17.
A
svegliarla fu il rumore delle ossa che si spezzavano e delle urla di
qualcuno a
cui, presumibilmente, queste ossa erano state appena spezzate.
Chanel
aprì gli occhi doloranti solo per scoprire di essere stata
condotta fin sulla
cresta di un monte, o almeno così le parve a una prima
occhiata.
Era
circondata da rada vegetazione battuta da un vento gelido, e il colpo
d’occhio
che riusciva ad avere da quel punto di osservazione le diceva che erano
molto
più in alto rispetto al bosco in cui era svenuta.
Ombre
lunghe e cupe si stavano allungano sull’orizzonte mentre il
tramonto, ormai
prossimo, tingeva il cielo e le nubi che, evidentemente, dovevano aver
condotto
in zona un temporale. A giudicare dai suoi abiti zuppi e dal terreno
umido,
doveva aver piovuto per diverse ore.
Rade
stelle erano ormai visibili a est, pallide e tremolanti, dandole
l’idea di
quanto fossero ormai prossimi alla notte. Sulle creste delle Montagne
Rocciose,
i rossi e i viola del tramonto stavano scomparendo rapidamente e,
grazie a
questa luce residua e all’altitudine a cui si trovava,
capì quanto fossero
distanti le prime luci
della civiltà. Erano lontanissimi da tutto!
«Ah,
la principessina si è svegliata…»
ghignò l’uomo che li aveva bloccati nel mezzo
della foresta, puntando i suoi occhi animaleschi su di lei.
Subito,
Chanel si mise seduta e arretrò in preda al panico,
tastandosi poi il corpo
alla ricerca di qualche segno di violenza. Non ricordava nulla di
quanto
successo dopo l’attacco della donna nel bosco, che aveva
impedito loro di
fuggire, perciò quell’uomo poteva averla
anche…
Il
ghigno del maschio si trasformò in un ringhio animale,
quando lui le disse:
«Non ti ho violentata, se è quello che temi. Non
mi abbasso più ad assaggiare
carne di donna a quel modo, se non
da
Lei.»
Quel
‘lei’
gorgogliò fuori dalla gola
dell’uomo con così tanta devozione che Chanel si
chiese se si stesse riferendo
alla donna che l’aveva colpita. Nel guardarsi attorno alla
sua ricerca,
singhiozzò inorridita quando vide, a pochi passi dal suo
zaino, la figura
accucciata della creatura bionda che l’aveva immobilizzata.
Era
splendida per bellezza e perfezione quanto terribile e glaciale nello
sguardo
e, in quel momento, stava curiosando tra i suoi effetti personali come
se le
fossero in qualche modo alieni, estranei.
«Mi
aiuti… la prego…» sussurrò
Chanel, tentando di far leva sull’appartenenza al
medesimo sesso. Immaginava in tutta coscienza quanto fosse inutile
– visto che
si trovava accanto all’uomo che li aveva attaccati
– ma le sembrò assurdo non
tentare.
La
femmina, allora, si volse a guardarla e Chanel, in quel momento, si
accorse
finalmente quanto poco, in lei, vi fosse di umano, o anche soltanto umanamente accettabile.
Gli
occhi erano del tutto neri, privi della consueta sclera bianca e le
lunghe
ciglia chiare – quasi bianche – accarezzavano una
pelle liscia come alabastro e
del tutto priva di difetti, oltre che di peluria. Sembrava essere
completamente
glabra, con l’unica eccezione della folta chioma color biondo
platino.
Della
sua nudità – così come era stato per
l’uomo – non si faceva il minimo scrupolo
e, quando si alzò per raggiungerla, Chanel seppe in qualche
modo che quella
donna era ancor più pericolosa di colui che stava
infliggendo ferite orribili a
Fergus.
Indietreggiando
su mani e pieni nel vano tentativo di sfuggirle, Chanel
ansimò disperata quando
la donna la afferrò al collo con una presa ferrea e,
iniziando a piangere,
balbettò: «P-perché c-ci fate
q-questo?»
«Perché
non dovremmo? Siete cibo, no?» replicò con candore
la donna, inclinando il capo
per poi usare la mano libera per strapparle la cuffia dalla testa.
Questo
scatenò una violenta reazione dei recettori del dolore e,
per poco, Chanel non
svenne nuovamente, soffocata dal riverbero degli stimoli nervosi nel
suo
cervello.
Le
ferite sul cuoio capelluto si riaprirono irreparabilmente e un lembo di
pelle
del cranio le scivolò verso il basso, esponendo
all’aria gelida di quell’altura
la carne lacerata.
Le
lacrime fluirono ora copiose ma tutto venne dimenticato per un attimo,
quando
Fergus lanciò un grido così feroce e straziante
da cancellare qualsiasi altra
cosa.
Subito,
Chanel si volse nella sua direzione e, urlando a sua volta, si
portò le mani
alla bocca quando vide il volto dell’uomo affondare nel
ventre di Fergus,
deciso a dilaniarlo. Ma, come se quell’orrore non fosse
sufficiente, le carni
dell’uomo mutarono sotto i suoi occhi allucinati e divennero
lupo.
Mentre
il sangue colava a fiotti dal corpo ormai morente di Fergus, Chanel
continuò a
urlare e urlare, il suo cervello sovraccaricato da immagini e input in
contrasto tra loro.
Chiuse
perciò gli occhi, serrò le orecchie con le mani,
ma l’orrore non se ne andò e,
quando sentì uno strattone al braccio che la
portò a cadere a terra, seppe di
essere a un passo dalla stessa straziante fine.
La
donna la volse sulla schiena, le allargò le gambe con le
ginocchia e, piegatasi
su di lei, le sorrise a un palmo dal volto e sussurrò
melliflua: «Non sei
felice? Sarai il nutrimento di akhlut…
diverrai energia vitale per una dea.»
Chanel
scosse il capo, non comprendendo il significato di quelle parole ma,
ormai
pronta all’inevitabile, chiuse gli occhi e
sussurrò: «Ti voglio bene,
mamma…»
La
donna sorrise, spalancò la bocca – dove le fauci
stavano già allungandosi per
prendere forme animali – e si gettò su di lei per
divorarla.
Non
giunse mai, però, a colpire.
Una
folata di vento scaraventò via il corpo che premeva a terra
Chanel, o così
almeno parve alla ragazza, quando non percepì più
la presenza dalla donna malvagia
che aveva desiderato ucciderla.
Quando
osò riaprire gli occhi, vide a poca distanza la figura alta
e imperiosa di una
donna dai neri e fluenti capelli che, furente, si stava parando tra lei
e la
femmina che aveva tentato di divorarla.
«Non
così in fretta, akhlut»
esordì la
donna corvina.
La
creatura dai capelli biondo platino, allora, rise sorpresa e divertita,
esalando subito dopo: «Non mi dire… una figlia di
Dana! Neppure sapevo foste
ancora in vita!»
Il
lupo intento a divorare Fergus si bloccò, sconcertato da
quel nuovo arrivo e akhlut, dopo
averlo scrutato per un
attimo, fece un cenno col capo al suo sottoposto perché si
allontanasse,
dopodiché si rivolse di nuovo alla sua avversaria.
L’amarok,
pur controvoglia, obbedì
all’ordine ricevuto e lasciò il cadavere del
giovane che aveva appena predato,
così da poter fuggire dall’altura dove si erano
rifugiati per non essere
disturbati.
Litha
lo squadrò per un attimo, decidendo di lasciarlo perdere
– dopotutto, la valle
era piena di licantropi, e avrebbero pensato loro a fermarlo
– quindi,
beffarda, celiò: «Sei lontana da casa, pesciolino
troppo cresciuto.»
Akhlut non si irritò
affatto per quell’indubbio insulto e, anzi,
replicò: «E tu mi sembri troppo
giovane per poterti mettere al mio stesso livello.»
Accigliandosi
leggermente, Litha si chiese fuggevolmente quanti anni potesse avere
quella
dea-orca, ma ella non le diede il tempo di pensare.
Trasformandosi
in lupo, la attaccò e Litha, forse per la prima volta da
secoli, ebbe paura.
***
Lei
gli aveva ordinato di allontanarsi, e a questo si era attenuto, ma non
si
sentiva tranquillo nel sapere la sua Creatrice da sola con quella donna
dai
capelli corvini. Gli era parsa assai potente e pronta a tutto, e lui
non poteva
accettare che venisse fatto del male alla sua dea.
A
ogni buon conto, suo compito era obbedire agli ordini, e non avrebbe
deluso la
sua akhlut venendo meno al patto
stretto con Lei.
Discese
perciò verso valle, nelle vene il potere della giovane vita
che aveva appena
strappato e, senza dare peso agli odori dei nemici che stava avvertendo
intorno
a sé, accelerò il passo e si allontanò
sempre più dal campo di battaglia.
Uccidi!
Uccidi
quante più persone puoi! Le loro morti serviranno da monito
a questa sciocca
donna, e mi daranno energia per combatterla!
Questo
gli aveva detto prima di farlo fuggire, e questo avrebbe fatto.
***
La
sera era ormai calata e i colori sanguigni del tramonto erano scemati
dietro la
coltre di alberi della foresta, dove le ombre si allungarono
ulteriormente e si
fecero più oscure, più sinistre.
Le
torce elettriche vennero accese una dopo l’altra, mentre i
nomi di Chanel e
Fergus venivano urlati ai quattro venti, nella sempre più
vaga speranza che
qualcuno rispondesse ai loro richiami.
Donovan
non fu da meno. Urlò, scrutò e
analizzò ogni traccia, ma ogni tentativo di
trovarli sembrava essere vano.
Quei
due ragazzi parevano essere svaniti nel nulla. O forse, più
semplicemente,
avevano rubato un’auto, o preso un autobus, e ora decine di
persone li stavano
cercando inutilmente in mezzo alla selva canadese.
Se
così fosse stato, sarebbe stato in parte un sollievo
– i volontari e la polizia
sarebbero stati lieti di non trovare due cadaveri – ma anche
una fonte di
disagio enorme per i genitori, e l’inizio di una punizione a
vita per i
ragazzi.
Se
invece le loro peggiori previsioni si fossero rivelate esatte, e un
folle li
aveva rapiti, Donovan pregò in ogni modo di
trovarli… non importava come, né in
che stato. Vivere senza sapere la verità era la condanna
peggiore che potesse
capitare, e lui non la augurava a nessuno.
Già
sul punto di muoversi verso ovest per scandagliare un’altra
fetta di foresta,
Donovan si vide sbarrare a sorpresa la strada da uno dei soccorritori
che
faceva parte del suo gruppo. Charlotte Abrahams gli pose un braccio
innanzi,
impedendogli di fatto di avanzare ma, prima ancora di potergliene
chiedere il
motivo, il professore vide sbucare dal bosco la figura flessuosa e
potente di
un lupo.
Trovandosi
– al pari dei suoi compagni – in un’ampia
radura, non fu difficile scorgerlo e,
per Donovan, quella vista lo raggelò sul posto per un
istante. Cos’avrebbero
fatto, a quel punto?!
Subito,
anche Rock e Mike Perkins – il poliziotto che si era unito al
loro gruppo – portarono
i loro sguardi sull’animale ma, a sorpresa, non parvero per
nulla spaventati
dalla presenza di quell’animale… lordo
di
sangue?
Era
mai possibile che quell’animale avesse fatto del male ai
ragazzi che stavano
cercando?, si chiese sconvolto Donovan.
«Si
nasconda dietro di me, Charlotte» mormorò a quel
punto Donovan, tentando di
portarsi cavallerescamente dinanzi alla donna.
Lei,
però, scosse il capo, lo spostò a forza dietro di
sé – sorprendendo non poco il
professore – e, sogghignando all’indirizzo di Rock,
domandò: «Che facciamo,
ora?»
«State
attenti. E’ lui che cerchiamo, ma sembra avere qualcosa di
strano che non mi
piace» ringhiò Rock, lanciando poi
un’occhiata a Mike. «Chiama Curtis e digli
che abbiamo stanato l’amarok.
O
meglio… lui ha stanato
noi.»
Donovan
si irrigidì al suono di quel nome ancestrale e che, tra le
sue mille e più
ricerche, aveva incrociato più di una volta.
Perché avevano chiamato il lupo a
quel modo? Cosa sapevano che non
era
stato detto loro durante il briefing?
«Perché
lo avete chiamato così?» intervenne quindi Donovan
mentre osservava turbato i
movimenti sinuosi del lupo, apparentemente calmo e pronto ad attaccarli
da un
momento all’altro.
«Non
ora, Donovan… le spiegherò dopo»
sibilò Charlotte, parandoglisi sempre innanzi
e seguendo attenta i movimenti del lupo, quasi donna e animale
danzassero un
segreto ballo ancestrale.
Mentre
Mike chiamava via radio un certo Curtis – se non ricordava
male, il capo della
polizia – Donovan scrutò dubbioso la donna che si
stava ostinando nel volerlo
proteggere e domandò: «Cosa
dovrebbe
spiegarmi, dopo?»
Non
vi fu tempo di rispondere a quella domanda. L’amarok
si gettò su Mike snudando un arsenale di zanne di
tutto
rispetto e, solo per un soffio, non centrò il braccio del
poliziotto che, nel
guardarsi la camicia lacera, esclamò:
«E’ velocissimo, cazzo!»
«Charlotte,
l’Abbraccio della Morte!» esclamò allora
Rock, già pronto a subire il secondo
attacco del lupo.
La
donna si mosse lesta, rispondendo a quell’apparente frase
senza senso con una
velocità inumana e che sorprese ulteriormente Donovan.
Impreparato ai suoi
movimenti, così come alla sua immane forza, il professore
venne sospinto a
terra, in ginocchio, e subito circondato dalle braccia di Charlotte
che, alle
sue spalle, divenne uno scudo umano contro qualsiasi attacco.
«Cosa
succede?!» esalò a quel punto Donovan,
più che mai confuso e sconcertato dall’idea di
essere stato manovrato come una
bambola di pezza da una donna che pesava forse la metà dei
suoi chili.
«Succede
che usciamo allo scoperto perché abbiamo l’ordine
di proteggerla, professore»
ammiccò la donna, sguainando un arsenale di artigli e zanne
che fece
rabbrividire l’uomo.
«Siete…
siete… siete come…» tentennò
Donovan, incredulo e fuori di sé.
«Le
conviene murarsi la bocca, prima di paragonarci a mostri hollywoodiani,
o a
quella creatura che sta cercando di affettarci come
bistecche» lo mise in
guardia Charlotte, minacciandolo con uno sguardo che non ammetteva
repliche.
Donovan,
allora, si azzittì e volse il capo per seguire la bestia che
Rock aveva
chiamato amarok e che, in quel
momento, riuscì ad atterrare Mike prima che lo stesso Rock
non la sospingesse
via… con le sue mani artigliate!
Un
attimo prima di mettere a parole il suo sconcerto, Charlotte
mormorò al suo
orecchio: «Sì, lo siamo tutti e tre e
sì, ci batteremo per salvarla, se
potremo. Noi non vogliamo la morte di nessuno, contrariamente a
quell’affare laggiù.»
Cercando
di mantenere la calma e prendere per buone le parole della donna,
Donovan prese
dei grandi respiri a pieni polmoni e, roco, chiese: «Cosa
significavano le
parole di Rock?»
«L’Abbraccio
della Morte è una manovra difensiva che viene insegnata alle
sentinelle di
diversi branchi ma che, di solito, non usiamo noi lupi. Viene usata da
un altro
membro del clan di cui ora non starò a discutere, visto che
abbiamo altro a cui
pensare.»
Ciò
detto, si alzò in piedi trascinando con sé anche
Donovan e, nel sospingerlo
verso il bosco, esclamò: «Coraggio, andiamo! Ci
offrono copertura per
allontanarci!»
Donovan
preferì non chiedersi come lo sapesse e si limitò
a correre al pari di
Charlotte, che sembrava orientarsi benissimo nonostante, ormai, nella
foresta
non si vedesse a un palmo dal naso.
Limitandosi
perciò a seguirla da vicino, il professore cercò
di non pensare a ciò cui era
stato testimone ma la sua mente – e ciò che per
anni aveva soltanto ipotizzato
– giocò a suo sfavore.
La
paura prese il posto del raziocinio e dell’ovvietà
di ciò che stava accadendo
e, dopo alcune centinaia di metri passati a correre e inciampare, si
fermò di
colpo e iniziò a scuotere il capo, in preda alla paura
più cieca e alla rabbia
più rovente.
«Potete
essere stati voi, a ucciderlo… non posso fidarmi…
non posso…» iniziò a
borbottare Donovan, scuotendo nervosamente il capo.
Charlotte
bloccò di colpo la sua corsa, tornò indietro per
afferrarlo a un braccio e, furiosa,
lo scosse con una discreta dose di forza per poi urlargli in faccia:
«Se
avessimo voluto farla fuori, lo avremmo fatto una volta giunto a
Clearwater,
non ci pensa?! Invece, guarda caso, due miei fratelli si stanno
battendo per
difenderla e…»
Bloccando
la sua arringa, Charlotte si guardò intorno irritata e,
sospingendo Donovan
contro una pianta, ringhiò: «Merda! E’
sfuggito a Rock e Mike!»
“Sta
andando
verso sud-est!”
esclamò Rock nella mente di Charlotte.
“Voi
state
bene?!” chiese
subito la donna.
“Sì,
ma Mike ha
una ferita al tendine d’Achille e non può
camminare. Lo porterò da Chuck e
Douglas, ma tu devi inseguire l’amarok. Da
quella parte c’è il Vigrond!”
Charlotte
impallidì visibilmente, a quella notizia e, preoccupata,
mormorò: «Oddio,
Chelsey… Liza…»
Donovan
si riscosse immediatamente, nell’udire quei nomi e, afferrato
che ebbe un
braccio della donna, esclamò: «Cosa
c’entrano, loro? Cosa succede?!»
Charlotte
lo fissò ombrosa, ma replicò con tono pratico:
«Succede che quella bestiaccia
si sta dirigendo verso la casa di due ragazze a cui noi tutti teniamo
molto. Ecco cosa sta succedendo.»
A
quella notizia, Donovan si lasciò crollare a terra, del
tutto deprivato di ogni
forza, ed esalò sconvolto: «No… non
Mark e Diana…»
Accigliandosi
immediatamente, la donna domandò lesta: «Cosa
c’è che non va?»
«La
mia famiglia… loro si trovano a casa Saint Clair»
gracchiò Donovan, gli occhi
spalancati per il panico.
«Merda!
Merda! Merda!» esclamò a quel punto Charlotte,
picchiando un pugno contro il
vicino abete che stava sorreggendo Donovan.
La
pianta vibrò in risposta al trattamento maldestro della
donna che, nel
risollevare di peso Donovan, lo riscosse con forza e disse:
«Se vuole aiutarmi
a salvarli, deve piantarla di credermi un mostro e collaborare. Se la
sente?!»
Lui
assentì un paio di volte, ancora stordito dal mare di
informazioni che lo aveva
investito come uno tsunami e
Charlotte,
senza perdere tempo ulteriore, si piegò su un ginocchio e
ordinò: «Salga. E non
si faccia venire degli scrupoli di coscienza. Potrei annodarla come uno
spaghetto cotto attorno alla pianta, perciò non si preoccupi
di pesarmi sulle
spalle.»
Pur
trovando tutto assurdo, Donovan obbedì e, contro ogni legge
della fisica a lui
conosciuta, la donna non soltanto riuscì a sollevarlo, ma si
mise a correre con
facilità, incurante del peso che le gravava addosso.
A
quel punto, Donovan non ebbe più dubbi. Charlotte avrebbe
potuto davvero annodarlo come uno
spaghetto
cotto ma, in primo luogo, non lo aveva ancora fatto e, secondariamente,
stava
correndo all’impazzata per salvare la sua famiglia.
Forse,
dopotutto, non erano loro i nemici che lui aveva cercato negli ultimi
dieci
anni. L’ombra che aveva annientato la famiglia di suo
fratello, spingendolo in
quella Crociata senza speranza, non avrebbe mai messo a repentaglio la
propria
vita per salvarlo.
Forse,
alla fine, era quell’amarok,
la causa
di tutto.
***
Odori
più morbidi, più dolci e succosi. Odori
umani… o non del tutto, ma che comunque
sapevano di carne saporita e delicata.
Sì,
avrebbe mantenuto quella strada e avrebbe fatto strage di tutti coloro
che
avrebbe incontrato lungo il cammino.
***
«Che
cosa?!» esclamò Devereux, cercando istintivamente
il braccio di Iris non appena
Rock ebbe terminato di metterlo al corrente sulla situazione.
La
radio gracchiò altre parole, ma lui non le
ascoltò. Lasciata la
ricetrasmittente a Lucas – che annuì al suo
indirizzo – strinse la mano
poggiata sul braccio di Iris e ringhiò: «Quel
bastardo si sta dirigendo verso
casa nostra. Dobbiamo tornare indietro per fermarlo.»
«Raggiungerò
io Litha. Voi pensate alla vostra famiglia. Correte» disse
loro Lucas,
sospingendoli via.
Iris
non se lo fece ripetere. Pur se erano ormai nelle vicinanze del Grizzly
Mountain, dove avevano percepito l’odore di Litha –
e perciò assai lontani da
casa –, non avrebbero perso un solo attimo e sarebbero corsi
a casa alla
massima velocità possibile.
Gli
altri lupi erano troppo sparpagliati nel bosco, per poter giungere in
loro
soccorso – le squadre si erano spinte così in
là da rendere necessario l’uso
delle radio, invece del contatto mentale, e solo Charlotte si trovava
già in
zona – perciò toccava a loro quella corsa contro
il tempo.
Lucas,
invece, avrebbe pensato a supportare Litha, nel caso in cui lei ne
avesse avuto
bisogno.
Iris
e Dev sperarono davvero che Charlotte potesse giungere in tempo per
poter dare
una mano a Chelsey e Liza, e che loro riuscissero
nell’intento di raggiungere
casa in tempo per essere a loro volta d’aiuto. Diversamente,
nessuno dei due
sapeva cosa avrebbe potuto succedere in seguito.
***
Chelsey
si ridestò dal falso sonno che l’aveva presa dopo
aver tanto parlato delle
proprie paure a Diana e, balzando ritta sul divano, scrutò
ombrosa le porte
finestre, come in attesa di qualcosa.
Impegnata
a discorrere con Liza in merito alla sua scelta per
l’università, Diana sorrise
nel vedere la bambina nuovamente desta ma, quando scorse
l’ansia sul suo
viso, le domandò turbata: «Tesoro, hai avuto un
incubo?»
Nello
stesso momento, Liza ricevetta da Muninn un segnale di allerta e, a sua
volta,
scrutò ansiosa Chelsey. Era chiaro quanto, il suo sviluppato
olfatto di
licantropo, stesse percependo qualcosa provenire dal bosco.
“Stiamo
tornando
il prima possibile, mamma!” le urlò Muninn nel
frattempo.
Liza
registrò quell’informazione – aveva
mandato entrambi i corvi in perlustrazione
perché dessero una mano a Litha, perciò anche
loro si trovavano molto distanti
da casa, al momento – e, tra sé, si chiese come
agire.
Era
forse giunto il momento di gettare la maschera?
Mentre
Chelsey scuoteva il capo turbata in risposta alla domanda di Diana, la
ragazzina lanciò un’occhiata significativa a Liza
dopodiché, con uno sbuffo,
mormorò: «Che facciamo, adesso?»
Mark
si adombrò in volto, a quelle parole e, al pari di Chelsey,
anch’egli cercò con
lo sguardo Liza che, passatasi le mani sul viso percorso
dall’ansia, asserì:
«Okay, piantiamola di fingere. Non mi sembra davvero il caso,
ora come ora.
Spiegherò tutto io a Lucas.»
Diana
li guardò alternativamente con aria interrogativa e Mark,
spiacente, disse:
«Dobbiamo dirti una cosa che, forse, faticherai ad accettare,
ma si tratta
della pura verità, e non possiamo più
nascondertela.»
«Cosa
intendi dire, Mark?» mormorò ansiosa la donna.
«Non avrai per caso messo incinta
Liza? Per questo siamo qui?!»
Sia
il giovane che la ragazza avvamparono in volto, simili a due cerini
accesi e
Chelsey, nonostante l’ansia provata a causa del rapido
avvicinamento del
nemico, scoppiò a ridere ed esalò:
«Magari fosse così! Sarebbe tutto più
semplice!»
«Chelsey!»
esclamarono in coro i due giovani, fissandola rabbiosi e imbarazzati.
Lei,
per contro, scrollò le spalle nel tornare seria e
replicò serafica: «Pensate
che fare accettare a Diana il fatto che io sia un licantropo, sia
più semplice
che parlare di un’eventuale gravidanza di Liza?»
Diana,
a quel punto, fissò Chelsey con espressione sconvolta e
Mark, sospirando
esasperato, borbottò: «Liza non ci è
andata per il sottile, con me, ma anche tu
non scherzi, Chelsey. Ve lo insegnano a un corso, a sconvolgere la
gente?»
«Ma
che succede?!» esclamò a quel punto Diana,
scuotendo le braccia con aria
sbigottita.
Prima
ancora di poter dire qualcosa – qualsiasi cosa –
per chetare la madre, Mark si
bloccò nel momento stesso in cui vide Chelsey arcuarsi in
avanti e sibilare
impaurita: «Liza… è qui.»
Mandando
all’aria qualsiasi copertura, Liza portò la mano
destra dietro la schiena e,
sollevata la felpa, estrasse una pistola nichelata e
borbottò: «Guai a te se
esci, Chelsey. Mi incazzerò di brutto, se lo
farai.»
Ciò
detto, si avventurò verso la cucina sotto gli occhi straniti
e confusi di Diana
ed estrasse la spada che, fino a quel momento, era rimasta nascosta tra
gli
stipiti di un mobile. Lapidaria,
quindi,
ordinò roca: «Rimanete in casa e non vi muovete da
qui per nessun motivo.Avrò
già il mio bel daffare a tenerlo a bada,
senza dover pensare anche a voi.»
Mark
afferrò lesto le spalle della madre per convincerla a
sedersi nuovamente sul
divano e Liza, spiacente, guardò la donna con occhi colmi di
contrizione e
ammise: «Si sta avvicinando colui che la ferì alla
gamba, Diana, ma non
permetterò che entri in casa. La proteggerò a
qualunque costo.»
«Mark…
ma cosa…» tentennò Diana, rabbrividendo
suo malgrado di fronte alle parole
proferite da Liza.
«Sanno
chi ha ucciso lo zio, mamma… ed è lo stesso che
ferì te. Ma ora dobbiamo fare
quanto ci dice Liza e, se possibile, ti chiedo di non spaventarti, se
vedrai
far fare cose strane a Chelsey» la abbracciò
strettamente Mark prima di
lanciare uno sguardo preoccupato in direzione di Liza.
Lei
scosse il capo, estrasse un paio di pugnali dalla sua cintura e li
consegnò a
Mark dicendo: «Sono addestrata a combattere, e
farò quanto mi è possibile per
proteggervi. Ma sai cosa
può ucciderlo
e, se io non riuscirò, chiedo a te e Chelsey di provare a
fermarlo.»
Mark
annuì e, lasciato temporaneamente il fianco della madre, la
abbracciò con forza
e mormorò tra i suoi capelli: «Fai di tutto per
non morire. Ti prego.»
«Cercherò»
assentì lei, tentando di apparire più forte di
quanto non si sentisse in
realtà.
Chelsey
la guardò turbata, rabbrividì per un istante ma
infine disse: «Percepisco Charlotte
nelle vicinanze, ma impiegherà almeno un paio di minuti,
prima di arrivare.
Sembra rallentata da qualcosa, e correre schivando le piante non
è mai facile.»
«Riesci
a parlarle mentalmente?» le chiese Liza.
La
ragazzina scosse spiacente il capo – non era ancora riuscita
a governare quella
parte dei suoi poteri, e Chuck ipotizzava fosse a causa dei traumi
psicologici
legati al rapimento – e mormorò:
«Proverò ancora, ma dubito di riuscirci.»
Liza
allora annuì, strinse forte pistola e spada e
borbottò: «Due minuti. Okay.
Vedrò di resistere. Diversamente, tu e Mark sapete cosa
fare.»
Ciò
detto, uscì di casa sotto gli sguardi terrorizzati di tutti
e Diana, scioccata,
si aggrappò al figlio ed esalò: «Cosa
vuole fare? E perché ha quella spada?»
Mark
non riuscì a risponderre, quando vide un lupo uscire dal
fitto della boscaglia
e Diana, impallidendo visibilmente, gracchiò terrorizzata:
«E’ lui!
Com’è possibile che si trovi
qui?!»
Il
giovane guardò per un istante la madre ma, ancora, non
riuscì a proferire
parola, la mente interamente concentrata su Liza, sola contro il nemico
e
armata unicamente di una pistola e una spada.
***
“Ti
aiuteremo
anche noi, mamma!”
esclamò Muninn, sorvolando la casa assieme a Huginn,
finalmente giunti a
destinazione.
“State
lontani
dalle sue zanne, per carità!” replicò Liza, turbata
al pensiero che i
suoi corvi venissero falciati da quei denti spaventosi.
“Ti
aiuteremo.
Senza se e senza ma” protestò
Huginn, atterrando al fianco di Liza al pari di Muninn.
Lei
li scrutò ansiosa, serrando maggiormente la spada tra le
mani dopodiché,
livida, puntò l’arma contro l’amarok
– in tutto e per tutto simile a un lupo naturale –
e ringhiò: «Questa
abitazione ti è preclusa. Sei su luogo sacro senza esserne
degno, perciò ti
ordino di retrocedere e allontanarti.»
Per
tutta risposta, il lupo mutò in uomo sotto gli occhi di
Liza, chiarendo una
volta per tutte la sua natura di mutaforma. Mentre in casa Diana
strillava per
il panico e la sorpresa, la giovane Geri rimase imperturbabile e
aggiunse: «Se
pensi di spaventarmi, caschi male. Sono Geri del branco di questa
cittadina, e
so come combattere creature come te.»
«Nessuno
può vincermi. Né tu, né i
tuoi
amici licantropi» rise l’uomo, sfiorandosi con un
dito il petto villoso e
ricoperto di sangue umido, prima di portarselo alla bocca e leccarlo
bramoso.
«Divorerò anche te, così come ho
divorato quel ragazzino nel bosco.»
Liza
accusò il colpo, accigliandosi ma, sempre tenendo
l’arma sollevata, ringhiò:
«Hai ucciso Fergus?!»
«I
nomi non contano, umana. Contano solo il sapore della carne e la
dolcezza del
sangue, che io ora sento scorrere dentro di me come nuova linfa
vitale» replicò
l’uomo, avanzando di un passo prima di annusare
l’aria, sorridere ghignante ed
esclamare: «Una mia vecchia preda! Finalmente posso terminare
il lavoro che fui
costretto a lasciare a metà… non
l’avrei mai creduto possibile.»
«Fermati!»
strillò Liza, sparandogli un colpo, che centrò il
polmone destro dell’uomo.
Lui
reclinò lo sguardo, ringhiò infastidito nel
notare la ferita aperta sul torace
e lo strano liquido grigiastro che ne fuoriusciva e, con un sibilo,
ringhiò
roco: «Non puoi fermarmi …neanche con questi
strani proiettili.»
«L’avvelenamento
da argento non fa bene a nessuno, questo è poco ma sicuro, e
poi io non sono
qui per fermarti, ma solo per rallentarti» replicò
lei prima di scaricargli
addosso tutto il caricatore della sua Beretta nichelata.
I
colpi andarono tutti a segno, disegnando un discutibile dedalo di fori
e
strisce di ioduro d’argento sul corpo enorme dell’amarok che, disturbato da quel
contaminante, iniziò ad aggrottare
la fronte per il fastidio.
Non
contenta, Liza espulse il caricatore vuoto e ne inserì uno
nuovo – che si
trovava allacciato alla sua cintura – e, nuovamente, esplose
tutti i colpi
contro il mutaforma.
Questi
la fissò rabbioso, ma non demorse nella sua avanzata verso
la casa. Sì,
sembrava dolorante, ma niente affatto preoccupato
dall’avvelenamento del sangue
che, entro breve, avrebbe dovuto iniziare a fare il suo decorso.
Ansimando
per l’ansia, Liza elevò quindi la spada e si
lanciò contro di lui al pari dei suoi
due corvi mentre l’uomo, intorbidito dall’argento
liquido che si stava
mescolando con il suo sangue, ringhiò
un’imprecazione e tornò a mutare in lupo.
Ottantotto
secondi, pensò tra sé Liza
mentre si abbatteva
sul lupo.
Questi
schivò il colpo di Liza con facilità,
falciò l’aria con una zampa e gettò a
terra uno dei corvi prima di dedicare la propria attenzione
all’umana che aveva
osato ferirlo.
Liza
si lanciò in un paio di affondi di spada prima di schivare
le zanne del lupo
che, seppur ferito, sembrava non risentire granché del
veleno che aveva in
corpo.
Muovendosi
come Rock le aveva insegnato, riuscì a evitare diverse volte
sia le zanne che
gli artigli dell’amarok
ma, quando
quest’ultimo affondò una zampa nel suo polpaccio,
non poté esimersi dall’urlare
per il dolore.
Deprivata
temporaneamente del controllo sul proprio corpo, crollò a
terra, la mano
sinistra premuta sulla ferita sanguinante mentre la destra, pur se
tremante,
ancora tratteneva la spada.
Fu
in quel momento che il caos si scatenò in casa. Chelsey
urlò per la paura e la
rabbia, Diana si levò in piedi fino a raggiungere le
vetrate, dove gridò il
nome di Liza più volte, ma fu Mark a creare il panico
generale.
Quando
il giovane vide Liza cadere a terra, la gamba squarciata dal colpo di
zampa del
lupo, lanciò alle ortiche qualsiasi promessa fatta alla
ragazza e si lanciò
fuori prima che Chelsey potesse intercettarlo.
Incurante
di avere solo un paio di coltelli in argento come armi di difesa, si
scagliò
contro il lupo con un grido rabbioso ma questi, per nulla impaurito dal
suo
intervento, lo colpì con una zampata, mandandolo lungo
riverso al suolo.
Troppo
stordita dal dolore causato dalla ferita, Liza si accorse solo in quel
momento
della presenza di Mark. Nel vederlo a terra e sanguinante,
sgranò sgomenta gli
occhi e gridò terrorizzata, rammentando la Visione di Huginn
e comprendendo, finalmente, dove si
fosse trovato Mark,
nel suo incubo.
Proprio
lì, in quella stessa posizione, con il buio della notte a
calare su di loro e
le lunghe ombre del bosco a circondarli.
«No,
NO, NO!»
strillò a quel punto Liza, ora
del tutto incurante del dolore alla gamba, che sanguinava copiosamente
macchiandole i pantaloni.
Cieca
di fronte al pericolo, strinse con forza la spada per gettarsi
sull’amarok proprio mentre
Charlotte – e il
professor Sullivan con lei – sbucavano dal fitto del bosco.
Liza
non si avvide del loro arrivo, troppo furiosa anche solo per pensare
con
coerenza e, piena di una furia vendicativa mai provata prima,
levò la spada per
conficcarla nella spalla del lupo.
Il
movimento, però, non fu abbastanza veloce per impedire
all’amarok di colpire
nuovamente Mark, che venne ferito all’addome
dagli artigli del lupo.
La
ferita procurata da Liza, comunque, impedì al lupo di
affondare il colpo e
uccidere il giovane. Questo, però, non rese meno pericoloso
il nemico.
Tutt’altro.
Furioso,
il lupo volse il muso per azzannare Liza, ancora accanto a lui a causa
della
spada conficcata nelle sue carni, e che la giovane non era ancora
riuscita a
estrarre.
Il
morso perciò andò a segno, procurandole una
ferita al braccio, ma Liza non
demorse, nonostante i recettori del dolore stessero quasi esplodendole
nel
cervello.
Mentre
Charlotte caricava il lupo per distoglierne l’attenzione da
Geri, la giovane
riuscì finalmente a estrarre la spada e ad afferrarla
saldamente con la mano
del braccio sano.
«Ce
la fai a reggerti, Geri?!» gridò Charlotte,
parandosi tra il lupo e Mark e
guardandola di straforo da sopra una spalla.
Lei
assentì, ansimante e ferita pur se ancora lucida e,
trattenendo la spada con la
mano sinistra, replicò: «Atterralo! So come
ucciderlo!»
«Tutto
quello che vuoi, Geri!» acconsentì allora la
donna, snudando i denti e
caricando nuovamente il lupo.
Lupo
e donna, quindi, caddero a terra in un groviglio di corpi umani e
animali e,
mentre Donovan arrancava in direzione del figlio senza minimamente
curarsi del
resto, Liza seguì l’azione per capire quando agire.
Braccio
e gamba destra le dolevano da impazzire, rendendole difficoltoso
mettere bene a
fuoco i movimenti dei due contendenti. Inoltre, non aveva idea se i
denti del
lupo avessero reciso arterie importanti o meno. Sapeva soltanto che, se
voleva
essere curata alla svelta, doveva tagliare la testa a quel maledetto
lupo.
Reggendosi
perciò alla spada, si mosse soltanto quando vide Charlotte
bloccare le zampe
del lupo a terra, il suo peso a trattenerlo sull’erba
inzuppata di sangue e
argento.
Liza
sperò con tutto il cuore che la licantropa non si
ustionasse, con tutto quel
contaminante a macchiarle gli abiti ma, in quel momento, non poteva
fare nulla
per lei. Doveva soltato agire e portare a termine la missione.
«Spostati!»
gridò a quel punto Liza, levando alta la spada.
Charlotte
obbedì lesta e la giovane, con un colpo secco, recise la
colonna vertebrale del
lupo, annullando di fatto l’afflusso di sangue e midollo
spinale al cervello
dell’essere.
Non
contenta, piegò su un lato la spada per recidere anche
giugulare e trachea
dopodiché, distrutta dalla fatica e dal dolore,
lasciò cadere a terra la spada
e crollò in ginocchio, stremata.
«Liza!
Geri!» esclamò turbata Charlotte, raggiungendola
in fretta.
Lei
gli sorrise stanca, scivolò lentamente a terra, sul terreno
umido e freddo e,
prima di perdere i sensi, allungò una mano in direzione di
Mark e gorgogliò:
«Mark, io…»
Subito
dopo fu il buio, e non sentì più nulla.
***
Raggiunto
che ebbe il figlio, mentre la lotta ancora infuriava attorno a lui,
Donovan lo
sollevò quel tanto che bastò per prendergli il
capo tra le braccia. Inorridito,
quindi, osservò Liza decapitare totalmente il lupo prima di
crollare a terra
priva di forze.
Non
riuscì a comprendere il perché della spada,
né perché Charlotte continuasse a
chiamarla Geri, fu unicamente consapevole
dell’immobilità del lupo e del sangue
che ricopriva l’addome del figlio.
Fu
in quell’istante che Diana uscì caracollando, le
lacrime a rigarle gli occhi,
mentre Chelsey la seguiva dappresso, in lacrime a sua volta ma con
preoccupanti
zanne che nulla avevano a che vedere con la normale dentatura di una
dodicenne.
Lei
ricambiò lo sguardo dell’insegnante solo per un
attimo prima di precipitarsi
dalla cugina mentre Diana, accosciandosi accanto al figlio, si toglieva
la
giacca per premerla sull’addome di Mark.
«Stai
bene?» domandarono in coro i coniugi prima di abbracciarsi in
lacrime.
Diana
poi assentì nervosamente, guardò ancora una volta
il corpo morto del lupo e
balbettò: «E’… è
l-lui, D-Don… l’ho
riconosciuto…»
L’uomo
annuì più volte, ben sapendo di cosa stesse
parlando, prima di volgere lo
sguardo verso il trio di donne a poca distanza da loro e domandare a
mezza voce,
schiacciato da una stanchezza mai provata prima:
«Come… come sta?»
«Ha
bisogno di un dottore, e alla svelta. Queste ferite hanno bisogno di
essere
suturate» dichiarò recisamente Charlotte,
afferrando il cellulare per poi dire
cupa: «Chuck… bene, ci sei. Muovi il culo e vieni
al Vigrond. Sì, lo so che ti
hanno portato Mike. Lascia che di lui se ne occupi Doug. Liza
è stata ferita in
modo piuttosto importante. Inoltre, tolta Liza, abbiamo anche un altro
ferito
da artigli da mettere sotto osservazione.»
Detto
ciò, chiuse la comunicazione e, scrutando cupa Donovan,
aggiunse: «Non sappiamo
cosa possano fare gli artigli di quel lupo, perciò dovremo
tenere sotto stretta
osservazione suo figlio fino alla prossima luna piena…
ammesso e non concesso
che, con gli amarok, funzioni come
per i licantropi.»
«Cosa
intende dire?» sibilò turbato l’uomo,
lanciando una rapida occhiata a Mark
prima di tornare con lo sguardo alla figura di Charlotte.
«Che
c’è la possibilità che i suoi artigli
siano infettivi come i nostri, perciò suo
figlio – e anche la stessa Liza – potrebbero mutare
in lupi» gli spiegò la
donna con aria preoccupata e per nulla tranquilla.
Nell’udire
quella notizia del tutto inaspettata, Donovan si irrigidì,
il volto divenne di
ghiaccio e, lentamente, si levò in piedi, lasciando che il
peso del figlio
gravasse solo su una scioccata Diana.
«Lei
mente, vero?» ringhiò Donovan
all’indirizzo di Charlotte.
«Affatto.
Sappiamo ben poco, di questa maledetta belva, perciò tutte
le ferite dei due
ragazzi andranno monitorate almeno per le prossime tre
settimane.»
Donovan
scosse il capo per l’incredulità e la rabbia e,
facendo un passo indietro,
sibilò contrariato: «Non può! Non può diventare
come …come quell’essere!»
«Dovrà
accettarlo alla svelta, invece, se vuole sopravvivere a
stanotte» gli ritorse
contro la licantropa, carezzando con delicatezza il viso e i capelli di
una
esanime Liza. «Se non sarà in grado di mantenere
il silenzio su ciò che ha
visto, saremo costretti a prendere seri provvedimenti, e non credo che
le
piacererebbero.»
«Don…
Don, calmati» mormorò nel contempo Diana,
guardandolo con espressione turbata e
sì, spaventata.
Se
dalle parole di Charlotte, o dal suo comportamento gelido, Donovan non
seppe
dirlo. Sapeva soltanto che non poteva in
nessun modo accettare le parole che la licantropa aveva
appena proferito.
Dopo
alcuni momenti di incredulità scosse il capo, si
allontanò ancora e replicò con
le lacrime agli occhi: «Non ce la faccio. Non posso
accettarlo. Rispetterò il
silenzio, ma non chiedetemi di più.»
Ciò
detto, si allontanò caracollante sotto gli occhi in lacrime
della moglie e
quelli torvi di Charlotte che, levatasi in piedi dopo aver lasciato
Liza a
Chelsey, afferrò nuovamente la sua ricetrasmittente per
parlare con i suoi
superiori.
Una
volta inseritasi sul canale dei licantropi, disse: «Confermo
uccisione dell’amarok e
il ferimento di Geri e di un
civile. Medico già in strada. Chiedo invio di una sentinella
presso
l’abitazione dei Sullivan. C’è il
rischio di una fuga di notizie. Allertate
Freki e Fenrir.»
«Affermativo,
Charlotte. Giro la notizia agli altri» rispose Dev con tono
fiacco e roco. «Noi
stiamo arrivando. Mi confermi che Liza non è in pericolo di
vita?»
«Confermo,
Sköll, ma non so che dirti in merito a quanto
accadrà dopo» sospirò Charlotte,
lanciando un’occhiata densa di preoccupazione
all’indirizzo della giovane Geri.
«Già,
lo immagino» sospirò cupo Dev, chiudendo con lei
per avvertire il resto del
gruppo.
Charlotte
sospirò nel chiudere la comunicazione e, mentre
l’auto dei Sullivan si
allontanava dal vialetto d’ingresso della
proprietà dei Saint Clair, la
licantropa si accucciò accanto a Mark. Sorridendo poi
spiacente a Diana che,
silenziosa, stava piangendo lacrime amare mentre cullava il figlio
contro di
sé, mormorò con calore: «Sarai accudito
al meglio, ragazzo. Abbiamo due
bravissimi dottori, non temere.»
«Liza?»
riuscì a domandare lui, nonostante il dolore
all’addome gli strappasse il fiato
dai polmoni.
«E’
svenuta, ma respira autonomamente. Il dolore doveva essere davvero
troppo, da
sopportare. Quanto a te, hai fatto una cosa coraggiosa, ma
assolutamente
stupida. Lei è addestrata a combattere contro di noi, ma tu
no» gli spiegò la
donna, carezzandogli i capelli inumiditi dal sudore per poi sorridergli
piena
di ammirazione.
«Non
ce l’ho fatta a resistere» ammise lui, lanciando
uno sguardo in direzione della
figura di Liza. «Il pensiero che fosse qui fuori, e soltanto
con i suoi corvi
ad aiutarla, mi ha fatto uscire di testa.»
Charlotte
guardò a
quel punto Muninn e Huginn,
ferito il primo e sano e salvo il secondo, sorrise a mezzo e disse:
«Sono
legati alla loro Geri, e si sarebbero battuti fino alla morte, per
lei.»
«Li
capisco» sospirò Mark prima di cedere alla
stanchezza e lasciarsi andare contro
la spalla di Diana, che scrutò ansiosa Charlotte.
La
licantropa, allora, le diede una leggera pacca sulla spalla e disse:
«Mi spiace
che abbia dovuto scoprire cose simili in questo modo. Non è
mai facile a
prescindere, ma così… Dio! Non oso neanche
immaginare la sua confusione e la
sua paura.»
Diana
allora deglutì a fatica, scosse il capo e
replicò: «N-non importa. L-Liza si
salverà, vero?»
«E’
l’unica cosa di cui posso essere certa. Il cuore batte con
forza e il respiro è
regolare. Quanto al resto…»
Nel
dirlo, reclinò il capo a scrutare la mano di Diana, che
premeva la propria
giacca sul ventre del figlio e, con un sospiro, scosse impotente il
capo.
In quel momento, potevano solo attendere. Non v’era altro che potessero fare.
N.d.A.: Altro
capitolo piuttosto lungo, ma anche in questo caso, non potevo proprio
fermarmi. C'era troppa carne al fuoco e, almeno nel caso dell'amarok, dovevo arrivare in fondo
alla sua storyline. Ciò che avverrà con akhlut, invece, sarà
ben diverso e non si concluderà ora. Dovremo sopportarla
ancora per un po'.