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Autore: _deleted    24/11/2020    0 recensioni
Cecilia è prigioniera di una madre delirante e violenta, che l'ha isolata da tutti, facendola crescere nella paranoia. Ma la libertà agognata non è così facile da conquistare e le sfide da superare sono ancora molte. Insormontabili, forse, senza un aiuto al momento giusto.
Storia partecipante al contest “Le note del dramma” indetto da Sabriel_Little Storm sul forum di EFP.
Genere: Angst, Drammatico, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Cinque anni dopo
 
Una città dopo l’altra, un lavoro dopo l’altro, un viso dopo l’altro. Un corpo dopo l’altro: ormai ha avuto amanti in numero sufficiente da poter dire anche questo.
Cecilia sospira e trascina le buste della spesa lungo le scale, entra nel suo bilocale e si accascia sul divano, esausta.
È il suo quarto trasloco in due anni e si è già stufata di vivere lì.
Le pareti si restringono sotto i suoi occhi e le si richiudono addosso, impedendole di respirare, esattamente come quando era a casa con Lei.
Il pensiero di farsi la cena e delle azioni complesse da seguire per mettere un piatto caldo in tavola la scoraggiano.
Cucinare, accendere i fornelli, ripulire tutto.
Forse andrà a letto digiuna. Non può spendere tutti i suoi soldi in cibo da asporto, ha un affitto da pagare.
È stanca dopo otto ore di lavoro, non vuole più uscire. È ancora più stanca di farsi additare appena scende al ristorantino di sotto, la imbarazza mangiare da sola. Ormai la conoscono.
“È la ragazza dell’interno 7. Poverina, sta sempre sola.”
“È gentile, solo che parla poco.”
“Si vedeva con un ragazzo, si sono lasciati il mese scorso. Peccato, sembra tanto dolce.”
 
L’eco degli stessi discorsi la perseguita, anche tra quattro mura. Lei è quella adattabile ma mediocre, lavorativamente efficiente ma senza una vita, destinata a sopravvivere per soddisfare i propri bisogni.
Si chiede se dovrebbe prendere una nuova coinquilina, ma il confinamento durante la pandemia della scorsa primavera insieme a una semisconosciuta, con la quale non andava affatto d’accordo e la assillava perché si “tirasse su”, stampandosi in faccia un sorriso forzato per tutti i mesi di reclusione, le ha dato il colpo di grazia. Meglio vivere da sola e non avere altre brutte sorprese, non potrebbe sopportarlo.
Ha fatto la postina, la bigliettaia, la receptionist, la cassiera, la segretaria, la magazziniera e, ora, l’addetta a un reparto vendite. Nessuno di questi lavori l’ha entusiasmata, a fine giornata prova soltanto quel vago senso di essere a posto con la coscienza per aver svolto il proprio dovere. Forse un retaggio dell’educazione ricevuta, principalmente da Lei.
Ha visto un po’ di mondo: le piace leggere, andare al cinema, alle mostre. La musica, anche se non trova mai qualcuno a cui piaccia ascoltare quello che ama lei senza aver l’aria di tollerarlo a stento, di farle un’estrema concessione.
Le sue relazioni sono naufragate tutte, non si è mai sentita amata. Forse si è solo illusa di essersi innamorata, la prima volta. Forse ormai è rotta, rovinata, compromessa per sempre, a tal punto che non sarà mai più in grado di amare. Ricorda il sollievo di aver perso la verginità, tre anni prima, quando temeva che non sarebbe più avvenuto. Con lui è finita presto, non avevano niente in comune, o almeno così ha detto quando l’ha lasciata.
 
Niente in comune.
Ogni tanto riflette su quell’espressione. Avere qualcosa in comune presuppone che entrambi abbiano una personalità, degli interessi. Cecilia dubita di averne: non sente di avere un’identità, a venticinque anni suonati non sa ancora chi è e per quale motivo si trova al mondo.
Eppure, non smette di chiederselo. Per questo non le pesa fare dei lavori a tempo, per questo tiene sempre d’occhio gli annunci, senza precludersi altre occasioni in posti nuovi.
Ha anche rinunciato a farsi rinnovare un contratto, una volta. Aveva litigato con quella che considerava un’amica, che la rimproverava di “non saper andare avanti” e di “rifiutare ogni aiuto”, di “scappare dai problemi invece di affrontarli.”
Il suono di quelle parole le fa ancora male. Perché lei si sente speranzosa e ottimista tutte le volte che intraprende un cambiamento, lei si paga da sola ogni cosa e non chiede mai soldi a casa, anche se ogni tanto sente suo padre e lo va a trovare.
Ogni trasferimento è una nuova avventura, a ogni appuntamento è entusiasta e brillante, parla a raffica e, quando s’impegna con qualcuno – chiunque voglia impegnarsi con lei per primo – dà tutta se stessa per far funzionare le cose. Che male c’è ad andarsene, se poi le cose vanno per il verso sbagliato? Perché rimanere?
 
Cecilia ricaccia indietro le lacrime, più di frustrazione e di rabbia che di tristezza. Non vuole un’altra amica con la quale confidarsi per poi essere giudicata senza pietà. Le ha raccontato tutto ciò che ha passato, come ha potuto essere così insensibile e formarsi un’opinione tanto negativa di lei?
Un angolo razionale della sua mente sa la risposta: mancanza di empatia. L’ha letto in un manuale di auto miglioramento, ma alle persone non importa nulla di essere empatiche, quando possono mostrarsi forti e vincenti e sparare giudizi gratuiti sulla vita altrui.
È ciò che ha fatto anche il suo ultimo ex, dandole della depressa psicolabile. Le cose andavano bene, fino al confinamento per la seconda ondata della pandemia. Da quando sono ricominciate le restrizioni, Cecilia è ansiosa e si sente di nuovo in prigione. Si dà anche della stupida ed egoista, si vergogna a pensare al passato e ai propri problemi con la gente che le muore intorno, ma non può farne a meno.
 
Sono ancora in prigione, non ho mai smesso di essere in prigione.
Se lo ripete come un leitmotiv, una melodia che caratterizza l’entrata di un personaggio in scena, come ha letto in un libro di musica. La cosa peggiore è che anche gli altri sembrano pensarlo: nessuno vuole liberarla dalla sua cella, anzi: è come se ogni volta, senza volerlo, fagocitasse gli altri.
“Non voglio finire nella tua gabbia”, sono state le ultime parole del suo ex.
Si era trasferito da lei per il secondo lockdown, ma dopo appena una settimana si è deciso a fare i bagagli. Per sempre.
Ora è di nuovo fidanzato, con la cameriera del ristorantino di sotto. Cecilia ha visto le loro foto sorridenti su Instagram. Vorrebbe cancellarli entrambi con un colpo di spugna: le sembrano così falsi e plastificati, quei sorrisi.
Ho mai sorriso veramente, io?
Che senso ha continuare?
 
I pensieri le si affastellano in testa, è sempre più confusa. Indossa automaticamente la mascherina ed esce, i crampi allo stomaco per la fame, ma fermamente decisa a evitare il ristorantino di sotto.
Fuori è deserto, rischia di essere fermata da una volante, anche se non è ancora passata l’ora del coprifuoco.
I pensieri la riportano a Lei, a quanto stia sicuramente godendo di una catastrofe come quella. Una pandemia mondiale, neanche nelle sue più rosee previsioni! Ora sì che le persone come Lei, da sempre diffidenti e paranoiche all’estremo, potranno crogiolarsi e godere delle disgrazie altrui, predicendo altre catastrofi.
La immagina benissimo, le labbra strette mentre cita l’Apocalisse, uno scintillio fanatico negli occhi.
“I quattro Cavalieri sono già qui: Pestilenza, Carestia, Guerra e Morte!”
Pestilenza, Carestia, Guerra. E Morte.
I piedi la portano meccanicamente alla sua passeggiata abituale sul lungofiume.
E Morte.
Anche il suo gatto l’ha abbandonata l’anno scorso. Prenderne un altro significherebbe tradirlo, quindi ormai Cecilia è inutile per tutti. L’angoscia e la solitudine la corrodono a ogni minuto che passa, si rifiuta di vivere solo per lavorare e sostentarsi.
È arrivata alla fine del ponte. C’è un parapetto che potrebbe scavalcare velocemente, se solo volesse: le acque sono abbastanza profonde, e lei non sa nuotare.
Spalanca le braccia, pensando ancora: Sono ancora in prigione, non ho mai smesso di essere in prigione.
 
“Ehi! Tutto bene?”
Una voce giovanile, squillante, la costringe a porre l’attenzione su qualcosa al di fuori di se stessa, bloccando il vortice di quei pensieri martellanti.
Appartiene a un ragazzo dai lineamenti irregolari e un filo di barba, ancora sospeso tra l’adolescenza e l’età adulta. Ha i denti un po’ storti, capelli ricci lunghi e aggrovigliati come nidi, cuffiette nelle orecchie e occhiali vecchi e spessi come fondi di bottiglia, aggiustati con lo scotch, sui quali ricade la luce giallastra del lampione più vicino a loro.
Lei apre la bocca per rispondere e abbassa le braccia, sentendosi improvvisamente ridicola, ma il ragazzo sembra amichevole. Si toglie le cuffie e lei smette di prestargli attenzione.
Non potrebbe fare altrimenti, la melodia che ne esce è troppo pervasiva per ignorarla.
Trascinante, trionfale e del tutto fuori luogo per quella serata, ancor di più per il suo umore. È come se volesse invitarla a una festa, meglio ancora: a un ballo in cui tutti gli invitati ballano e ridono, col fascino e l’eleganza di chi appartiene a un’altra epoca.
Il ragazzo sorride allo stupore che deve riflettersi nei suoi occhi.
“Potente, vero?” le chiede, sempre in tono allegro, porgendole una delle cuffie pendenti. “Vuoi ascoltare?”
“Cos’è?” Cecilia si ritrova a chiedere, avvicinandola all’orecchio.
Musica sull’acqua di Georg Friederich Haendel, devo studiarla per il Conservatorio. Io studio Composizione, tu invece?”
Lei vorrebbe rispondere che non fa nulla di particolare, ma qualcosa la ferma: non è realmente importante. Accetta la cuffia e si ritrova a sorridergli: quel ragazzo è così giovane, energico e maldestro, che le suscita un’immediata simpatia.
Aspettano in silenzio che la melodia finisca, poi lei gli restituisce la cuffia, in silenzio.
“Sì… è veramente potente. Grazie.”
 
Talmente tanto che ha scacciato i suoi pensieri. Fissa l’acqua e le luci riflesse in tranquille increspature, l’eco degli ultimi accordi ancora nelle orecchie. Ora è semplicemente un fiume, una parte di qualcosa di più vasto, che ha ispirato quella musica così monumentale e allo stesso tempo familiare, piacevole.
Man mano, durante l’ascolto, immagini più liete si sono sostituite ai suoi pensieri tetri. Il sorriso di una bambina che, una volta, giocava con un soffione al parco, disperdendone i petali. Un ragazzino che faceva parkour vicino casa sua e che le urlava, incoraggiante, dall’alto della sua prodezza atletica: “Sei un campione! Sei un campione! Anche tu sei un campione, siamo tutti campioni!”
Lo sguardo gentile della sua maestra delle elementari, che le diceva che il suo nome, Cecilia, era quello della patrona dei musicisti.
Il ragazzo annuisce, serio. “Hai una bella voce. Secondo me hai anche un buon orecchio” aggiunge, pensieroso.
“Davvero?” chiede Cecilia, sorpresa.
Il cuore le batte forte, come se stesse per accadere qualcosa di fondamentale importanza.
“Oh, sì. Potrei chiedere a un maestro di canto che conosco di farti lezione. Viene anche incontro con gli orari, se lavori …”
Cecilia annuisce, commossa. “Ti ringrazio, mi piacerebbe molto.”
“Beh, ti lascio il mio numero, ci parlo domani e poi ti dico” dice il ragazzo. “A proposito, abiti qui vicino? Vuoi che ti accompagni a casa? Tra poco scatta il coprifuoco.”
Cecilia scuote la testa e gli lascia il proprio biglietto da visita del lavoro. “No, grazie.” Gli sorride. “So perfettamente dove andare, adesso.”
Si scambiano una stretta di mano, dimenticando di darsi il gomito per prudenza, e si salutano come se fossero due vecchi amici. Cecilia continua a sorridere, grata, mentre s’incammina verso casa. Finalmente ha un obiettivo, quella serata sembra improvvisamente sorridergli.
Inizierà presto a studiare canto.
 
Rientrando, si rende conto di non aver chiesto il nome del ragazzo, il suo improbabile salvatore.
A volte, basta trovarsi al posto giusto al momento giusto. Una melodia, una parola gentile, un ricordo felice, possono fare la differenza tra la vita e la morte.
In fondo, pensa, con una nuova forza che sente sbocciare dentro di sé, il suo nome non ha alcuna importanza.
   
 
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