Storie originali > Romantico
Segui la storia  |       
Autore: Elsira    12/01/2021    2 recensioni
Gli antichi greci credevano che un tempo l’essere umano fosse un essere perfetto e, soprattutto, completo. Era formato da quattro braccia, quattro gambe, due volti. Ma un giorno, Zeus, temendo la perfezione umana, lo divise in due, rendendolo così imperfetto… Incompleto. Da quel momento, l’uomo cerca disperatamente la sua metà, per tentare di tornare al suo stato originario. Per tornare a essere completo.
Questa è la storia di Camilla e di Arkin, e del loro tentativo di metterla in tasca a Zeus.
Quand'ero piccola, mio padre e mio nonno mi dicevano sempre che non c'era nulla che non potesse essere risolto. Ci si può ammalare, si può perdere il lavoro, si può litigare con una persona cara... Ma le malattie si curano, i soldi si riguadagnano, i rapporti si ricuciono. A tutto c'è rimedio, tutto può essere affrontato serenamente e superato. Tutto. Tranne la Morte.
E come tutte le mie storie, anche questa comincia ad essere interessante dalla metà in poi. Giusto per non far perdere tempo.
Genere: Angst, Commedia, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

Pagina 1.

 

Ci sono persone che potrebbero incontrarsi in milioni di vite e sempre riconoscersi,
altre che saprebbero incontrarsi milioni di volte e sempre perdersi.
Qualcuno lo chiama destino,
io la chiamo consapevolezza.

Massimo Bisotti


 

Quella sera di fine marzo feci più tardi del previsto all’Università, ritrovandomi costretta a prendere il treno che era ormai buio.

Ho paura di davvero poche cose, in cima alla lista ci sono i pidocchi e le lumache, ma la stazione dopo il tramonto è una situazione che mi spinge a stare costantemente all’erta.

Indossai le cuffie e misi a random le canzoni che avevo sul telefono, nel vano tentativo di rilassarmi. Il breve viaggio di appena venti minuti trascorse tranquillo e scesa dal treno mi diressi a passo svelto verso casa di mio padre. Nelle orecchie iniziò a suonare la sigla di Dragon Ball, la prima stagione, la voce di Giorgio Vanni mi fece finalmente distendere un poco i nervi e mi strappò un piccolo sorriso.

Avevo sempre adorato Goku, mi ero innamorata perdutamente di lui dal nostro primo incontro e non lo avevo più abbandonato; per quanto potessi crescere, “diventare adulta”, lui si era preso un pezzo del mio cuore di bambina e non lo avrebbe mai lasciato. Era suo e lo sarebbe stato sempre. 

Era stato il mio eroe dell'infanzia, il mio forse unico punto fermo nel periodo di maggior trambusto della mia vita: che fossi a casa di mia madre, a casa di mio padre, a casa dei nonni o del babysitter di turno, non importava quanto “pacco postale” mi sentissi, Goku era lì, dal lunedì al venerdì, alle 13h40 su Italia 1, con una linea di eventi logica e costante, che non veniva spezzata da niente, in cui tutto era collegato. Mi aveva trasmesso valori che mi accorsi di aver ricevuto solo da più grande e sui quali avevo inconsciamente basato gran parte della mia vita e della mia stabilità mentale. E sapevo che me li aveva trasmessi lui, perché nella mia famiglia li avevo solo io, anche per questo gli ero infinitamente grata.

Qualche altro passo, nelle orecchie a suonare la parte “da intenditori”, come la chiamava quello che presto sarebbe diventato mio cognato, che altri non era che la parte della canzone estesa che non si sentiva alla tv.

Ero appena arrivata a rilassarmi totalmente nella melodia tanto da mettermi a canticchiare nella mia testa assieme a Vanni, che mi sentii sfiorare la spalla. Spostai appena lo sguardo e vidi che si trattava di una mano maschile. Giuro, ciò che accadde il momento successivo a quella vista fu completamente fuori dal mio controllo, non lo feci intenzionalmente, nel modo più assoluto. E ancora mi sento in colpa. Senza sapere né come né perché, due secondi dopo quella vista, mi ritrovai con il polso della mano che mi aveva sfiorata stretto nella mia destra, una schiena davanti alla faccia e l’altro mio braccio piegato ad angolo retto a fare pressione sulla gola del malcapitato.

Ci vollero un paio di secondi buoni prima di riuscire a rendermi conto cosa avessi appena fatto e liberare il tipo dalla mia presa. Mi tolsi in fretta le cuffie e, con il volto completamente a fuoco per l’imbarazzo, chiusi gli occhi e unii le mani a preghiera, implorando perdono.

«Tranquilla… Non è successo nulla… Ma sta’ più attenta, io volevo solo dirti che ti era caduta la felpa, mica molestarti.» Disse ironico lui, voltandosi e porgendomi l’oggetto in questione, mentre ancora si massaggiava la gola. Sollevai le palpebre con espressione colpevole, per fargli ancora le mie scuse, quando rimasi ammutolita, intrappolata in quegli occhi color zaffiro, rimasti immutati anche dopo tutto quel tempo.

Restammo entrambi in silenzio e immobili per secondi eterni, semplicemente a guardarci, entrambi con gli occhi sbarrati e increduli.

«Camilla…» Sussurrò appena lui. Io risposi, altrettanto flebile: «Arkin…»

Per la seconda volta in quel giorno, non riuscii a controllare il mio corpo: spezzai l’immobilità che si era creata tra noi e gli avvolsi il collo in un abbraccio. In un primo momento lui rimase immobile, rigido sotto il mio tocco, dopodiché si sciolse e mi circondò la schiena. Nascosi in automatico il volto nell’incavo che aveva tra il collo e la spalla, mentre respiravo il profumo di abete che aveva sempre avuto la sua pelle. Non quello orribile e invadente dei deodoranti per auto, ma quello autentico, frizzante, che ti fa pizzicare il naso e ti fa venire in mente i boschi cosparsi di neve della montagna o dei luoghi freddi.

Lo aveva sempre avuto, il mio Arkin, quel meraviglioso profumo.

Mi strinse più forte, scavalcandomi la spalla con il mento, mentre io non riuscivo semplicemente a crederci.

Sarà sembrato scontato, ma nonostante non abitassimo poi così lontani, non avrei mai pensato di incontrarlo di nuovo.

«Arkin, tutto bene?» La voce femminile alle mie spalle mi riportò al presente, facendomi voltare con espressione scocciata, perché avrei voluto che quell’abbraccio non si interrompesse così in fretta.

«E tu chi sei?»

Avrei potuto farle la stessa domanda, ma mi bastò un’occhiata lampo per capire chi fosse: un’oca, il tipo perfetto che avrei voluto prendere a sberle già solo per come si vestiva. Ma come si fa ad andare in giro con il tacco 15 a spillo in pieno giorno? Okay, era il tramonto passato ormai, ma insomma… Oltretutto con un vento gelido come quello, come faceva a stare a gambe scoperte? Ah no, scusate, non erano scoperte, aveva le calze strappate, sotto gli shorts a metà chiappa…

Oc- “No, Cami... Ferma. Non si giudicano le persone, lei può vestirsi come cazzo le pare, è un suo diritto. Conta fino a dieci e se non ti piace, guarda dall'altra parte.”

«Manu, questa è Camilla, una mia amica d’infanzia.» Mi presentò Arkin, sciogliendo completamente l'abbraccio e distanziandosi di un passo da me. La sua mano rimase comunque a sfiorarmi il braccio come una carezza, velato tentativo di far calmare Manu e allo stesso tempo non offendere me per il distacco quasi improvviso.

«Oh, un’amica d’infanzia? Allora tutto a posto!»

“Dio che sorriso falso.”

«Per un attimo, a vedervi così appiccicati, avevo creduto fosse ben altro.»

“Certo che, a prescindere da come ti presenti, me lo rendi davvero difficile però, non odiarti a prima vista…”

«In effetti, sono stata la sua fidanzata fino alla seconda elementare.» Dissi, in uno scatto d'orgoglio, rendendomi conto solo in un secondo momento di quanto disperata poteva sembrare come frase, ma non mi importava. Lei mi fulminò con lo sguardo, occhiata che ci misi meno di un istante a ricambiare altrettanto calorosamente. “Okay, ti sei appena fatta una nemica, bella.”

«Comunque, biscottino…» Tornò a rivolgersi ad Arkin, ignorandomi. Io lanciai un’occhiata al mio vecchio amico, unendo le labbra tra loro con forza per trattenermi. Lui scostò lo sguardo dalla parte opposta a me, il suo braccio salito non so bene quando ad avvolgermi le spalle, passandosi nervosamente la mano libera nei capelli, facendomi capire che aveva compreso perfettamente il motivo di quella mia occhiata veloce.

Manu aprì la bocca, ma prima che un qualsiasi altro suono potesse uscirne, Arkin le si avvicinò e le disse, spingendola delicatamente per le spalle verso la porta: «Perché intanto non ti avvii in negozio? Io ti raggiungo subito, saluto Camilla.» Lei mi lanciò un’occhiata fulminante, prima di acconsentire e fare come il mio amico le aveva richiesto, congedandosi con un semplice e gelido: «Moviti

Mi trattenni dal salutarla ironicamente con la mano, concentrandomi per non mostrare il sorriso della vittoria sul volto, più che altro perché non volevo far passare guai ad Arkin. Se quella era la sua fidanzata, di guai ne aveva già abbastanza. 

«Biscottino?» Chiesi dopo secondi di silenzio, mordendomi le labbra per non scoppiare a ridergli in faccia. Lo vidi fare una smorfia adorabile, guardando il cielo e portandosi una mano ai capelli biondi. «Già… Ecco… Gliel’ho detto di non chiamarmi così, ma…»

«Ah, ma non è mica un problema dai. Certe persone non sanno trattenersi da affibbiare nomignoli pucci pucciosi ai loro partner.» Dissi io in un sorriso, scuotendo la mano in cenno che non era la prima volta che sentivo cose del genere. E per mio dispiacere, non era davvero la prima volta. «E di’ un po’, come altro ti chiama? Orsacchiottino? Amorino? Cucciolotto? Trottolino amoroso?» Mi voltai appena per guardarlo e mi dovetti sforzare veramente tanto per non scoppiare a ridergli in faccia, vista l’espressione che fece al sol sentir pronunciare quei nomi. Al che non seppi evitarlo e chiesi, incredula: «No… non ci credo… Ti chiama veramente “trottolino amoroso”?» Il rossore che gli infiammò le guance parlò anche troppo esplicitamente. Non ebbi bisogno di altre conferme e non riuscii più a trattenermi, iniziando a ridere tanto che mi uscirono le lacrime dagli occhi.

«Ah ah ah… Davvero divertente, sì…» Bofonchiò lui, infilando le mani nella tasca dei jeans scuri per tirarne poi fuori il telefono e porgermelo. «Lasciami il tuo numero.» Io lo guardai che mi stavo ancora asciugando gli occhi, dopodiché mi sforzai, veramente tanto, di smettere e tornai eretta, sorridendogli. Presi lo smartphone e vi salvai il mio numero, per poi porgerglielo nuovamente. Lui mi fece uno squillo, in modo che avessi anch’io il suo, dopodiché lo salutai con un cenno della mano.

Feci in tempo a fare pochi passi, che mi sentii chiamare e mi voltai. Lo vidi portarsi indice e medio uniti alla fronte e allontanarli subito dopo, sussurrando in un sorriso dolce: «Vi ser deg, min lille stjerne. (Ci vediamo, stellina mia.)»

Mi scappò un sorriso, per poi imitare il suo gesto e rispondere: «Vi ser deg, min skytsengel. (Ci vediamo, mio angelo custode.)»

Mi strizzò l’occhio, dopodiché lo vidi entrare nel negozio di abiti. Mi voltai, riprendendo la via verso casa di mio padre con un sorriso che mi attraversava il volto da parte a parte e non accennava minimamente a svanire.

 

«Hey, Arkin, devo dirti una cosa.»

«Ma che sei ancora sveglio…»

«Ho appena sognato Camilla.»

«Chi?»

«Camilla… Non è possibile che non ti ricordi di lei!» Paolo mi aveva guardato con le sopracciglia chiare vicine tra loro, seriamente frustrato. Io avevo alzato un sopracciglio, ancora assonnato, non comprendendo il motivo di quello sguardo fulminante. «Intendi la bimba della materna?»

L’espressione del mio amico si era improvvisamente ammosciata, sin troppo. Odiavo quell’espressione, era quella che adottava quando parlava agli idioti. «Certo, chi altra?»

«Che ne so io…» Sbuffai infastidito, rigirandomi dall’altra parte del letto dell’hotel in cui stavamo alloggiando per partecipare al torneo di calcio estivo organizzato dalla regione. In realtà, era più un raduno che un campionato vero e proprio, ma noi volevamo comunque il primo posto. Il giorno successivo avevamo la finale, alla sera saremmo tornati a casa; quella notte l’avremmo dovuta passare a riposare, non a chiacchierare.

Erano passati secondi di silenzio, perciò avevo chiuso gli occhi e mi stavo preparando ad addormentarmi, convinto che il mio amico avesse finito di parlare a vanvera. Speranza che era stata spezzata subito. «Comunque. Stanotte ho sognato Camilla e quando mi sono svegliato, mi sono accorto che stavo piangendo.»

Mi ero voltato verso di lui, un’espressione interrogativa in volto e un braccio lasciato cadere morbido sul torace, rimasto lì per la posizione laterale che avevo fino a pochi istanti prima. 

«A te… non manca la nostra amicizia?» Mi aveva chiesto con un piccolo sorriso sulle labbra, il tono di voce basso e nostalgico, gli occhi puntati verso il soffitto scuro.

«Non ci ho mai pensato.» Avevo risposto, dopo qualche istante. La voce mi era uscita più bassa e triste di quel che avessi voluto. Paolo aveva riconosciuto subito quel mio tono di voce: si era voltato con un sorriso raggiante verso di me, sorreggendosi con il braccio sul materasso per tirarsi un po’ su e puntare meglio quegli occhi azzurri come il cielo più sereno nei miei, esclamando entusiasta: «Beh, pensaci ora!»

Mi ero voltato dall’altra parte, grattandomi nervosamente i capelli corti e borbottando, imbarazzato nemmeno io sapendo per cosa: «Mmmh… Sì, un po’ mi manca…» Il ricordo dell’ultima volta che l’avevamo vista mi aveva colpito prepotentemente, facendo indurire il mio tono e il mio sguardo all’istante, prima di voltarmi verso il mio migliore amico e continuare: «Ma d’altra parte, non posso farci nulla. È lei che se n'è andata e le amicizie finiscono.»

Il sorriso di Paolo non aveva accennato a sparire, né diminuire. «Sì ma, ora siamo grandi… Potremmo rintracciarla e tornare amici.»

«Credo sia cambiata, non sarà più la bambina che conoscevamo… E noi non siamo più i bambini che eravamo. Certe amicizie è meglio averle solo come ricordo.» Avevo detto, iniziando a essere seriamente frustrato da quella discussione. Non avevo fatto in tempo a sbuffare, che le parole colme di speranza del mio amico mi avevano raggiunto le orecchie: «Non sono d’accordo.»

Ovvio che non lo era... Lo avevo guardato con occhi confusi, mentre lui si voltava verso la finestra e il cielo ormai scuro e stellato oltre a essa. «A me piacerebbe poterla ritrovare un giorno, riallacciare i rapporti con lei e tornare a essere uniti come un tempo… Sai… In realtà, sognarla mi ha fatto venire in mente che mi piaceva da piccoli…»

«Certo che ti piaceva, passavamo le giornate assieme, a provare che ti stesse pure antipatica.»

Avevo sbuffato, passandomi ancora una mano nei capelli. Lui abbassò le palpebre, esclamando allegro, rivolto nuovamente verso di me: «No, intendo… mi piaceva, piaceva… Volevo che fosse la mia fidanzatina.» A quella confessione, mi si era gelato il sangue e lo avevo guardato con occhi spaccati. Lui aveva ricambiato la mia sorpresa con uno dei suoi sguardi più dolci, affermando con una sincerità nella voce di cui non avevo mai potuto dubitare: «Ma sono stato molto felice quando vi siete messi insieme voi due. Ho sempre fatto il tifo per voi e lo rifarei anche oggi. Siete semplicemente perfetti insieme. Credo davvero che nessuno di voi due potrebbe mai trovare un partner in grado di domare l’altro così bene.» 

«Io non devo essere domato, non sono un animale!» Il mio cuscino lo aveva colpito in pieno volto, strappandogli una risata divertita, per poi tornare da me quando ormai gli avevo già dato nuovamente le spalle. «Sei davvero strano oggi… Si può sapere che ti è preso? Nervoso per la partita di domani?» 

«Mah… Può darsi… Dev’essere il sogno che mi ha un po’ sconquassato…»

Ero restato in silenzio, rannicchiandomi ancora un po’ sotto il lenzuolo fresco e chiudendo gli occhi, godendo del vento leggero che ci concedeva il ventilatore a soffitto in quella notte oltremodo afosa.

«Ehi, Arkin…» La voce di Paolo era risuonata ancora nella stanza, facendomi saltare i nervi e distraendomi dal dormiveglia in cui mi ero appena crogiolato. «Possibile che sei ancora sveglio? Che c’è…»

Mi aveva risposto in un sussurro appena udibile: «Se domani vinciamo, rintracciamo Cam e riallacciamo i rapporti con lei…»

Ormai completamente sveglio, avevo riflettuto qualche istante prima di rispondergli. «Ti ho già detto che non credo sia una buona idea… E chissà dov’è…»

«Io voglio farlo… Credo che, anche se siamo cambiati, andremo di nuovo tutti e tre d’accordo come un tempo.» Aveva ripetuto, con più convinzione. Tanta convinzione che mi aveva portato a voltarmi verso di lui e guardarlo negli occhi, non riuscendo a contraddirlo un’ulteriore volta.

Le sue sopracciglia si erano avvicinate tra loro, quegli occhi pieni di energia mi avevano incatenato a loro, imprigionandomi nella loro determinazione. «Promettimelo, Arkin. Se domani vinciamo la coppa, riallacciamo i rapporti con Cam e torniamo a essere felici come allora.»

«Zitto e dormi…» Avevo borbottato duramente, dandogli per l’ultima volta le spalle, deciso a non voltarmi più verso di lui quella notte. Nonostante non lo vedessi, ero perfettamente conscio che quello sguardo non fosse minimamente cambiato. Avevo tirato un sospiro e, prima di abbassare le palpebre, avevo bisbigliato: «Devi riposare, altrimenti non potremo dare il meglio in campo. E vincere.»

Avevo udito un energica affermazione e il suono del lenzuolo che si avvolgeva attorno al suo corpo. «Cam… Aspettaci… Domani vinceremo per te.» Lo aveva detto con un ultimo sussurro leggero, appena udibile, prima che io sentissi il suo respiro farsi più pesante e, quindi, informarmi che si era finalmente assopito. Avevo chiuso gli occhi anch’io, intrecciando le dita delle mani davanti al volto, come a tenere la mano di qualcuno.

Per la prima volta dopo anni, quella notte avevo nuovamente sognato Cam.

 

“Se solo avessi saputo che quella era l’ultima notte della tua vita…” 

Scostai gli occhi dal campo da calcio e alzai lo sguardo verso il cielo. La luce di una stella, più luminosa delle altre, mi catturò gli occhi. Ripensai inevitabilmente al mio amico, rimasto fermo all’età di tredici anni. Chiusi le palpebre e me lo immaginai seduto lì accanto a me su quella panchina, che batteva nervosamente i tacchetti delle scarpe da calcio sull’erba, in attesa del suo turno di entrare in campo e giocare.

Odiava stare fermo ed era un ottimo giocatore, probabilmente il migliore della squadra ma, per qualche strano motivo, il mister lo faceva entrare sempre solo nel secondo tempo. Solo dopo intuii che fosse perché sapeva del suo male al cuore e non voleva che si sforzasse troppo.

Ricordo che, fino all'ultimo, non era certo se sarebbe venuto al raduno o meno. Fui io, stupidamente e con la supponenza di un ragazzino che non capisce nulla, che andai a casa sua e convinsi i genitori a lasciarlo venire. Dissi persino loro che non si dovevano preoccupare di nulla, che lo avrei tenuto d'occhio personalmente e non gli sarebbe capitato niente. 

Che coglione. 

“Eppure loro non mi hanno mai odiato... Anzi…” 

Ogni volta che mi capitava di incrociarli, mi salutavano sempre con un sorriso colmo di affetto e mi trattavano come fossi uno di famiglia. 

L'altro giorno, al bar, avevo incrociato per caso suo padre e aveva insistito all'inverosimile per offrirmi la colazione. Eravamo rimasti a parlare quasi mezz'ora di tutto e niente, mentre mangiavamo una pasta assieme. “A ripensarci mi sembra impossibile.”

La sera antecedente alla partita, Paolo mi aveva parlato di voler tornare a essere felice. Non avevo idea di che cosa stesse parlando: ai miei occhi lui era sempre raggiante, pieno di energia, incapace di stare fermo e contenitore di tanto entusiasmo da poter spostare una montagna.

Non avevo idea che in realtà fosse malato.

Non avevo idea che il cuore gli esplodesse nel petto ogni volta che lo sforzava troppo.

Non avevo idea che fosse destinato a morire prima di diventare adulto.

Non me ne aveva mai parlato, sicuramente per non farmi preoccupare, sapevo bene com’era fatto: non diceva mai nulla che potesse creare preoccupazioni agli altri, si caricava sempre tutto sulle proprie spalle. Ciò nonostante, nonostante sapessi com’era fatto, ci sono stati momenti in cui l’ho odiato per avermi taciuto la sua malattia, momenti durante i quali lo avrei riempito di pugni fino a rendergli la faccia irriconoscibile, se me lo fossi trovato davanti. Momenti nei quali avevo pensato che tutti quegli anni passati assieme erano stati solo una bugia, perché non si tace una cosa del genere al proprio migliore amico, se lo si considera tale.

Crescendo, divenni sempre più certo che ad averlo fatto restare in silenzio era stata la paura. Paura di venir guardato con occhi diversi, che non lo avrei più guardato come chi consideri al proprio pari, ma con la pietà dei più sfortunati. E mi odiai. Avrei voluto prendere me stesso a botte fino a rendermi irriconoscibile, perché aveva ragione. Aveva schifosamente ragione.

Se lo avessi saputo, non sarei più riuscito a guardarlo con occhi che non fossero di pietà, non lo avrei più trattato come un amico, ma come un malato. E mi odiai ancora di più, perché per colpa mia avevo fatto vivere il mio amico nella paura, nell'impossibilità di essere sincero con una delle persone a cui voleva più bene. Perché lo sapevo, che mi voleva bene. Voleva più bene a me che a se stesso, anche se non me lo ero mai meritato.

Però…”

Se lo avessi saputo, forse avrei potuto impedire che giocasse quella partita.

Sicuramente avrei evitato di passargli il pallone e incitarlo a correre più veloce che poteva verso la porta, per segnare e vincere la coppa. 

Forse avrei potuto evitare che il cuore gli esplodesse nel petto, quel giorno.

Forse avrei potuto evitare di veder morire il mio migliore amico davanti ai miei occhi.

“Se solo tu me ne avessi parlato…” Sospirai stanco, per l’ennesima volta negli ultimi otto anni, passandomi una mano sul volto e sdraiandomi sulla panchina.

A occhi chiusi, credetti di sentirlo. Udii la voce di Paolo che rideva e si divertiva come un matto quando giocava a pallone. Lo sentii sfidarmi a chi faceva più palleggi, a chi faceva il tempo migliore, a chi dribblava più in fretta il maggior numero di avversari.

“Sempre raggiante e competitivo, Paolo…”

Il suono del cellulare provenire dalla tasca mi fece uscire dalla bolla di ricordi in cui mi ero rinchiuso, facendomi tornare al presente. Scorsi il dito sullo schermo e lessi il messaggio, mentre un sorriso mi si era già formato inaspettatamente al solo vedere il nome del mittente.

 
 

1
2
3
4
5
6
7
8
9
10
11
12
 


Per chi non riuscisse a caricare le foto, la chat tra Arkin e Cam è la seguente:

Acquisti finiti, trottolino amoroso?

Sul serio? Dopo 15 anni che non ci sentiamo, è questa la prima cosa che mi vieni a chiedere? Se ho finito gli acquisti? Con tanto di presa per il culo?

Dovevo chiederti se per caso avevi cambiato le tendine della tua cameretta?

Lo sai cosa?

Tu sei veramente…

Gaaaaaaahhh!!!

Ma perché ci provo…?

Non saprei, sei sempre stato tu quello strano tra noi

E qui ci sarebbe così taaaaaaanto da poter ribattere…

Se non mi sbaglio, sei stata tu quella che è andata ad abbracciare con la faccia il vetro della porta dell’asilo. Perché era “troppo pulito per essere visto”...

Non te ne dimenticherai mai…?

Ti avevo avvertita, a suo tempo.

Eddai Cam, non i tre punti!

Sono sadici!

… 

OKAY

Mi dispiace!

Colpa mia! Hai ragione te!

Contenta?

Yup, decisamente~

Ho sempre affermato che sei un piccolo diavolo travestito da umano… 

...Come?

N U L L A

-.-’

O:)

Come ti pare… 

Ma… Davvero ti ricordi di queste cose…?

Io ricordo tutto, principessa.

Tutto…?

Yes.

Ricordo anche cos’è successo quando abbiamo voluto volare.

Okay, quello…

Ho ancora la cicatrice.

Mi sono già scusata per quello!!!

Mi hai quasi ammazzato!

Hey.

E non è vero, non ti sei mai scusata.

Avevamo 4 anni.

Ed eravamo TUTTI d’accordo sul lanciarci. Non ti ho spinto o altro, tu sei saltato perché lo hai voluto fare.

Avevi detto che era sicuro.

E lo era!

Io non mi sono fatta nulla, d’altronde

Non cambierai davvero mai… È davvero così mortificante per te dire semplicemente “mi dispiace, Arkin”?

Mi dispiace, Arkin…

GRAZIE!

...che tu non sia in grado di saltare da un albero senza quasi ammazzarti!

Lo sai cosa?

Ho sempre saputo che eri un piccolo diavolo.

PER QUESTO TI HO NASCOSTO LA PENNA DI MINNIE!

D:

Allora sei STATO TU!

NON HO COCCOLATO IL GATTO PER UNA SETTIMANA PERCHÉ MI DICESTI CHE ERA STATA COLPA SUA!!!

Ho mentito u.u

Esattamente come tu hai mentito dicendomi che era stato il mio cane a rubarmi la pizza!

Non ricordo niente del genere…

21 marzo 2001. È stata la prima volta che abbiamo cucinato la pizza insieme.

La tua era disgustosa, la mia spettacolare.

Oh, sì!

Mi ricordo ora!

La pizza clay!

Yup

Non riesco ancora a credere che le abbiamo realmente messe in forno...

Già…

Ricordo tua sorella correre in cucina sbraitando “da dove diamine viene questo fumo nero?!”

In effetti, quella è stata la parte migliore

Ahahah E poi sarei io il piccolo diavolo?

Già, ma il mio personale~

Comunque

Che ne dici di vederci uno di questi giorni?

Ti va’? Puoi?

Certo!

 

Dimmi solo quando e dove!

Alla statua del paese, quella del soldato che getta la granata nella valle.

Domani a mezzogiorno, che ne dici?

Beh… In realtà oggi ma… Hai capito

Perfetto!

Pranziamo insieme?

Certamente! Ci facciamo un bel picnic, cucino io

Tu sai cucinare?!

E non la pizza clay? lol

Sono pieno di sorprese, stellina

Lo sei davvero

Allora? È deciso, ci stai?

Sissignore~

Mezzogiorno del fuso orario italiano… Non te lo dimenticare, promettimelo!

Non voglio fare la figura dell’idiota nel centro della piazza che aspetta un fantasma.

Non ti fidi di me?

Mi fido di te…

È dei tuoi cromosomi femminili, che non mi fido.

Già… Dannazione, le ragazze, vero? Come possono riuscire a fare sempre tardi?!

Hai finito di prendermi per il culo?

Ti voglio bene anch’io, bambinone <3

Non preoccuparti, non farai la figura dell’idiota. Ci vediamo a mezzogiorno, promesso!

Devo finire di studiare e poi me ne filo a letto, notte Arkin! A domani!

Sogni d’oro, stjerne

Sogni d’oro, skytsengel

 

Se non avete mai provato a cuocere la pasta della clay, tutti sono bravi con il pongo e il das, ma ci vuole d'avere le mani di un artista con la pasta clay, andati ad abbracciare una vetrata che non avevate visto a causa della maschera di Carnevale coi buchi per gli occhi fatti male o non siete mai saltati da una magnolia con un lenzuolo a mo' di paracadute per poter volare come Goku, però le ginocchiere e le gomitiere a protezione c'erano, la sicurezza prima di tutto, mica scemi, avete avuto un'infanzia orribile. Non sono io a dirlo, è scienza.
Un tempo ero solita pubblicare di martedì e giovedì mi pare... L'ultima abitudine che ricordo, quantomeno, è questa. Quindi visto che oggi è martedì e ho solo da aspettare l'ora di andare a letto, mi son detta "perché no?"
Anticipo: il giovedì no, perché è un macello. Però venerdì sì, quindi che s'ha a fare una prova per il martedì e il venerdì? Che guarda caso sono proprio Marte e Venere, i pianeti di uomo e donna... Cavolo, manco a farlo a posta. Giuro che è una cosa venutami in mente ora mentre sto scrivendo le note, non era assolutamente premeditata. 
Ah, volevo aggiungere solo un'ultima cosa prima di lasciarvi, riguardo alla storia. Per quanto riguarda la malattia di Paolo... non è propriamente come pensa Arkin, ma si scoprirà più avanti, il che spiegherà forse un po' meglio anche perché i genitori del ragazzo non gli danno colpa di niente. Anche perché davvero non ha colpa di niente, a mio parere, però sono cose delicate di cui parlare, ed è per questo c. Quindi niente, volevo solo chiarire questo punto, ecco.
Quindi, bon, nulla... A venerdì!

Sì lo so che avevo detto che ci si vedeva sabato, ma 'sta storia è lunghetta per i miei standard, una pubblicazione a settimana poi non mi finisce più... E poi chi mi conosce lo sa già che di secondo nome io faccio "coerenza", per chi invece non mi conosceva ancora... deh bambini, l'autrice sono io, quindi, come si suol dire dalle mie parti, vu v'attaccate.

Con sincero affetto,


signature
  tapasdeviantinstatumbrlefpwattpad

   
 
Leggi le 2 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Romantico / Vai alla pagina dell'autore: Elsira