La
danza degli spiriti
I
had a dream that you were mine
I’ve
had that dream a thousand times
A
thousand times, a thousand times
I’ve
had that dream a thousand times
I
left my room, on the west side
I
walked from noon, until the night
I
changed my crowd, I ditched my tie
I
watched the sparks, fly off the fire.
(A
1000 times, Hamilton Leithauser + Rostam)
Ci sono notti
che sono
più tristi e lunghe delle altre, in cui le tenebre, avide,
inghiottono il sole
e si rifiutano di lasciarlo andare, proprio come farà Fenrir
durante il
Ragnarok, quando gli dèi combatteranno l’ultima
delle loro battaglie – così
diceva una profezia antica, la Voluspa, che lei, a
volte, recitava
mentre filava la lana, davanti a un fuoco incapace di scaldarla[1].
Ne mormorò i versi anche in quella sera stregata, in cui il
tempo sembrava
essersi congelato insieme ai rami protesi degli alberi contorti e in
cui
persino i fiocchi di neve danzavano irreali. Tutta Asgard era ricoperta
da un mantello
bianco e spesso ed era l’ora in cui le ombre prendevano forma
e consistenza, i
fantasmi camminavano, per l’unica volta all’anno,
sulla terra. Per tenerli
lontani esistevano un’infinità di trucchi
– creare un recinto invalicabile sigillando
porte e finestre col sale, placare gli spiriti con dolcetti lasciati
sulla
tavola imbandita prima di andare a dormire, ma Sigyn non fece niente di
tutto
ciò.
Forse, sperava
che uno di
essi, il più beffardo e crudele, bussasse alla sua porta
mostrandole, un’altra
volta ancora, il suo portamento fiero e sfrontato, da
principe perduto.
Loki Laufeyson.
Si
accoccolò sulla
poltrona che teneva accanto al camino, con i piedi sollevati per non
toccare
terra e un vecchio libro di fiabe tra le mani infreddolite. Il fuoco
guizzava
come se lottasse contro il gelo che regnava nella stanza e di fuori
– il fiordo
si era ghiacciato, trasformandosi in un’incantevole prigione
di bianco, irraggiungibile,
insormontabile. Ma anche se l’acqua non si fosse trasformata
in una lastra dove
i lupi affamati scivolavano ululando con dispetto, Sigyn non si sarebbe
allontanata
da quella casa eternamente fredda. Non voleva – o non
poteva, non lo
ricordava più.
C’era
stato un tempo in
cui Frigga la invitava a trascorrere a palazzo la ricorrenza del
solstizio
d’inverno. In cui Thor, con un sorriso allegro e le braccia
cariche di cibo e
coperte, le raccontava qualche prodezza particolarmente divertente con
lo scopo
manifesto di strapparle un sorriso. A volte, lei, pur rifiutando di
seguirlo ad
Asgard, gli preparava una tazza di idromele caldo e gli chiedeva con un
sussurro basso di raccontare ancora – di raccontarle di
lui.
E il dio del
tuono,
allora, accettava il calice e, dopo un sorso lungo e stordente, parlava
del
fratello perduto sforzandosi di usare un tono neutro e incolore. Ma il
rimpianto s’infiltrava nelle sue frasi, caricava le sue pause
insieme all’ira,
e gli occhi di Sigyn si riempivano di lacrime, le sue labbra si
incurvavano in
un sorriso dolce e distante. Il primo figlio di Odino la
cercò per molti anni
finché, a un tratto, come tutti, si arrese.
Sì,
la notte del
solstizio, Sigyn non festeggiava mai come gli altri. Rimaneva a fissare
le
lingue di fuoco o fingeva di leggere, prestando attenzione a ogni
rumore,
scricchiolio, soffio di vento. Si accertava che ci fossero i dolci sul
tavolo,
che il sale non impedisse ai fantasmi di entrare. A volte spalancava la
porta
nonostante fuori nevicasse e gridava frasi esasperate
all’oscurità e alle
tenebre impietose. Poi, dopo aver fissato il buio a labbra strette ed
essersi
avvolta nel mantello, si rendeva conto
dell’inutilità del suo gesto e rientrava
senza voltarsi indietro, con addosso un gelo capace di ghiacciarle le
vene e il
cuore, ma non i pensieri. Coloro che abitavano nelle case che
circondavano il
fiordo e quelli che vivevano nel palazzo di Odino dicevano che era
pazza e
aveva perso la ragione. La chiamavano strega e temevano persino di
avvicinarsi
alla casa sempre più lugubre dove lei viveva nella sua
ostinata solitudine,
nell’attesa, vana e disperata, di un uomo che non sarebbe mai
più tornato, di
cui lei non riusciva più nemmeno a pronunciare il nome.
Sigyn era stata
una
bambina strana e silenziosa, col naso perennemente affondato nei libri,
gli
occhi persi in dettagli che per tutti gli altri sembravano non essere
importanti. C’è chi dice che fu allora che conobbe
il dio dell’inganno. Altri, invece,
sostengono che il loro primo incontro avvenne quand’erano
ragazzi, durante
qualche festa o nelle tende dei guaritori che odoravano di erbe
medicinali e
strane misture. A lei sembrava che tutto ciò fosse avvenuto
secoli prima, in un
tempo così distante da appartenere a un’altra
vita. Una che, per quanto si
sforzasse, non riusciva a dimenticare – non poteva
lasciar andare.
Così,
anche quel
solstizio scelse di chiudersi nella sua ostinata solitudine. Mentre
Asgard e
tutte le dimore degli Æsir si illuminavano di migliaia di
calde luci, lei
rimase nella penombra delle sue poche stanze, a fissare parole e frasi
di cui
non riusciva ad apprezzare il senso, a ricordare quando partecipava ai
banchetti dove si mangiava, beveva e cantava per tutta la notte, certa
che,
come sempre, nessuna ombra avrebbe turbato la quiete stregata e irreale
della sua
casa dimenticata vicino a un fiordo di ghiaccio.
Fuori, il vento
che
imperversava fin dal primo pomeriggio, aveva preso a soffiare con
impietosa violenza
contro le imposte sprangate e cigolanti, a infuriare contro gli alberi
della
vicina foresta. Era un vento di tormenta che portava neve e gelo dalle
montagne
che confinavano con Jotunheim. A un tratto, il fuoco guizzò
e si arrotolò nel
camino, sussultando, e due colpi secchi fecero sobbalzare Sigyn.
Provenivano
dalla porta.
Si voltò, senza osare nemmeno poggiare la punta dei piedi
sulle assi di legno
del pavimento. Il cuore perse un battito; decise che era stato il
vento. Si
sforzò di posare di nuovo l’attenzione sulla fiaba
che stava leggendo, ma il picchiare
alla porta riprese, assumendo la forma inconfondibile di un bussare
arrogante.
Tre colpi secchi e decisi, quasi impazienti.
Si
alzò senza osare
sperare e, prima di poter muovere un solo passo, l’uscio si
spalancò con
violenza, facendo entrare fiocchi di neve, vento e l’ombra
altera di un uomo di
cui lei non aveva mai dimenticato né lo sguardo rovente
né il sorriso beffardo.
Gli spettri non
bussano
alle porte, pensò. Scivolano nel buio e prendono forma e
consistenza, portando
con loro ciò che rimane di ricordi, sogni, palpiti del
cuore. Rimase in piedi
di fronte alla poltrona, senza accorgersi che il libro era caduto a
terra.
L’ospite
si scrollò la
neve dal mantello e tiro giù il cappuccio che gli copriva il
volto. Una
scintilla di curiosità gli illuminava gli occhi di un verde
chiarissimo e
leggermente cangiante, che virava all’azzurro.
Aprì le braccia come per farsi
ammirare meglio e mosse un paio di passi verso di lei. Sigyn vide che
sul pavimento
di legno c’era traccia d’acqua e
deglutì, incapace di rispondere, spaventata
all’idea di formulare nella mente ciò che le
suggeriva l’evidenza, forse.
“Non
mi aspettavi?” le
domandò l’ospite, scrutando l’arredo fin
troppo semplice e dimesso e
avvicinandosi a una libreria stretta. Passò le dita sui
dorsi consunti dei
volumi disposti con ordine e raccolse, con un gesto fluido ed elegante,
quello
che le era caduto dallo stupore. Glielo porse. “Era la tua
festa preferita,
questa. Pensavo di trovare candele e luci e idromele a
volontà. Ricordo che
mettevi il vischio sopra ogni porta e amavi la compagnia.”
Sigyn si morse
le labbra.
“Era tanto, tanto tempo fa. Poi, tu te ne sei
andato.”
“E tu
hai scelto di
rinchiuderti qui, in questa capanna desolata che ha il solo pregio di
averti
vista sorridere,” la lusingò con un ghigno, tutto
sommato mesto, quasi iroso.
Era come se rievocare inverni lontani e felici, vissuti insieme,
riaprisse una
ferita ancora dolente, scatenando lo sdegno del fiero principe di
Asgard.
Fece un passo
indietro e lui
sospirò, tentando di rettificare. “Rendiamo questo
posto un po’ più caldo e
accogliente, mia signora. Ti va?” Senza attendere la
risposta, mormorò un paio
di rune e il capanno da caccia si trasformò in un luogo
incantato. Ricchi rami
di vischio e di ginepro decoravano le porte, i pochi mobili, le mensole
della
libreria e una miriade di candele regalarono improvvisamente una luce
calda e
soffusa all’ambiente. Persino il fuoco nel camino
guizzò con più forza,
scaldando le mura impregnate di umidità. La tavola stretta e
traballante si
riempì di primizie, cibi e corni d’idromele colmi
fino al bordo.
Ritta come un
fuso, Sigyn
seguì la nascita di quelle illusioni tanto vivide da
sembrare reali, chiedendosi
come fosse possibile che un fantasma riuscisse a usare la magia.
Avvicinò la
punta delle dita al caminetto e avvertì il caldo tepore
sprigionato dalle
fiamme. “Cosa stai facendo, Loki? È magia o
un’illusione?”
Le rivolse un
sorriso
furbo e disarmante. “È così
importante?”
Sigyn scosse la
testa.
No, forse non lo era. “Dove sei stato, tutto questo
tempo?”
“Ho
viaggiato, mia
signora. Ho attraversato il tempo, le dimensioni, le galassie. Ho visto
civiltà
di cui nessuno, ad Asgard, conosce l’esistenza. Ho combattuto
guerre di cui non
m’importava nulla e altre su cui ho puntato ogni
cosa,” chiosò cantilenante,
senza mascherare una punta d’orgoglio. Osservava il suo
prodigio e lei come se
facessero parte di un arazzo tessuto dalle fate.
“Quando
sei caduto dal
Bifrost, avevi il cuore pieno di rancore,” ricordò
Sigyn. Fuori il vento
ululava feroce e la tormenta infuriava. Se non ci fosse stato il dio
dell’inganno, accanto a lei, avrebbe creduto che le finestre
o il tetto
avrebbero ceduto sotto la furia degli elementi. Invece, la sola
presenza della
figura slanciata e sicura di Loki sembrava annullare tutto il resto. Si
chiese
se, allungando le dita, avrebbe potuto accarezzare la sua mascella
affilata e
volitiva, sfiorare le labbra ironiche segnate da una cicatrice antica
che lei
aveva curato. Provò una nostalgia profonda e senza soluzione
per i baci urgenti
e affamati o dolorosamente lenti, che si erano scambiati in quella
stessa
stanza, lontani da ogni sguardo o maldicenza, stesi su un letto
allestito in
fretta, con i vestiti sparpagliati sulle assi del pavimento.
Il riferimento
all’esilio
freddò lo sguardo chiaro dell’Ase.
Valutò se risponderle o lasciare che il
silenzio cadesse tra loro come un velo, poi, con tutta
probabilità, pensò anche
lui che quella era una notte maledetta e incantevole, irripetibile.
“Ho
affrontato la giustizia di Asgard a testa alta. L’ho guidata
e l’ho salvata. Mi
sono vendicato di chi mi ha rinchiuso e di chi mi ha
tradito,” raccontò
laconico, raddrizzando ulteriormente le spalle fiere. Si
voltò verso la tavola
imbandita e raccolse due calici, scegliendo di annegare
nell’idromele la parte
della storia che non riusciva a raccontarle – la fine mesta
di Odino, che, solo
in punto di morte, era riuscito a guardarlo con orgoglio e a
riconoscere, in
lui, qualcosa di se stesso – della sua parte più
spregiudicata e astuta,
almeno.
♥
Ci sono notti
che sono
più tristi e lunghe delle altre, in cui le tenebre, avide,
inghiottono il sole
e si rifiutano di lasciarlo andare: quella del solstizio è
la più malinconica e
lugubre di tutti, perché mentre le case si colorano di
addobbi e sfumature
dorate e le cucine diffondono amori succulenti, fuori la luce sbiadita
dura infinitamente
poco e la nostalgia per ciò che è stato e non
sarà più si aggrappa all’anima senza
lasciarla andare.
“Forse
un giorno mi
racconterai di più, delle tue avventure.”
“Senz’altro,”
mentì il
dio dell’inganno. Le offrì il corno
d’idromele e bevve un sorso più che
generoso, cancellando il sentore di un passato che non desiderava
condividere,
ma solo scacciare.
Sigyn ne
sfiorò con la
punta delle dita gli intarsi, ringraziandolo mentalmente per la domanda
che aveva
evitato di farle, di cui, certamente, conosceva già la
risposta. Assaggiò il
liquido denso e corroborante lasciando che il suo calore le scivolasse
nella
gola, evocando il ricordo del tremito fatto di paura e di desiderio che
la
sconvolgeva mentre, senz’altro addosso che un ciondolo
antico, le mani di Loki
la accarezzavano con sfacciata lentezza, desiderose di conoscere ogni
curva del
suo corpo e di scoprire come farla sussultare fino a dimenticare dove
fosse e
che, fuori dalla finestra, la neve cadeva. E lei gli graffiava le
spalle, gli
baciava le labbra increspate in un sorriso lupesco e
s’inarcava, impaziente e
spaventata e felice di una felicità folle e sconsiderata.
In quella stessa
notte,
in quell’identica casa sulle rive del fiordo, si erano amati,
molto tempo
prima. Senza promesse, trascinati solo da sguardi roventi e frasi
secche e
pungenti, si erano spogliati, scoperti, cercati. Voleva appartenergli e
che lui
le appartenesse, ma non aveva osato dirglielo.
“Questa
è la notte dei
fantasmi,” sussurrò come se volesse avvertirlo.
La bocca di Loki
si piegò
in una smorfia indecifrabile, il suo sguardo saettò, per un
momento, lontano
dal suo. “Lo so. Dammi le mani, voglio farti ballare
– è la notte del solstizio
e tu lo adoravi – ti ho vista così tante volte
buttare il capo all’indietro e
danzare e ridere e cantare. Sembravi non stancarti mai.”
Nella penombra
incantata e rossastra la trascinò in una piroetta che
sollevò un nugolo di
polvere dorata e la condusse con presa sicura nella camera spoglia, al
ritmo di
una musica che esisteva solo nella loro memoria o forse c’era
davvero ed era
l’ennesimo frutto degli scherzi e delle illusioni del dio
degli inganni. Sigyn
tremò, quando le sue mani incontrarono quelle di Loki. Era
vero, era reale e la
stringeva in quella sera magica e fatata trasformando la notte
più oscura
dell’anno in quella più dolce e luminosa.
Osò
illudersi che fosse
fatto di carne e sangue e sollevò il mento con fierezza.
“Non mi hai mai
invitata,” ricordò con una punta
d’orgoglio.
Ad Asgard, lei
gli
passava accanto con esibito spregio, inconsapevole del fremito di
dispetto e di
desiderio che suscitava in Loki, impassibile e freddo solo
all’apparenza. L’Ase
le lanciava occhiate furibonde, rapide e sfacciate come uno strappo,
che
indugiavano a tradimento sul sudore che le imperlava il collo e il
principio
del seno al termine di un ballo, sulla bocca rossa morbida e invitante,
sulla
stoffa tesa che aderiva perfettamente alla sua pelle, esaltando le sue
curve di
donna. Inebriato dal profumo dolce e lieve di lei, accompagnava quegli
sguardi
con una frase cattiva o inopportuna a cui Sigyn ribatteva rapidamente
con un sarcasmo
altrettanto perfido, facendo attenzione a non sfiorarlo neppure con
l’orlo
della gonna, sforzandosi di rendere il più breve possibile
qualsiasi contatto
visivo tra loro. Faceva di tutto per evitarlo, ed era capace di
riconoscere
l’andatura elastica e fierissima del principe di Asgard tra
migliaia di altre,
così come distingueva i suoi passi nervosi. Storceva la
bocca in una smorfia
quando le sue amiche sottolineavano che era agile, forte e bello: lo
disprezzava e tutto il resto, semplicemente, non
doveva esistere, non
era importante.
L’ingannatore
si chinò
verso la sua bocca e negli occhi gli brillò una luce
giocosa. “Una volta l’ho
fatto, ti ho invitata” la corresse.
Fuori dalla
casetta, la
tormenta si accaniva, impietosa, sul fiordo. Sigyn strinse le labbra e
sentì
che le sue ginocchia si erano fatte improvvisamente molli. “E
non avresti
dovuto.”
Credevano di
detestarsi
da tutta la vita, invece si piacevano fino a volersi con disperazione
– avevano
confuso il rancore col desiderio come scambiarono, più
avanti, il piacere con
l’amore. O, forse, chiamavano con due nomi diversi la
medesima cosa.
Loki si
fermò nel centro
della sala. Uno dei suoi stivali calpestò una perla ormai
opaca, conficcata
chissà da quanto tra le assi del pavimento.
L’avvicinò fino a stringere il suo
corpo flessuoso al proprio, respirando il suo profumo di miele e
vaniglia. “Non
avresti dovuto smettere di festeggiare il solstizio per aspettare dei
fantasmi,
Sigyn.”
Le dita di lei
strinsero
la pelle della corazzata intrecciata. “Ho dovuto seguirli,”
sospirò con
una nota di malinconia, nascondendo il viso sul suo petto.
♥
Anche quella
volta si
festeggiava il solstizio, ad Asgard. Sigyn aveva i capelli acconciati
con fili
di perle e gli occhi carichi di una luce festosa. Rideva e
chiacchierava con le
sorelle, quando Loki si avvicinò con grazia felina
chiedendole la cortesia di
concedergli un ballo. Sulle labbra della ragazza il sorriso si spense e
la
proposta inaspettata le impedì di trovare una battuta salace
con cui rifiutare.
Accettò
e fu un errore –
se ne accorse dal ghigno breve trionfante del principe cadetto di
Asgard, lo
capì quando le dita dell’Ase le sfiorarono la
schiena e lei fremette, ne ebbe
la certezza quando non trovò nessuna cattiveria da dirgli e
lasciò che la sua
mano indugiasse sul suo petto ampio e largo, di guerriero, consapevole
che il
loro ballo durava da troppo tempo. Glielo disse sulla bocca, mentre lui
l’afferrava
per i fianchi rotondi spingendola contro il muro,
nell’oscurità di un corridoio
del palazzo che nessuno percorreva mai – lo detestava
perché era caos, era
fuoco che le infiammava i lombi, era infedele e bugiardo e sprecava la
sua
intelligenza appresso a trame meschine e piani ignobili. Le sue labbra
infide e
sottili le sfiorarono il collo proteso e Sigyn pensò a tutto
quello che stava
perdendo nel momento in cui Loki le lambiva la pelle con vorace
lentezza.
“È
un errore,” lo
supplicò scuotendo la testa, chiudendo gli occhi per non
vedere.
“Di
quelli incantevoli.”
“Non
qui, non così,”
insistette, provando a scostarlo e sollevando le ciglia per incontrare
il suo
sguardo.
“Allora
ho un posto. Ti
piacerà.”
La condusse in
un vecchio
capanno da caccia riadatto a casa, che si affacciava sul fiordo.
Nessuno lo
reclamava né se ne occupava, così Loki lo aveva
eletto a suo rifugio
personale[2].
Non l’unico, ma uno dei molti – di sicuro, quello
più indicato per portarci lei,
che, stringendosi la pelliccia al collo, ne riconobbe con un filo di
voce la
rustica bellezza, la magnifica posizione. Nevicava anche quella notte.
Entrarono nella dimora in silenzio e l’ingannatore
illuminò ogni cosa. Sigyn
prestò attenzione a ogni dettaglio, spostando lo sguardo
curioso e mobile su
ogni oggetto, decorazione o particolare.
Il dio
dell’inganno non
le chiese se il posto le piacesse. Glielo lesse nel sorriso incerto,
nello
sguardo rapito. Rimase in silenzio anche quando iniziò a
spogliarla, con solo
una luce carica di sfida negli occhi – prima il mantello, poi
la cintura color
argento, la spallina leggera, i lacci del corsetto. Assaggiò
ogni lembo di
pelle che scopriva e di cui rivelava la bellezza, mentre Sigyn
socchiudeva le
palpebre e buttava il capo all’indietro, offrendosi alle sue
carezze intense,
ai baci troppo lunghi e avidi e prepotenti. Loki esplorò i
fianchi dolci, i
seni tremanti e il collo proteso con feroce dedizione, arrivando a
strapparle
ansiti leggeri, sospiri troppo profondi. Entrambi sapevano che, se si
fossero
parlati, la magia si sarebbe interrotta: lei lo avrebbe accusato di
essere
volitivo e arrogante, ambizioso e crudele, furbo e sconsiderato, lui si
sarebbe
divertito a svelare la cruda realtà che si nascondeva sotto
i principii di lei.
Prima che
l’ultimo velo
della sottoveste cadesse a terra, Sigyn pretese di riservare al dio
dell’inganno lo stesso trattamento. La stoffa sottile le
copriva appena i
fianchi, i seni infreddoliti erano esposti allo sguardo rapace
dell’Ase, ma
lei, ugualmente, gli sfilò la bandoliera, slacciò
gli spallacci dell’armatura,
sciolse i lacci che rendevano impenetrabile la corazza di pelle
intrecciata,
accarezzò i muscoli guizzanti sotto la tunica e poi il petto
largo e ben
sviluppato, il torace asciutto e scolpito, smarrendosi nel farlo. Loki
esibiva
un sorriso astuto e la lasciò esplorare, fissando il viso
arrossato di lei, che
aveva sfidato e preteso e avuto, seguendo il disegno di fuoco che le
dita
delicate di Sigyn gli lasciavano sulla pelle.
E poi, senza
dirle
nemmeno una parola, mentre lei sfiorava una cicatrice antica, la
strinse cercandole
le labbra ancora incerte ed esitanti, assaggiandole finché
anche l’ultima
resistenza non cadde come gli strati del suo vestito già a
terra. La baciò e
continuò a farlo anche quando le strappò via il
lembo insignificante di stoffa che
ancora indossava e si stese su di lei, sopra le coperte e le pellicce
disposte
davanti al camino acceso. Consumarono la passione su quel pavimento e
fu allora
che una perla fuggì dall’acconciatura di Sigyn,
incastrandosi poco più avanti,
tra le assi di legno, per non essere ritrovata mai più.
L’amore
con Loki fu
sbagliato, intenso, necessario.
Lui
adorò e si prese cura
di ogni curva del suo corpo con l’insolenza che
l’aveva sempre attratta e
allontanata al tempo stesso, e lei si inarcò verso
l’Ase offrendosi con la
disperata consapevolezza che quella notte incantata si sarebbe scolpita
in
maniera indelebile nel suo cuore, senza abbandonarla più,
accettando ed esaudendo
il pulsante desiderio che per lungo tempo l’aveva tormentata
e che Sigyn,
inutilmente, si era imposta di soffocare sotto il disprezzo.
Prima di
crollare su di
lei e affondare il naso nel suo collo, col fiato corto e i muscoli
delle
braccia tesi, l’ingannatore aveva gridato il suo nome. Sigyn,
stremata quanto
lui, con le gambe ancora strette contro i suoi fianchi asciutti, aveva
lasciato
scorrere le dita sulla sua schiena virile in una carezza leggera e
sbagliata.
Avrebbero dovuto rialzarsi e rivestirsi senza guardarsi, consapevoli
che, a
volte, il desiderio tradisce le intenzioni. Invece lo strinse a
sé e gli baciò
la mascella affilata. Una lacrima consapevole le scivolò
lungo la guancia.
“Perché
stanotte, Loki?” gli
domandò più tardi, dopo essere rimasti
avvinghiati l’uno all’altra, pelle
contro pelle, per troppo tempo. Si stava riannodando il corsetto e gli
dava le
spalle – così era più facile parlare.
Lo sentì avvicinarsi. Pur senza vederlo,
intuì il suo ghigno. “Perché non lo ami
e lo sai.”
L’ingannatore
scostò una
ciocca per posare le labbra sulla sua spalla ancora nuda ed esposta,
sul collo
che rispose a quelle attenzioni tendendosi. Quel contatto era fuoco,
era
desiderio, era disperazione. Rimase immobile,
tentando di ricacciare
indietro il fremito basso e pulsante che le ricordava
l’intensità del loro
cercarsi. Non lo aveva mai odiato così
tanto.
“Ho
commesso un errore,”
ammise, fissando la porta davanti a sé.
La bocca
beffarda di Loki
non smise di baciarla e le sue mani slacciarono di nuovo i nastri
appena
annodati dell’abito, abili e lente, infilandosi sotto la
stoffa per saggiare la
morbidezza dei suoi seni. “Più di uno, dea
della fedeltà.”
Il cuore di
Sigyn mancò
un battito sentendo quella frase. Senza dirsi nemmeno una parola,
decisero che
la casa sulle rive del fiordo era un luogo fuori dal tempo.
Così trascorsero il
solstizio e molte delle notti seguenti. I fantasmi sarebbero venuti dopo.
♥
Sigyn non
metteva più da
molti anni perle tra i capelli. Ballava tra le braccia del dio
dell’inganno,
sforzandosi di non pensare alle troppe volte che avevano fatto
l’amore davanti
a quello stesso camino, ai graffi di gatta che gli lasciava sulle
spalle, alle
decisioni prese per orgoglio di cui si erano pentiti entrambi. Danzava,
e le
sembrava che Loki fosse reale, ma qualcosa le diceva che il suo inganno
non era
limitato alle mille candele, alla tavola imbandita o agli splendidi
addobbi. C’era
qualcos’altro, un dettaglio
che non riusciva a ricordare o a
pronunciare. La notte del solstizio era incantevole e maledetta; fuori
infuriava la tormenta – e lei aveva lasciato entrare uno
spettro, che ora la
teneva tra le braccia fissandola con l’attenzione del
cacciatore verso la
preda. Sigyn avrebbe voluto avere la forza di un tempo, quando
rispondeva agli
sguardi insolenti e alle battute salaci di Loki sollevando il mento con
sdegno
e accertandosi che le sue gonne non lo sfiorassero nemmeno per sbaglio.
Invece,
ora l’ingannatore la guidava e la sosteneva, trascinandola
nella sua spirale di
caos e di menzogne.
“Perché
sei tornato
proprio questa notte?” insistette, costringendolo a fermarsi.
Voleva che glielo
dicesse, ammettendo qualcosa che, forse, lei sapeva già.
Tutti e due respiravano
in fretta.
Di nuovo, il
ghigno
dell’Ase assunse una piega dolorosa. “Credevo di
averti già risposto. È
il solstizio e tu amavi questa festa – l’abbiamo
passata insieme molte
volte.”
Erano davanti al
camino
scoppiettante, uno di fronte all’altro, a pochi passi dalla
poltrona. Non disse
altro e iniziò a spogliarla con lentezza, per ammirarla e
baciarla e carezzarla
ancora una volta, con rancore e desiderio, per
lasciarla con nient’altro
che una sottoveste leggerissima addosso. Fu allora che la fece sedere
costringendola
ad aprire le gambe, per affondarvi la testa e carezzarla e consolarla
fino a
farle smettere di ascoltare la tormenta e i propri dubbi.
Sigyn
artigliò un
bracciolo della poltrona e con l’altra mano
afferrò le ciocche nere del dio
degli inganni. “Questo non dovrebbe succedere, nella notte
dei fantasmi,”
boccheggiò con voce rotta, sconvolta dal fremito delle sue
carezze arroganti.
Loki non rispose
né
allora né quando, incapace di resistere ancora al fremito
che lo scioglieva e
infiammava, la condusse, di nuovo, sul pavimento, per amarla con
l’urgenza
disperata di un tempo, per intrecciare le dita con quelle di lei e
mescolare
ansiti e sospiri, per fondersi, un’altra volta
ancora come se il tempo,
attorno a loro, perdesse di significato.
Il fuoco
s’arrotolava nel
camino, la tormenta, lentamente, si allontanava. Loki raccontava a
Sigyn una
storia di spettri e di promesse. Erano svestiti, esausti, avvinghiati
in un
abbraccio intenso. Lei teneva la testa poggiata sul suo petto e
guardava le
fiamme. Per scaldarsi, aveva intrecciato le gambe alle sue.
L’ingannatore la
stringeva sfiorandole lentamente la schiena e le ciocche dorate e
spettinate,
consapevole che, nel giro di qualche istante, avrebbe chiuso gli occhi
e
l’incanto si sarebbe spezzato. Finì il racconto
– parlava di una ragazza
dall’intelligenza vivace e la battuta pronta, che, il giorno
delle sue
splendide e fastose nozze, fuggiva col suo sfrontato amante
disobbedendo al
volere del padre. Sigyn disse che conosceva la storia. Baciò
il petto di Loki –
un bacio lento e lieve, tenero come una carezza e inappropriato, come
la frase
che gli disse subito dopo.
“Questa
è l’unica notte
in cui puoi venire a trovarmi perché appartiene ai fantasmi,
non ai vivi.”
Loki non rispose
– non ce
n’era bisogno – e pensò alle battaglie
in cui si era smarrito, ai progetti
inseguiti, alle vittorie e alle sconfitte, all’insaziabile
brama di possedere
ogni cosa che lo divorava da sempre, da quando Odino gli aveva promesso
un
trono che non aveva mai pensato di dargli. Le cercò le
labbra per assaggiarle un’ultima
volta e non dimenticare il loro sapore. Ci sono notti che
sono più tristi e
lunghe delle altre, in cui le tenebre, avide, inghiottono il sole e si
rifiutano di lasciarlo andare, ma che, ugualmente, vorremmo
non finissero
mai.
Dopo, fu il buio.
Quando
aprì gli occhi, si
alzò di scatto. Gli girava la testa, aveva il fiato corto e
la casacca di pelle
intrecciata era completamente slacciata. Si passò una mano
tra i capelli umidi
e scuri, osservando la stanza alle fredde luci dell’alba La
casa era vuota, gelida,
disabitata. La poltrona era avvolta da un ricamo di ragnatele e
così pure il
tavolo, i libri, le poche suppellettili. Sentì qualcosa
colargli giù da naso:
era sangue. Osservò con una smorfia le dita macchiate di
rosso, esausto per lo
sconsiderato uso del seiðr che aveva fatto violando ogni regola
o legge. Sulle
labbra aveva ancora il sapore dolce di lei.
“Hai
avuto quello che
cercavi, fratello?” La voce morbida di Hela lo
svegliò completamente[3].
Era in piedi, a braccia conserte, il lungo abito nero che accompagnava
il corpo
snello, il volto tumefatto solo a metà. Loki sentiva la
testa pulsare in
maniera orribile. Si tirò a sedere e, con la punta dello
stivale, sfiorò la
perla perduta di Sigyn, ancora conficcata tra le assi del pavimento,
unica
testimonianza di una passione disturbante che nemmeno l’amore
era riuscita a
spezzare.
“Lei
vive qui, in attesa
di questa notte. Non sa di essere morta.” Nelle sue frasi
c’era un velo di
accusa. “Crede che sia io, lo spettro.”
Hela
abbassò le palpebre
bistrate di nero. “È il destino di certe
anime,” rispose con durezza “Tu sai
perché l’ha fatto, come mai è
qui.” Poi riconobbe in lui la stessa insaziabile
ferocia di Odino, la medesima tempesta che infiammava il petto e lo
spirito del
defunto re e scosse la testa. “Ti ho concesso già
abbastanza – hai varcato i
confini tra i vivi e i morti. A Thor non lo avrei mai
permesso – se lo
farai di nuovo, potresti non tornare.”
“Va’
via, sorella.”
Hela lo
guardò dall’alto
in basso, soffermandosi sui segni neri che gli cerchiavano gli occhi
verdi,
sulle mani scosse da un tremito di cui l’ingannatore nemmeno
si rendeva conto.
“Tenterai ancora. Almeno su una cosa, Thor ha ragione, ma non
puoi ingannare la
morte, Loki. Sigyn se n’è andata.”
“La
soddisfazione non è
nella mia natura. Questo non era…” gli mancarono
le parole, a lui, che era il dio
del caos e degli inganni. La testa gli pulsava, il pavimento
iniziò a girare
sotto i suoi piedi. “Questo non è stato
abbastanza,” concluse.
La dea della
morte non replicò.
Se ne andò col suo passo fluido e dondolante, lasciandolo
nella casa spoglia e
solitaria, ubriaco di una conoscenza inaccettabile e dolorosa, di cui,
però,
non riusciva a pentirsi. Se fosse tornato indietro nel tempo, avrebbe
rifatto
ogni cosa – ballare, condurla nel capanno, spogliarla e fare
con lei ognuna
delle cose che aveva immaginato, sognato, pensato. E poi cercarla
ancora, darle
appuntamenti a orari impossibili, incurante della vita di lei che
andava in
frantumi, della propria che era sull’orlo di un baratro.
Calpestando la perla,
si rese conto che uscire da quella casa era impossibile. Ne avrebbe
varcato la
soglia, certo, ma una parte di lui sarebbe rimasta prigioniera
di quelle
mura costantemente esposte alle intemperie. Era incatenato
come lei – a
lei, solo che Sigyn era dall’altra parte
– incastrato in una danza
degli spiriti struggente e terribile e necessaria. Barcollando, si
appoggiò
allo stipite della porta. Di tutte le empietà commesse,
violare la morte gli
parve la meno folle.
Un ghigno
ostinato e
breve gli attraversò il viso. Aveva ancora il
sapore di lei sulle labbra.
L’angolo di Shilyss
Care Lettrici e cari Lettori
del mio cuore,
Ma ♥ buon anno
♥!
Questa è la prima e
ultima
shot del 2020 – ma spero che il 2021 mi tolga tante
ulcere e mi faccia
recuperare il desiderio di condividere ancora e di nuovo Loki
e Sigyn.
Loro sono importanti per me –
terribilmente – e questa storia non doveva
nemmeno esistere. Deve la sua genesi a Rosmary e ai
suoi Calderotti.
Stavo per ritirarmi perché a corto di tempo e di idee, ma
nel mentre, zac! È arrivata
la storia, tipo fulmine thortino.
Grazie a Emi
♥, il
cui supporto è sempre prezioso e che mi ha fatto scoprire
dei libri meravigliosi,
a padme83 e a Miryel
– senza di voi il 2020 sarebbe stato molto
più difficile da sopportare.
Iniziandola vi è
sembrato di
leggere… qualcosa di familiare? Sì, anche a me,
infatti l’incipit ricorda la
mia Di fuoco e di desiderio, ^^ ma anche ad altre
shot/long come Tutte
le tue bugie o Sapevano di vino le tue labbra.
Come avrete capito leggendo,
Sigyn è morta, Loki la va solo a trovare tramite un
incantesimo piuttosto pericoloso
e debilitante. Come lei sia morta e se lui la salverà, ho
scelto di non
raccontarlo, qui, ma non garantisco che le cose siano finite
così. Oltre alla
canzone citata all’inizio, questa storia è stata
scritta con la OST de Il
labirinto del fauno e con la colonna sonora de La
sposa cadavere. Ah, l'allegria! Ultima precisazione: ho giocato un po' col Solstizio (che i nordici festeggiavano al posto del Natale), attribuendogli caratteristiche di Halloween - con i morti che visitano i vivi. Tutto sommato, il Solstizio celebra la morte e la rinascita del Sole, dato che, trascorso lui, le giornate si allungano. Per il sale sulle porte, non so proprio da dove l'ho presa ^^.
Ringrazio chi listerà,
recensirà o semplicemente leggerà questa storia: a parte gli scherzi
(lokini) siete importanti e sappiate che leggo tutti i vostri commenti
e non vi
mangio. Spesso non rispondo pubblicamente, ma se vi palesate lo faccio
e sono
molto alla mano, ecco.
Ricordo che il personaggio
di Sigyn, tolto quello che trovate alla voce
“Sigyn” su Wikipedia, è una mia
personale interpretazione/reinterpretazione/riscrittura. Non vi
autorizzo a
ispirarvi o peggio a questa versione o alle altre storie da me postate
né qui
né altrove (peggio mi sento con le fiabe) e lo stesso vale
per gli headcanon su
Vanheim, su Loki o su Asgard stessa. Creare un mondo con usi e costumi
non è
uno scherzo.
A presto e grazie per tutto
l’affetto/sostegno/cose, vi si lovva (e spero voi lovviate
me).
Vostra,
Shilyss
[1]
“Ci sono giorni…” è
l’incipit
della mia shot Di fuoco e di desiderio.
[2]
Mentre prima ho detto che
Sigyn la considera la sua casa ^^.
[3]
Dato che posto nel fandom
Thor/Marvel, facciamo finta che Hela sia la sorella di Loki e non la
figlia.
Come vi sarete resi conto, è un alternative! Thor: Ragnarok
(si parla della
morte di Odino, c’è Hela).