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Autore: Elsira    09/01/2021    3 recensioni
Gli antichi greci credevano che un tempo l’essere umano fosse un essere perfetto e, soprattutto, completo. Era formato da quattro braccia, quattro gambe, due volti. Ma un giorno, Zeus, temendo la perfezione umana, lo divise in due, rendendolo così imperfetto… Incompleto. Da quel momento, l’uomo cerca disperatamente la sua metà, per tentare di tornare al suo stato originario. Per tornare a essere completo.
Questa è la storia di Camilla e di Arkin, e del loro tentativo di metterla in tasca a Zeus.
Quand'ero piccola, mio padre e mio nonno mi dicevano sempre che non c'era nulla che non potesse essere risolto. Ci si può ammalare, si può perdere il lavoro, si può litigare con una persona cara... Ma le malattie si curano, i soldi si riguadagnano, i rapporti si ricuciono. A tutto c'è rimedio, tutto può essere affrontato serenamente e superato. Tutto. Tranne la Morte.
E come tutte le mie storie, anche questa comincia ad essere interessante dalla metà in poi. Giusto per non far perdere tempo.
Genere: Angst, Commedia, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate | Contesto: Contesto generale/vago
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Premessa

“I suoi occhi, erano soliti brillare così intensamente.”

- Sconosciuto

 

So che di solito non si iniziano così i racconti, ma… Per poter cominciare questa storia, è necessaria una breve introduzione in cui vi spiego come ha avuto inizio tutto quanto. Anzitutto, salve: io sono Camilla e la storia che state per leggere è quella mia e di Arkin.

Sì, lo so che è un nome strano: lui è norvegese. O meglio, mezzo norvegese. Si chiama così perché sua madre è di Arendal e prima che il mio amico venisse al mondo, i suoi genitori decisero che se fosse nato un maschio il nome lo avrebbe scelto la madre, mentre fosse stata femmina lo avrebbe scelto il padre. Nacque un maschietto, perciò la madre ebbe campo libero, dando ad Arkin un nome di cui è sempre andato orgoglioso e che ha sempre sfoggiato al massimo della sua bellezza, sin da bambino.

Se mi chiedeste come ci siamo conosciuti, non saprei rispondervi. Non per male, ma perché il nostro primo effettivo incontro accadde talmente tanto tempo fa che non riesco davvero a ricordarlo. Rammento solo la prima volta che mi dette un bacio, sulla guancia, innocente e gentile, come l’età che avevamo. Rammento il primo regalo che mi fece, subito dopo: un piccolo biglietto ritagliato a forma di cuore al cui interno aveva disegnato noi due, mentre mi dava suddetto biglietto. Era un disegno davvero orribile, anche per la nostra tenera età, ma d’altronde lui non è mai stato bravo a disegnare.

Non so dopo quanto tempo che ci conoscevamo sia successa questa cosa, so solo che da quel giorno, quella mattina indefinita del primo anno di scuola materna, ci mettemmo insieme e, tutt’oggi, non ci siamo ancora burocraticamente lasciati. La realtà è che fummo “fidanzati” per la durata della materna, anche se a me piaceva un altro bambino, il terzo membro del nostro gruppetto: Paolo. 

Eravamo indivisibili, noi tre. Tutti i giorni giocavamo insieme, passavamo l’ora del pisolino uno accanto all’altro, eravamo seduti vicini alla mensa, in classe e sul pulmino; spesso passavamo il tempo assieme anche dopo scuola, a casa di uno dei tre, fino all’ora di cena. Abbiamo anche dormito assieme di notte, qualche volta. Nemmeno le vacanze estive ci potevano tenere lontani.

Loro due erano i migliori amici che avessi mai potuto desiderare di avere e che io abbia mai avuto.

Con l’iniziare delle elementari però, tutto cambiò: i miei divorziarono durante il primo anno di scuola e io andai ad abitare con mia madre in un’altra città. Anche se poco distante, l’unica occasione in cui il nostro trio si riuniva era durante l’ora del catechismo il sabato pomeriggio.

Ricordo che non mi piaceva affatto, il catechismo, ma c’erano loro due e questo mi bastava per andare a svegliare mia madre dal riposo pomeridiano e trascinarla a forza fuori di casa per evitare di far tardi. Non volevo perdere nemmeno un minuto da poter passare con Paolo e Arkin.

Tale situazione durò per un paio di anni scarsi, perché in vista della prima comunione dovetti iniziare a frequentare il catechismo della Chiesa della mia nuova città.

Ricordo ancora il momento in cui lo dissi loro. Eravamo sull’altalena che ci dondolavamo, quando a un certo punto mi fermai e dissi che non mi avrebbero più vista lì. Si arrestarono entrambi di colpo, guardandomi con gli occhioni lucidi. Mi chiesero se stessi scherzando, io risposi di no.

Rimanemmo tutti e tre in silenzio, fino a che la voce di mia madre ci raggiunse. Scesi dall’altalena e mi diressi alla macchina, voltandomi a metà strada e facendo un timido cenno di saluto con la mano. Paolo tirò un piccolo sorriso in risposta e alzò la mano, Arkin non mi guardò neppure, preferendo tenere lo sguardo puntato a terra con una smorfia in volto che era il tentativo di trattenere le lacrime. Ci rimasi male, ma non poteii nemmeno affermare che mi aspettassi comportamenti diversi.

Sempre gentile e altruista, il mio Paolo.

Sempre capriccioso e orgoglioso, il mio Arkin.

Non li vidi né sentii più, sino a uno dei giorni più brutti della mia vita. Era estate, più precisamente il 14 luglio del 2010, il mese tutt’ora più insopportabilmente caldo della mia esistenza. Fu il primo anno che non passavo le vacanze estive al mare, stavo camminando con la mia migliore amica dei tempi delle medie quando ci fermammo all’edicola per prendere un giornalino. Uno di quelli tipici da tredicenni, pieni di poster delle star della Disney che se ritrovi dopo qualche anno ti viene da fare un facepalm epico e chiederti come hai potuto spendere tanti soldi in cretinate del genere. Ma all'epoca ti sembrava di star facendo gli affari di una vita.

Mentre la mia amica si fiondò dentro, per esaminare gli ultimi arrivi alla ricerca del giornalino che aveva il poster più bello, e soprattutto mancante, degno di poter andare a unirsi agli altri sul muro ormai completamente coperto delle nostre camere da letto, io rimasi all’entrata dell’edicola, pietrificata davanti alla civetta. Non mi ero mai fermata a leggere il giornale, sia mai gli articoli di cronaca, con tutte le loro brutte notizie; in fondo, a me che me ne poteva importare se a Milano un uomo aveva rapinato una banca? Io manco c’ero mai stata ancora, in una banca, per non parlare di Milano. Per questo non seppi spiegare cosa avesse guidato i miei occhi quel giorno: il destino, il karma, Dio, Babbo Natale, Son Goku, Jack Frost, chiamatelo come vi pare, fatto sta che i miei occhi si incollarono alla foto del ragazzino appena adolescente e, per la prima volta in vita mia, lessi un articolo di giornale. La foto era quella di un Paolo appena adolescente, a lato della pagina; sotto, la didascalia con il suo nome, in alto il titolo che ricordo tutt’oggi come se lo avessi ancora di fronte agli occhi: “Bimbo di tredici anni muore mentre gioca a calcio”. Mi sentii mancare e caddi a terra in ginocchio, mentre le lacrime mi rigavano il viso. Fu un pianto silenzioso, di quelli che ti fanno estraniare dal resto del mondo, non importa cosa possa accaderti intorno. Privo di singhiozzi o scosse al petto, perché già di suo troppo doloroso, tanto che il corpo ha paura di fare qualsiasi movimento, rischiando di innescare un qualche meccanismo di autodistruzione.

La mia amica e l’edicolante mi vennero subito vicini, cercando di farmi rinvenire e dicendomi parole che non riuscivo a sentire. Ero già nella mia bolla di disperazione. Tutto ciò che mi occupava gli occhi era il volto del mio amico e a riempirmi la mente sola una parola, che non riuscivo in alcun modo a metabolizzare: morto.

Al funerale ricordo di esserci andata da sola e di nascosto, non volevo nessuno in quel momento. Sgattaiolai via di casa mentre mio fratello e mia madre dormivano beati, lasciando un biglietto con scritto che me ne andavo a guardare l’allenamento di canottaggio dei senior, dato che erano gli unici ad avere il permesso di scendere in barca senza l’allenatore. Presi dunque la bici e pedalai quelle due ore e mezza che mi distanziavano dal mio vecchio paese, ringraziando che le persone la domenica mattina preferissero dormire piuttosto che stare per strada.

Ricordo ancora la chiesa stracolma, l’aria irrespirabile estiva, la bara del mio amico d’infanzia in mezzo a tutto; il dolore che mi squarciava il petto, ma restava nascosto.
Restai in disparte per tutto il tempo, non riuscendo a distogliere lo sguardo da quella maledetta cassa. I ricordi del bambino che avevo conosciuto che mi affollavano la mente e scorrevano uno dietro l’altro a una velocità allucinante. Non esisteva altro, in quel momento. Non ebbi nemmeno il coraggio di andare dai suoi genitori per far loro le condoglianze, certa che non mi avrebbero nemmeno riconosciuta. A oggi, è ancora una cosa di cui mi pento.

L’unico barlume di lucidità ce lo ebbi quando vidi Arkin, impossibile non riconoscere quei due zaffiri. Era in prima fila e i genitori avevano speso due parole tremanti per ringraziarlo, dopo che aveva salutato Paolo. 

Quando mi passò davanti nell’uscire dalla chiesa, i nostri occhi si erano incontrati per un breve istante. Ricordo bene la sensazione di quell’attimo: fu come se il suo sguardo mi avesse inflitto una pugnalata al centro del petto.

Non sapevo se lui mi avesse riconosciuta, perché non aveva fatto alcun cenno, ma non aveva importanza: mi ero sentita male, quegli occhi blu mi avevano fatto male.

Sono passati anni, il dolore per Paolo si è fatto sopportabile con il tempo. Ancora una parte di me, quella più razionale, è sempre stata incapace di comprendere come fosse possibile che abbia fatto così male perdere qualcuno con cui non avevo più contatti da anni. Ciononostante, il dolore non se n’è mai andato del tutto. Io non l’ho mai superato, né dimenticato, l’ho solo nascosto, sempre. 

D’altronde, nascondere le mie emozioni, cercare con tutte le mie forze di non riconoscerle, è sempre stato tutto quello che sono riuscita a fare. Se non le riconosco, non le devo affrontare: in questo modo, persino la paura e la rabbia diventano cose di poco conto, che riesco a tenere a bada quel tanto che basta per liberarle nei momenti più appropriati, come quando di notte sono sola e posso piangere quanto voglio, senza rischiare che nessuno mi senta o mi veda.

Tranne Grugra, il mio gatto mezzo selvatico. Ma di lei non mi vergogno.

All'inizio della storia che segue, stavo frequentando il terzo anno di Università e tutto stava procedendo bene. Da sempre non vedevo l’ora di andare alla facoltà di Scienze del Turismo e in quel momento mi pareva tutto quanto un bellissimo sogno. O almeno, così credevo. Sono una di quelle persone che ha sempre saputo cosa voleva fare sin da bambina: dirigere un mio albergo. Il sogno rappresentato sulla dreamboard nella mia cameretta sarebbe quello di avere un albergo con vista sui monti della mia terra, un po’ rustico, con possibilità di far fare ai clienti delle passeggiate a cavallo, escursioni e quant'altro. Qualsiasi cosa per poter permettere ai turisti di scoprire quanto sia meravigliosa la mia terra natia.

Comunque, adesso non è più il momento di sognare, devo tornare coi piedi per terra e raccontarvi la storia che vi ho promesso sin dall’inizio. Ed è quello che farò adesso, a cominciare dalla prossima pagina!

Eh sì, dalla prossima pagina, perché ora sono le tre e mezza di notte e se vengo scoperta ancora sveglia non arrivo integra a domani…

 

Camilla

 

 


 
Le scritte in nero sono dal punto di vista di Camilla, quelle in blu saranno dal punto di Arkin.
 

 

Attenzione

Come avrete potuto già notare, questo racconto è scritto utilizzando la prima persona dei protagonisti. Siccome entrambi sono toscani, del centro oltretutto, anche il loro racconto è in toscano, soprattutto per quanto riguarda i dialoghi. Ho avuto come beta readers dei non-toscani che mi hanno assicurato che è perfettamente chiaro anche a chi non di zona, ma ci tenevo comunque a chiarire subito questa cosa. Alcuni dialoghi saranno in “dialetto stretto” e questi ultimi saranno accompagnati da delle “traduzioni in italiano” tra parentesi, così come le traduzione di norvegese e francese.
 

Questa storia parla di fatti e personaggi in parte realmente accaduti e vissuti. Per questioni di privacy, la maggior parte dei nomi sono stati cambiati.
 


Woah. Non pensavo di tornare a pubblicare qualcosa, dopo, quanto...? Un paio d'anni...? 
Lo ammetto, una parte di me credeva non sarei più tornata. E invece eccomi qui. Questa storia dovevo farla uscire dalla memoria del computer, in un modo o nell'altro. L'avevo già pubblicata qualche tempo fa (parlo di anni, me disgraziata), ma poi... Oddio, onestamente c'erano stati eventi che avevano fatto decidere di cancellare. Poi quel che è successo l'anno passato me l'ha fatta riprendere in mano e mi son decisa a finire di scriverla e "metterla via". Almeno, nella mia testa, diventerà un qualcosa di "fatto" anziché "resta nella memoria del computer per una vita". Mi sono rotta di avere le cose nella memoria del computer per una vita, sempre per un motivo o per un altro, lasciarle lì ad ammuffire. Che senso ha, dico bene? Una fa un lavoro sì per se stessa, ma per poterlo poi pubblicare in qualche modo, e poter andare avanti. Ecco, questo  è il principale motivo per cui ho deciso di pubblicare: andare avanti. Non avere quel racconto completo nel database che sta lì, mi vado a rileggere ogni tanto, lo cambio di continuo, una frase qui, una frase là, anziché concentrarmi su progetti nuovi, su cose che magari mi interessano anche di più. Magari questa cosa non avrà senso per molti di voi, ma so che, dietro quello schermo, c'è almeno una persona che ha capito perfettamente quello che intendo e tanto mi basta. 
Di solito, racconti "complessi" come questo li dedico a qualcuno... Anche solo per pulirmi la coscenza. Ma questa volta no, questo racconto non lo dedico a nessuno, se non hai suoi personaggi. Sono loro che fanno la storia e, per quante sberle mi vien voglia di dar loro in un sacco di momenti, senza di loro non ci sarebbe il racconto. Quindi questa volta, questa storia è dedicata solo ed esclusivamente ai suoi personaggi! Sorry lettori
Beh, io penso di aver parlato abbastanza... Ci risentiamo al prossimo capitolo magari, eh. Sabato prossimo, ciao ciao!


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