When the time will
come
Why you? Why not him?!
«Traditore.» Jimin chiuse la telefonata inveendo mentalmente contro Taehyung:
prima aveva promesso di non parlarne con nessuno, poi aveva ritrattato con una
confessione all’ultimo. Non contento, l’aveva chiamato per avvertirlo, il senso
di colpa a logorargli la coscienza macchiata.
«Stupido di un traditore.» Rincarò la dose assottigliando lo sguardo al buio di
quella notte tetra, ricercando un segno in un luogo che a quell’ora era
tutt’altro che familiare; un movimento tra le tenebre, una voce amica.
Nulla.
Provò a chiamare Jungkook con un sussurro. Perché
poi? Chi avrebbe potuto disturbare in un parco di notte? Nessuno, proprio
nessuno. Ritentò con voce più alta, fino a che notò la debole luce accesa dello
schermo di un cellulare. L’aveva trovato. Lo raggiunse accelerando il passo
guardandosi continuamente a destra e a sinistra, senza mai voltarsi: quel posto
gli metteva i brividi.
«Jungkook?» Non un’affermazione, ma una domanda
dubbiosa: certo che era lui, chi altri sarebbe potuto
essere?
Un tossico.
Uno stupratore.
Un malintenzionato.
Un ladro.
Ecco perché aveva esitato fino all’ultimo, prima di raggiungerlo. Lo richiamò
quando ormai distava ad un metro da lui.
«Ehi, sei arrivato…» La voce era roca, spezzata da un improvviso colpo di
tosse. «Allora, che volevi dirmi a quest’ora? Non ti sembra un po’ tardi?»
«Senti chi parla, quello che decide di andarsene a zonzo in piena notte. Ehi, almeno
sei vestito abbastanza? Non vorrai mica ammalarti proprio adesso.»
Risero sereni appianando parte della tensione. Sapevano di dover affrontare un
argomento importante, un tasto dolente, un nervo scoperto che pulsava giusto
sottopelle. Non era affatto tipico di Jimin infatti zittirsi improvvisamente,
di solito era difficile fermarlo.
Non quella sera però, sembrava non volesse neppure riprendere a parlare.
«Possiamo anche tornare a casa, se vuoi. Starsene qui a fare scena muta mi
sembra così stupido.» Jungkook aveva appoggiato lo
smartphone con lo schermo rivolto verso la superficie di legno consunto della
panchina, ignorando di fatto un messaggio appena ricevuto. Jimin si massaggiò
la nuca scompigliando i capelli chiari in modo tutt’altro che disinvolto:
improvvisamente la tensione che era calata poco prima s’era impossessata
nuovamente di lui, instillandovi un dubbio prepotente. Sentiva formicolare le
dita delle mani.
Decise di sedersi di fianco all’amico.
Andava detto.
Sarebbe stato per il loro bene, giusto? Questo continuava a chiedersi cercando
nell’altro una conferma di cui aveva bisogno.
«Senti, non sono un idiota. Parla. Deve essere importante davvero, se non
riesci nemmeno a cominciare.» Voleva sorridere Jungkook,
cercando di fare una delle sue solite battute, ma non riusciva neppure ad
entrare nel giusto mood.
«Ok. Jin partirà tra due mesi.»
L’aveva detto, ci era riuscito. Aveva trattenuto il fiato ed aveva buttato
fuori quell’informazione come si fosse trattato di un delicato segreto di
stato, protetto da pochi eletti – scelti da Jin
stesso, una pessima idea. Era riuscito a palesarlo con una difficoltà tale da
fargli fisicamente male. Jin si sarebbe sicuramente
infuriato con lui, avrebbe potuto accanirsi, anche prenderlo a pugni.
Andava detto.
Jungkook doveva sapere, nonostante l’insistenza
contrariata del diretto interessato. Jimin sbuffò spaesato, osservando un punto
a caso davanti a sé, pensando al colpo basso rappresentato dal tener nascosta una
notizia tanto importante: avrebbe aspettato il giorno prima, durante la
preparazione delle valigie? No, Jimin non ci stava: come amico di entrambi
s’era fatto carico del dovere di intervenire, dovere non riconosciuto dal
membro più anziano del gruppo.
Si era perso in congetture, spinto dal silenzio assordante, quasi un ronzio
profondo a occupargli completamente la mente. Stava attendendo una risposta,
una qualsiasi. Cosa aspettava a parlare il ragazzo?
«Ehi, mi hai sentito?»
Era difficile notare l’espressione sul suo volto, l’illuminazione quasi assente
non giocava certo a suo favore. Eppure Jimin giurò a
se stesso d’aver intravisto delle lacrime fermarsi a stento in quegli occhi
lucidi. Poteva essere, la situazione era quel che era, e Jungkook
s’era mostrato particolarmente emotivo nell’ultimo periodo; qualsiasi cosa
presente in quelle iridi scure sparì, prima di spezzarne la voce.
«Quindi è così.»
Atono.
«Sì.»
«Ho dovuto saperlo da qualcun altro. Ti ha mandato lui? È stato quello stronzo
a chiederti di dirmelo?»
«No, no aspetta… in realtà…» Jimin si fermò calciando con la punta della scarpa
parte della ghiaia che aveva smosso qualche minuto prima.
«Continua.»
Non aveva mai avvertito tanto astio in lui. Ingoiò palesemente a disagio: tutta
la buona volontà con cui aveva esordito era andata a farsi fottere.
«Jimin, cazzo, rispondi!»
Quest’ultimo aveva chiaramente udito i suoi denti digrignare. Si sentiva
colpevole ora, si stava pentendo d’essersi intromesso.
«Ho detto di rispondermi.»
La rabbia aumentava con il passare dei secondi: ribolliva prepotentemente nel
sangue, percorrendo le vertebre salendo la spina dorsale fino alla nuca. No,
non era solo quello stato d’animo a scuoterlo: mancava una sessantina di
giorni.
Otto settimane per poter riflettere sul da farsi, otto, per trovare una
soluzione.
Era stata coinvolta una terza
persona però. Un estraneo alla faccenda. Perché? Jungkook
si chiese più volte il motivo, infuriato, deluso, consapevole. Perché un altro?
«Non mi ha mandato lui. Sono venuto io, però Taehyung è andato a spifferargli
tutto.»
Non uno, ben due a saperlo prima di lui. Quanto contava come costante nella
vita di Jin, se il ragazzo s’era premurato di
avvertire soltanto gli altri, ed escluderlo?
«Vuoi dire che non ti ha nemmeno chiesto di parlarmene?» Jungkook
sentiva le gambe tremare, lo stomaco vuoto contrarsi bruciando, come bruciava
il liquido che stava risalendo velocemente nell’esofago. La situazione era
ancora peggiore se possibile. Si sentiva cadere, le forze venir meno. Tossì
ancora una volta, un’altra e una di nuovo; i sudori cominciarono a scendere
gelidi dalla nuca alla base della schiena. Avvertiva chiaramente ogni singola
goccia lasciare scie liquide sotto la maglia troppo leggera. Si sentì chiamare
più volte, ovattato, sempre più lontano.
«Jungkook? Ehi, non fare scherzi. Cazzo, mi stai
facendo preoccupare… rispondi, rispondimi porca puttana!»
Vide una luce abbagliante annullargli il campo visivo: Jimin gli stava puntando
addosso la torcia del cellulare. La preoccupazione dell’altro lo stava
avvolgendo completamente, imprimendosi nella sua testa.
Qualcosa non andava.
Si accoccolò sulla superficie rigida della panchina, tremando convulsamente.
Era stanco, enormemente stanco. Prima di chiudere gli occhi gemendo qualcosa di
incomprensibile, udì l’amico parlare al telefono con una certa fretta.
«Pronto, Jin? Ti prego, dimmi che sei fuori casa…
Cosa? No, cioè, sì… fai presto per favore! Non sta bene…» Fece una breve pausa,
«sta tremando, e scotta terribilmente… è vestito troppo leggero, ed è tutto
sudato. Fa presto, corri!»