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Autore: Adeia Di Elferas    09/12/2020    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Giampaolo Baglioni si portò una mano sulle labbra e guardò meglio il suo interlocutore, Giovanni della Rovere, trovando il quarantaquattrenne più teso di quanto non avrebbe dovuto essere, nel discutere di certe cose.

Dopo aver ottenuto la licenza dal Borja, per curare gli affari di Perugia mentre l'assedio di Faenza languiva, il Baglioni aveva deciso di prendersi la libertà di passare da Senigallia proprio per incontrare il Della Rovere e cercare di vederci più chiaro.

Se all'inizio quella deviazione gli era parsa quasi inutile, ormai, più parlava con Giovanni, più si rendeva conto di essersi avvicinato più del previsto alla verità, con le sue congetture.

“Davvero non avete notizie di Giulio Cesare da Varano da parecchio?” chiese Giampaolo, dopo una lunga pausa.

Fuori nevicava e il vino caldo speziato che entrambi avevano davanti fumava come una pira, portando con sé gli odori pungenti dell'oriente. In realtà, in quel momento, al Della Rovere quel tanfo dava quasi la nausea.

Con cautela, il padrone di casa rispose: “Non ho affari con lui. Non vedo perché avrei dovuto ricevere sue notizie in queste settimane.”

Baglioni, che era arrivato concretamente a sospettare anche Giulio Cesare da Varano tra i colpevoli della strage in cui avevano cercato di uccidere anche lui, in luglio, inclinò un po' la testa, sollevando un sopracciglio: “Vostra figlia, Maria Giovanna, è sposata al figlio del signore di Camerino. Mi ero convinto che tra consuoceri ci dovesse essere una maggior comunicazione...”

“Mia figlia Maria Giovanna – ribatté il Della Rovere, avvertendo una fitta al petto, come sempre gli capitava pensando alla sua primogenita – è la felice sposa di Venanzio, è vero, ma questo non lega certo a filo doppio me e Giulio Cesare.”

“Se mai vi capiterà di incontrare o anche solo scrivere al vostro consuocero – proseguì il Baglioni, come se l'altro non avesse nemmeno aperto bocca – fategli sapere che io sono tra quelli che decidono la campagna del Duca Valentino.”

Giovanni Della Rovere, riappoggiando il calice di vino al tavolinetto, strinse un po' le palpebre, e poi, capendo la velata minaccia, sussurrò: “Credo che lo sappia...”

“Forse in luglio se n'è dimenticato, allora.” concluse Giampaolo, con un sorrisetto tirato, alzandosi in piedi: “Fate correggere la ricetta di questo vino speziato. È nauseabondo.” concluse, indicando il proprio calice e voltando subito le spalle al signore di Senigallia.

“Non penserete che i Varano c'entrino qualcosa con le Nozze Rosse..!” esclamò a quel punto Giovanni, inseguendo per qualche passo l'ospite.

Il Baglioni, sorpreso nel vedere quella reazione così palese scosse il capo: “Che cosa da guitti, chiamarle le Nozze Rosse... Senza la minima carità cristiana...” e, con un'espressione di disprezzo in volto, soggiunse: “Penso che prima di tornare a Perugia andrò a far visita anche a vostro cognato Guidobaldo a Urbino...” e se ne andò.

 

Cesare Borja non avrebbe mai creduto possibile di annoiarsi tanto a una festa di Natale. Malgrado lo sfarzo delle opulente portate e dei giochi che rallegravano la serata – pagati interamente dalle tasche dei pochi forlivesi abbienti che ancora esistevano – il venticinquenne trovava tutto già visto, già gustato, già sentito...

Riusciva solo a pensare che fuori continuava a nevicare e che, di quel passo, prendere Faenza si sarebbe trasformato in un'epopea infinita, con un dispendio di denaro e di forze ben superiore alla sue possibilità.

L'unica cosa in grado di distrarlo, di quando in quando, era la vicinanza di Luffo Numai. In quanto padrone di casa, sedeva al suo fianco e si sentiva in dovere di rivolgergli la parola ogni dieci minuti, malgrado il Borja gli rispondesse, il più delle volte, con solo con degli scocciati monosillabi.

Solo quando il padrone di casa, con un certo disagio, pose la domanda che, evidentemente, stava rinviando da tutta sera, Cesare si sentì in vena di essere più loquace.

“Madonna Sforza è ancora a Roma, servita e riverita come una principessa.” mentì, non appena il forlivese ebbe finito di chiedergli di lei: “E anzi vi dirò di più. Conoscete anche voi i suoi modi e i suoi usi da virago: ebbene so per certo che ultimamente mio padre le ha concesso di uscire sui torrioni del castello assieme al suo confessore, frate Lauro, a tirar di spada e fare tutti gli esercizi fisici che desidera.”

Michelotto, che stava alla destra del Valentino, sollevò impercettibilmente un sopracciglio, ma annegò ogni altra reazione involontaria nel suo calice di vino.

Luffo, invece, appariva contrariato. Era come se quell'ultimo inciso, aggiunto dal Duca per rendere il tutto più edulcorato e credibile, gli avesse dato conferma della falsità dell'intero racconto.

Capendolo benissimo, Cesare si chinò un po' in avanti, guardando Numai dritto negli occhi e, in un sussurro appena udibile sopra ai lazzi dei guitti, gli sibilò: “Se credete di aver sbagliato, lo scorso anno, a scegliere me e non lei, sappiate questo: Faenza è quasi spacciata, Pandolfo Malatesta ha lasciato da tempo Rimini ed è a Venezia a chiedere l'elemosina al Doge, Alessandro Sforza, che credevate un vostro paladino, è scappato in Germania, con una taglia dei francesi sulla testa, e Giovanni da Casale, il vostro grande eroe, si è venduto mani e piedi al miglior offerente, trovandosi pure una moglie.”

“Non è possibile.” il commento era arrivato dalla moglie di Luffo, Caterina Paolucci, che sedeva accanto al marito.

“Non sono in dovere di dimostrare la veridicità delle mie affermazioni – ribatté il Valentino, sorpreso che quella donna l'avesse sentito pur stando così lontana – ma se farete le dovute ricerche, scoprirete che non mento.”

A quel punto, Numai e la consorte, si scambiarono un'occhiata cupa e nessuno dei due parlò più fino alla fine della festa.

In altri momenti, a Cesare, nel vedere quell'atteggiamento, sarebbe venuto qualche sospetto sulla fedeltà dei due forlivesi, ma quella notte non aveva voglia di pensare a nulla. L'unico tarlo che proprio non riusciva a scacciare era Faenza. Non poteva permettere a un ragazzino come Astorre di frenare la sua cavalcata. Già l'anno prima era stato umiliante subire perdite ingentissime per colpa di una donna, se anche quella volta si fosse messo in ridicolo, suo padre, per quanto papa, non avrebbe potuto fare granché per tenerlo sul suo piedistallo dorato.

“Miguel – il Borja chiamò a sé Michelotto mentre lasciavano la tavola, a notte tardissima – voglio che prima di Capodanno Vitelli, Tiberti e tu organizziate una spedizione degna di questo nome in Val di Lamone. Richiama qui anche Giampaolo Baglioni, non me ne importa un accidente di quello che deve fare in Umbria.”

Il Corella annuì appena e poi, schiudendo sì e no le labbra, chiese: “Quando dovremo attaccare?”

Cesare si strinse nelle spalle, avvertendo il freddo ancestrale che la neve gli metteva sempre addosso: “Appena le strade saranno praticabili. Anzi, anche prima. Al massimo i primi di gennaio vi voglio vedere partire.”

Miguel fece un cenno con il capo, a mo' di assenso e poi, con un breve inchino, si congedò per andare a parlare subito con Vitellozzo e Achille.

“Che si dica di me quello che si vuole – borbottò tra sé Cesare, mentre scansava gli altri invitati che si stavano ritirando per dormire – ma non che non impari dai miei errori.”

 

“Secondo me avremmo dovuto chiedere di festeggiare comunque.” disse piano Bernardino, mentre Alessandra Scali era distratta a parlare con Fortunati.

“Lo sai che qui a Firenze non si festeggia il Capodanno il primo gennaio.” lo redarguì Galeazzo, accanto a lui, che non voleva, per nessun motivo, che suo fratello accendesse delle polemiche inutili con la padrona di casa: “Già c'è ospite messer Francesco... Ti basti questo.”

Il piccolo Feo cercò appoggio anche nel fratello Sforzino, che, però, per non incrociare il suo sguardo si era messo a fissare la Scali come se non vi fosse nulla di più interessante al mondo.

Così, sbuffando, il bambino prese una fetta di pane e lo inzuppò nel brodo che gli era rimasto, borbottando: “La vita qui è come questo...” e sollevò il pezzo di crosta che aveva bagnato nella ciotola: “Senza sale.”

“Sei un poeta, adesso?” chiese, freddo, Ottaviano.

Il giovane era il più insofferente dei commensali. Aveva addosso una smania che non riusciva nemmeno lui a spiegare. Gli sembrava che tutto il mondo si fosse dimenticato di lui, perfino suo fratello Cesare che, dopo tante promesse, stava passando settimane senza nemmeno farsi sentire via lettera.

“Per favore...” sussurrò Galeazzo, mentre Sforzino, ancor più deciso a non entrare in nessuna controversia, ormai puntava lo sguardo verso Alessandra in modo quasi ossessivo.

“Perché?” ribatté il Riario maggiore, dopo aver bevuto un lungo sorso di vino: “Non è forse sorprendente che il figlio di un analfabeta sia in grado di...”

“Che succede?” chiese, tesa, la Scali, quando sentì la sedia di Bernardino grattare per terra e vide il ragazzino alzarsi e puntare minaccioso verso Ottaviano.

“Nulla.” cercò subito di minimizzare Galeazzo, alzandosi a sua volta e mettendo una mano sul braccio del fratello maggiore, che sembrava pronto a difendersi attivamente, benché lo sfidante fosse nel giusto e avesse appena dieci anni.

Fortunati, che conosceva meglio di Alessandra le dinamiche che correvano tra i figli della Tigre, abbozzò un piccolo sorriso e provò a percorrere la via che forse la donna avrebbe capito più facilmente: “Sono un po' tesi per le sorti della madre, è comprensibile...”

Ottaviano, intanto, si era liberato dalla presa del fratello e si era messo a fissare in cagnesco Bernardino, che ancora teneva il mento alto, in segno di sfida.

“Difendilo pure...” borbottò alla fine il Riario, rivolgendosi a Galeazzo: “Adesso perché hai quindici anni ti credi un uomo, ma sappiamo tutti che non lo sei ancora.”

Il minore sentì il collo e le orecchie infiammarsi e seppe subito di essere diventato rosso come il fuoco. Il retroscena di quell'insulto – perché tale suonava – risaliva al giorno del suo compleanno, un paio di settimane addietro. Ottaviano, con i suoi soliti modi strascicati, gli aveva fatto gli auguri e, del tutto a sorpresa, gli aveva dato un paio di monete.

“Usale bene.” gli aveva detto, dandogli un colpetto tra le scapole: “Firenze è piena di postriboli, è tempo che anche tu diventi un uomo, non credi?”

Galeazzo, imbarazzato da quel suggerimento, gli aveva subito restituito il denaro, sbottando: “Hai un'idea molto vaga di cosa significhi essere un uomo.”

“Continua a giocare con le tue spade di legno, allora.” aveva risposto il maggiore, con una risata sprezzante che aveva ferito nel profondo il fratello.

La sua idea era rimasta invariata, ossia non credeva che i metodi di Ottaviano fossero corretti, né che la sua idea di cosa facesse di un ragazzo un uomo fosse giusta, tuttavia da quel giorno aveva pensato spesso alle sue parole e si era fatto tante domande, trovando solo a volte delle risposte.

“Potete anche ritirarvi, se non avete più fame.” disse Alessandra, fissando il Riario maggiore, l'unico, tra i ragazzi che aveva accolto sotto al suo tetto, verso cui non riusciva a provare la minima empatia.

Senza farselo ripetere, Ottaviano afferrò un paio di cose, per mangiarsele con calma in stanza e poi si congedò da tutti con un cenno del capo, dedicando l'ultima occhiata a Bernardino, come a volerlo incolpare di tutta quella confusione.

Per il resto, la cena del 31 dicembre proseguì tranquilla. Fuori non nevicava, ma il vento freddo che tirava da nord fischiava così forte che anche stando a tavola si poteva sentire il suo lamento.

Solo a serata conclusa, quando Sforzino già si era ritirato per leggere e Bernardino si era infilato nelle cucine per giocare con i figli della servitù, Galeazzo, la Scali e Fortunati si misero vicino al camino a discutere.

Parlarono di come Gian Giacomo da Trivulzio fosse in quei giorni di nuovo a Milano per rendere omaggio a varie eminenze francesi, e poi discussero di quello che succedeva in Romagna, finendo per commentare la campagna personale, ma ormai nota a tutti, di Giampaolo Baglioni in Umbria.

“Dicono che avesse preso Giulio Cesare da Varano...” soppesò Francesco, passandosi da una mano all'altra il calice di vino caldo: “Ma dopo aver cenato con lui, e aver discusso chissà di cosa, l'ha lasciato andare.”

“Magari ha capito che il signore di Camerino non c'entra nulla con le Nozze Rosse...” ipotizzò Alessandra, sistemandosi meglio sulla sua poltroncina.

“Oppure ha pensato che, in assenza di prove concrete del coinvolgimento di Giulio Cesare, sarà più semplice ottenere la propria vendetta in modo onorevole nel momento in cui il Duca Valentino conquisterà Camerino.” disse Galeazzo, che stava in piedi accanto al camino, appoggiato con un gomito al cornicione di marmo.

Il piovano e la Scali si scambiarono un'occhiata sorpresa: quel ragazzo era stato più lungimirante di loro.

“Quando fate di questi ragionamenti – sorrise Francesco – mi ricordate molto vostra madre.”

Nel citare la Sforza, per un attimo calò il silenzio nella sala.

Solo dopo un paio di minuti il Riario trovò la voce per dire qualcosa, chiedendo: “Credete che mia madre sopravvivrà?”

Fortunati finì in un solo sorso il vino caldo che gli era rimasto e poi, sollevando appena le sopracciglia, mentre rivedeva nella memoria Caterina, trasformata ormai nella larva della donna che era stata, si sentì in grado di affermare solo: “Quel carcere è molto duro, ma vostra madre ha sempre avuto un fisico robusto.”

Nessuno dei tre parlò più e, quando arrivò la mezzanotte, di comune accordo ciascuno si ritirò nella propria stanza, con le ultime frasi che si erano scambiati che ancora rimbombavano nelle loro orecchie.

 

Caterina era sudata fradicia, cosa assurda, con il freddo che faceva. Vedeva confusamente il suo alito sollevare grandi nuvole di vapore, eppure aveva i capelli incollati alla fronte come in un pomeriggio d'agosto.

Sapeva di essere nelle viscere di Castel Sant'Angelo, eppure le sembrava di sentire l'esplosione dei cannoni, le grida dei soldati... Le sembrava quasi di vedere, nelle ombre, gli uomini del Borja che prendevano d'assalto la sua rocca.

Li avvertiva vicini, si dimenava per difendersi, e poi cadeva, senza forze, si rialzava, gridava, sentiva le mani del Valentino afferrarla per le spalle e poi il fiato mancarla, come se qualcuno la stesse strozzando, la tosse scuoterla fino nelle ossa e poi di nuovo l'odore della polvere da sparo, il boato dei cannoni, la sensazione scivolosa del sangue caldo che le schizzava addosso...

“Vai a chiamare il medico!” gridò il carceriere che aveva aperto la porta della cella: “Muoviti!”

La guardia che gli stava alle spalle non se lo fece ripetere e corse via, lungo il corridoio umido.

Era da un paio d'ore che, da fuori, si sentiva la Tigre agitarsi. All'inizio, però, il soldato aveva creduto che stesse solo sfogando la propria rabbia, dopo mesi di reclusione. Solo quando si era messo ad ascoltare meglio e aveva sentito i tonfi della cadute aveva capito che cosa stava succedendo.

Non era la prima volta che si trovava davanti un prigioniero preda delle allucinazioni, febbrili o nervose che fossero, ma mai aveva visto in quello stato una donna.

Roteava all'indietro gli occhi, batteva i denti e poi gridava, i capelli bianchi, arruffati, sudati e sporchi, le finivano sul volto ogni volta che veniva scossa da un nuovo fremito di paura o rabbia. A tutti gli effetti era come trovarsi davanti a un demone.

“Guai a te se crepi!” gridò il carceriere, mentre la donna riprendeva a smaniare, agitando le braccia e gridando parole senza senza: “Guai a te! Il papa mi ha ordinato di tenerti qui, ma viva! Io non mi faccio impiccare per colpa tua!”

Gli occhi della Leonessa si puntarono all'improvviso su di lui. Era come trovarsi davanti un pozzo nero senza fondo. Nelle pupille spente si rifletteva la luce della torcia che l'uomo portava con sé.

Fu un secondo: il carceriere si accorse che la Sforza voleva prendergli proprio la fiaccola appena in tempo per fermarla. Mentre la donna protendeva la mano per appropriarsi del fuoco, l'uomo le sferrò un forte pugno in pieno volto, facendola cadere svenuta in terra.

“Boia mondo!” sbottò lui, accucciandosi subito per vedere se la donna fosse ancora viva: “Non crepare, guai a te!”

“Ecco il medico!” annunciò la guardia, di ritorno con i rinforzi.

“Ma quale medico!” lo rimbrottò l'uomo che lo seguiva: “Sono solo un cerusico... Di medici il papa per lei non ne paga più...”

“Siate quello che volete – lo incalzò il carceriere – fatela vivere o...”

“L'avete picchiata?” chiese il cerusico, avvicinando la torcia al volto della Tigre e vedendo il labbro spaccato.

“Smaniava e mi avrebbe ucciso se...” si difese l'uomo.

Quello accucciato, guardò prima la donna, smunta e priva di sensi, e poi il soldato, grosso e di notevole altezza, e poi, sbuffando tra sé, commentò: “Bell'esercito, che ha il pontefice...”

Dopo averle fatto riprendere conosceva, anche se solo in parte, e averle dato quanto necessario per calmarne le allucinazioni, il cerusico ordinò a Caterina di mangiare e bere tutto quello che le davano e le lasciò una boccetta, con la raccomandazione di sorbire almeno un sorso al giorno.

“Ma io non so quando passa, un giorno...” soffiò lei, faticando a parlare, per via del labbro ancora sanguinante.

L'uomo non seppe come ribattere, così, scuotendo il capo, sospirò: “Fate quello che potete. Se me lo permetteranno, tornerò a controllarvi...”

“Siete un medico o un alchimista?” chiese la Tigre, mentre cominciava a sentirsi di nuovo lucida, probabilmente anche grazie all'infuso che le era stato dato.

“Nulla di tanto prezzolato.” fece lui: “Sono solo un cerusico.”

“I cerusici salvano i soldati feriti.” commentò lui, chiudendo gli occhi, sentendosi troppo affaticata per sostenere anche il suo sguardo: “Quindi per me andate più che bene.”

L'uomo non aggiunse altro e, con un cenno della mano, tornò fuori e diede il permesso al carceriere di richiudere la porta.

 

Michelotto guardava in silenzio il suo parente penzolare dalla corda della pubblica forca, nel cuore della piazza principale di Forlì. Il vento che sapeva di neve lo faceva ondeggiare lentamente, come una foglia, rendendo quella scena qualcosa di surreale.

Per Miguel non era stato facile condannarlo a morte, benché lo conoscesse a malapena nonostante il loro legame di sangue, ma aveva dovuto farlo.

Cesare gli aveva imposto di farsi perdonare per tutta la storia del calzolaio e quando si era presentata l'occasione, gli aveva ordinato di mostrare il pugno duro, per far capire che la legge era unica, sia per i sudditi, sia per i membri dell'esercito. Così, quando il parente del Corella aveva ingenuamente rubato la spada a un forlivese, lui l'aveva fatto arrestare e l'aveva condannato a morte per impiccagione.

I forlivesi non erano accorsi in massa, come invece Miguel aveva creduto che avrebbero fatto, e, anzi, quei pochi che si erano presentati a vedere quel macabro spettacolo osservavano il morto con un misto di pietà e fatalismo.

L'unico che sembrava disinteressato a quello che stava capitando era un uomo vestito di raso, velluto e pelliccia. Michelotto lo riconobbe solo se lo vide andare incontro con il suo passo affrettato da bottegaio.

“Che volete, Bernardi?” gli chiese, freddo.

Da quando era a Forlì aveva capito che quello storico, che nella vita aveva sempre fatto il barbiere, lo avvicinava solo ed esclusivamente per chiedergli o notizie o favori. In tutta onestà, non riusciva a capire come mai Cesare lo tenesse tanto in palmo di mano.

“Dicono che voi e messer Vitelli stiate per partire per la Val di Lamone...” disse piano il Novacula, sollevando un po' il bavero del giubbone per difendersi dall'aria gelide di quel dicembre.

Il Corella inspirò a fondo, avvertendo nell'aria una nota particolare, quella che si sentiva prima di una nevicata. Fosse dipeso da lui, avrebbe evitato scontri e assedi nel cuore dell'inverno, ma era il Borja a decidere, e lui l'avrebbe seguito anche all'inferno, se glielo avesse chiesto.

“Solarolo, Russi e la Val di Lamone intera sarà nostra.” confermò, senza tema di sbagliare, l'uomo del Valentino.

“Non dovreste concentrarvi su Faenza?” la domanda era uscita dalla labbra di Andrea prima che potesse ragionarvi lucidamente.

Miguel strinse gli occhi, appoggiando una mano sull'elsa della spada e poi, dopo aver lanciato un'ultima occhiata al suo parente che ancora penzolava dal suo cappio, ribatté: “Da quando vi credete un esperto di guerra, Bernardi?”

Lo storico schiuse le labbra, abbozzando un sorriso stentato, ma fu Michelotto a parlare di nuovo.

“Solo perché avete tenuto la gonna della Sforza per anni, non penserete di aver capito qualcosa, della guerra...” sbuffò e poi, chiamando a sé un paio di soldati che lo scortavano, concluse: “Ho di meglio da fare, che parlare con voi.”

Il Novacula, chiaramente, non si azzardò ad aggiungere altro. Guardò il braccio destro del Borja allontanarsi, e poi osservò le facce dei pochi forlivesi presenti. In quel momento fu certo che la maggior parte di loro – lui di certo – se avessero potuto tornare indietro di un anno, non avrebbero più lasciato la Tigre da sola a combattere contro quella serpe del Duca Valentino. Ormai, però, era troppo tardi.

 

Le mani di Giulio Cesare da Varano tremavano così tanto da rendergli quasi impossibile leggere la breve che il papa gli aveva mandato.

Alessandro VI gli intimava, in buona sostanza, di espellere subito i fuoriusciti che avevano chiesto asilo a Camerino, ponendo come minaccia massima una multa di cinquantamila ducati e la confisca di tutti i suoi beni.

“Padre..?” Venanzio, accigliato e stranito nel vedere il genitore ancora sveglio a quell'ora, aveva appena fatto capolino nel salone, attirato dalla luce delle candele: “State bene..?”

Giulio Cesare fece un cenno con il capo, ma non disse nulla. Gli sembrava di essere entrato in un vortice da cui fosse impossibile scappare. Aveva la nausea, gli girava la testa ed era certo che avrebbe anche vomitato, se solo avesse avuto qualcosa nello stomaco.

Da quando aveva patrocinato la strage, in parte mancata, dei Baglioni di Perugia, tutto stava andando storto.

Aveva capito, quando era stato catturato, che Giampaolo Baglioni era ormai certo che anche lui fosse coinvolto. L'aveva rilasciato subito, quello era vero, ma il modo in cui l'aveva fatto faceva intendere quanto fosse certo che una vendetta più lenta e più dolce sarebbe arrivata.

Il Baglioni, in dicembre, aveva anche fatto prigioniero Cesare Crispolti, che stava per unirsi, a Bettona, con Carlo Baglioni e Girolamo Della Penna. Di certo lui aveva parlato...

E ora, la breve del papa che gli chiedeva di fare una cosa che lui non poteva in alcun modo fare, era la conferma dei suoi peggiori sospetti. Il Baglioni si sarebbe vendicato di lui facendo passare il suo progetto dalle mani di Cesare Borja.

“Va tutto bene.” soffiò l'uomo, con le labbra che si sollevavano appena, tremolanti: “Non preoccuparti, figlio mio...”

Venanzio era ancora al suo posto, corrucciato. Tuttavia, avendo bevuto fino a tardi ed essendo appena rientrato da una notte di bagordi, l'unica cosa che aveva voglia di fare era ritirarsi per dormire.

Così, prendendo per buona la rassicurazione di Giulio Cesare, borbottò: “Va bene... Allora io vado in camera.”

“Tratta bene tua moglie, mi raccomando...” fece il padre, cominciando a temere che perfino Maria Giovanna Della Rovere e la vita d'inferno che suo figlio le stava facendo fare, potessero essere un motivo per qualcuno di vendicarsi di loro.

“Non la vedrò nemmeno fino a domattina...” borbottò Venanzio, sollevando una mano a mo' di saluto.

“Ricordati chi è suo padre. E chi è suo zio...” provò, in extremis, Giulio Cesare.

“Non è meglio che andiate a dormire anche voi?” la voce strascicata del figlio arrivava ormai da oltre la porta: “La notte è fonda, e voi siete vecchio...”

Il padre non disse nulla, tornando a guardare la lettera del papa. Anche Alessandro VI non era più molto giovane...

Ripiegando con calma il foglio, l'uomo, di norma poco avvezzo a pregare, giunse le mani strettamente, fin quasi a farsi male, e cominciò a recitare in silenzio una lunga sequela di orazioni, pregando Dio affinché si prendesse il suo vicario in terra prima del tempo, liberando gli uomini dal più grande diavolo che fosse mai nato.

   
 
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