
A
Vegeta, che la guardava instupidito, disse: «Non trovavo l’ombrello.»
La
maggior parte degli studenti giapponesi finiva in finanza o in qualche
dipartimento di “IT”, così si diceva. E non importava la meta, ma come la si
fosse raggiunta: chi era stato bravo una volta, lo sarebbe stato per sempre.
Bisognava soltanto dimostrarlo, una volta e per sempre.
Letteralmente.
Ai
peggiori ben poca scelta.
A
questo servivano i voti, personalità e carisma. Le attività extracurricolari
avrebbero aggiunto il resto. Una questione di standard. Almeno finché gli
studenti dell’ultimo anno non trovavano lavoro. E, una volta trovato, i banchi
diventavano allori, nel pulviscolo della mattina o nella luce dei neon: in
classe si dormiva, per recuperare il sonno beato perso negli anni. I più
intrepidi bisbigliavano scrivendo messaggi. E non importava quante domande
venissero loro rivolte: erano sempre distratti. Quindi, per quanto Vegeta
considerasse importante la conoscenza che usciva dalla sua voce, per rispetto
alla sua intelligenza, sapeva non fossero le sue parole ad interessare tanto i
suoi studenti del quarto anno.
Bulma
rialzò la mano, «Ho un’altra domanda. È possibile fare una pausa?»
«No.»
«E
a che ora finisce la lezione?»
«Alle
venti e quarantacinque.»
«Devo
aspettare ancora così tanto?»
Altri
bisbigli e gomitatine nella classe. Vegeta arrossì. «Ci sono altre domande?»
Bulma
alzò di nuovo la mano, «Hai fatto un
errore di calcolo.»
Quando
la finestra dello studio di Vegeta restava aperta e lui rientrava, ogni tanto
trovava l’odore delle sigarette di Bulma nell’aria. Quelle spire dolciastre,
sempre meno fastidiose, salivano fin lì dal cortile, dopo averle riempito la
bocca. Dopo essere state nastri tra le sue dita.
Vegeta
le respirava.
Seguito
da Bulma chiuse la porta del suo studio sbattendola, «Ti sei bevuta il
cervello, forse? Come diamine ti è venuto in mente ti presentarti così ad una mia lezione?»
«È
colpa tua, mio caro!» Puntellò i gomiti ai fianchi, spuntò il mento all’insù, «Se
avessi risposto che avevi una lezione, non sarei tornata indietro sotto la
pioggia. Guarda come mi sono ridotta!»
«Non è colpa mia se non hai un ombrello.»
«Questa
mattina c’era il sole, perché mai avrei dovuto portarmi un ombrello!»
«Perché è la stagione delle piogge!»
«Non
pioveva da giorni, ma che razza di appuntamenti dai!? E dove sono i libri che
mi avevi promesso?»
Ancora
sulla mensola, da dove Goku avrebbe dovuto prenderli per consegnarli a Bulma quel
pomeriggio, Tch.
Anche
Vegeta aveva “aspettato la pioggia”, ma le parole di Ginew avevano cambiato
tutto. «Sono lì. Prendili e vattene.» Una promessa, era una promessa.
Bulma
prese in mano uno dei libri. La ricevuta rosata della libreria di Shibuya scivolò
via da una pagina fino a terra. La raccolse. Leggendola si accorse che la data
era di quella mattina, «Perché non l’hai detto subito che li stavi ancora
cercando?»
Non
aveva capito di aver avuto a che fare con una sciroccata! «Non ho avuto modo di
dirtelo.» Aveva preferito difendere la propria reputazione.
Le
regole a Vegeta erano sempre state un po’ strette. I suoi modi avevano sempre
giustificato i suoi fini. Ma non aveva mai conosciuto l’intera storia di Bulma
fino a quel giorno. «E tu perché non me l’hai detto che avevi solo diciassette
anni?»
«Vuoi
dire che non è ovvio, ti sembro più vecchia, forse?!»
Non
gli era mai parsa tanto giovane come in quel momento, con i vestiti zuppi e i
calzini di spugna infangati. Aveva creduto fosse una donna, truccata come
l’aveva vista la prima volta, con la sigaretta, i tacchi alti. «L’avevo dato
per scontato, vedendoti all’università.» Adesso, avrebbe dovuto dimenticarla.
«Sono
una ragazza precoce. Dovresti saperlo.»
«Lo
dici a tutti?»
«A
tuo fratello, perché?»
«Beh…comunque
adesso i libri li hai, che altro vuoi?»
«Potresti
offrirti di riaccompagnarmi a casa.» A quell’ora la strada era pericolosa per una
ragazza carina come lei.
«Scordatelo.»
Shinjuku
non figurava tra i quartieri i più sicuri, nonostante fosse uno dei migliori.
Nei primi anni duemila ben centoventi stabilimenti erano stati trovati sotto il
controllo della yakuza. Più di mille i membri arrestati, grazie alle razzie
della polizia. Tuttavia, il crimine non si era fermato e restava una bizzarra
attrazione turistica. Tra le innumerevoli intercapedini urbane potevano nascondersi
misteri che ai più stupidi piaceva scovare. I locali, invece, preferivano
mantenere un aleatorio senso di giustizia. Molte erano state le donne a capo di
bordelli illegali.
Non
c’erano stelle a Shinjuku, e sembrava non vi calasse mai la notte, con i suoi
bar sempre aperti, la zona a luci rosse e i ristoranti di ramen.
Goku
sedeva davanti al portone dell’appartamento di Vegeta. Si alzò in piedi, non
appena lo vide uscire dall’ascensore, «Mi dispiace, Vegeta! Ho incontrato
Crilin in corridoio e mi sono dimenticato dei libri.» Aveva creduto di aver
dimenticato qualcosa quella mattina, ma aveva pensato si trattasse dell’ombrello.
«Risparmiami.»
Ma
Goku non si risparmiava mai, «E dai, ti ho portato da mangiare!» Per comprarsi
il suo perdono, una scatola di sushi già aperta. «Però aspettandoti mi è venuta
fame.»
Tch, quanto Vegeta rispose.
«E
Bulma?» Chiese Goku.
«L’ho
appena accompagnata a casa. Non voglio più sentirne parlare.»
«Perché?»
Continua…
Ehilà!
Spero che questo capitolo vi sia piaciuto! :D La storia inizia a delinearsi, e
cerco di mantenere un certo bilanciamento tra il tono che vorrei questa storia
avesse, i dettagli che sarebbe giusto scoprire e la velocità: vorrei che il
ritmo delle vicende fosse lento ma non troppo xD Spero quindi di starci
riuscendo!
Pochi
collegamenti al manga in questo capitolo, ma non temete, torneranno copiosi! ;)
A
presto e un abbraccio forte a tutti! :*
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