Edward
Guardai Bella, mentre scherzava
timidamente con mia
sorella Alice.
Aveva un piccolo sorriso e le
fossette alle guance.
Era proprio un angioletto, il mio angioletto. Nell’ultima
settimana aveva fatto
davvero tanti progressi per riprendersi dalla sua crisi, ed ora si
stava
riposando dopo la psicoterapia con Rose.
Ricordavo perfettamente il suo
volto quando l’avevo
trovata nella baita in montagna con il randagio rognoso.
Al suo solo pensiero vidi i muscoli
delle mie braccia
tendersi. Dovevo calmarmi. Mia sorella Rosalie, con i suoi pensieri me
lo
ricordava sempre, così non facevo altro che spaventare
Bella.
Ma come potevo dimenticare quello
che le aveva fatto?!
Era terrorizzata. Era semplicemente terrorizzata. E avevo una folle
paura di
toccarla, di sfiorarla, perché sapevo che questa volta
c’era molto più della
sua carne, molto più del suo corpo da ferire. Non volevo
ferire la sua anima
già irreparabilmente lesa.
Ricordavo con la precisione della
mia mente vampira il
momento in cui si era risvegliata, nella mia camera. Rosalie diceva che
era
meglio portarla nella nostra vecchia casa, l’ambiente
famigliare e la vicinanza
con tutti gli altri l’avrebbe aiutata a superare il trauma
vissuto.
Non riuscivo neppure a
immaginare… chissà quali enormi
pene, non ancora confessate, aveva dovuto subire.
La prima settimana era stata un
inferno. Tentavo in
ogni modo di esserle accanto, di cancellare ai suoi occhi il mio
dolore, in
modo che mi sentisse vicino e potesse riprendersi. La vedevo stare
immobile,
abbandonata sul letto, e mi sembrava solo un corpo, un guscio vuoto
inerme. La
vedevo piangere, la vedevo urlare dopo aver fatto un incubo e la vedevo
sgranare i suoi occhi color cioccolato, imprigionati
nell’angoscia. E mi
sentivo irrimediabilmente impotente. La vedevo fra le braccia di Rose,
che
confortandomi con i suoi pensieri la portava in bagno per medicarla.
Quanto avrei voluto stare accanto a
lei a tenerle la
mano, a rassicurarla, a confortarla! Ma non si poteva fare, e Rose non
mi
poteva dire nulla, solo lei, solo Bella avrebbe potuto farlo.
Ma il tempo passava, e nulla
migliorava. La vedevo lì
nel letto, pallida, smunta, con un ago nel braccio per la sua
ostinazione a non
voler mangiare, a non voler parlare, a non voler muoversi. A non voler vivere.
Carlisle ci stava davvero male.
Lui, il più sicuro e
ottimista della famiglia, non l’avevo mai visto
così abbattuto, ma la sua
frustrazione nasceva dal rifiuto di Bella di essere aiutata. Dal non
poter
svolgere il suo mestiere, a cui aveva dedicato una vita.
Anche tutto il resto della famiglia
soffriva. Emmett
non scherzava più, Esme
cucinava e buttava nel
cestino tutti i pasti rifiutati da Bella, Rosalie stava perdendo la
speranza,
Jasper soffriva nel sentire tutte le sue e le nostre tristissime
emozioni e
Alice… Alice era quella che stava peggio. Dopo di me
ovviamente.
Non riusciva a capire come Bella
avesse potuto
scegliere un destino del genere, come avesse potuto cancellare quel
futuro in
cui loro erano sorelle e vampire. Non riusciva ad accettarlo.
L’unico che riusciva
ancora a sperare, mascherando
così il mio immenso dolore, ero io. Tutto
questo è impossibile. Mi ripetevo. Bella
mi ama e io amo lei, nient’altro conta.
Ma non potevo ignorare la mia gola
che ardeva di
dolore. Perché quel dolore non aveva nulla a che fare con la
sete. Quel dolore
era la mia esistenza, l’unica scintilla lucente di vita,
donatami da Bella, che
si stava spegnendo, congelata nel mio corpo di ghiaccio.
E tutto quel dolore, portato avanti
da una finta
maschera di speranza, esplose nel giorno in cui Alice non
poté più tacere.
Vidi nei suoi pensieri cosa aveva
detto a Bella, subito dopo il mio ennesimo tentativo di parlarle, e mi
fiondai
immediatamente in casa, prendendo la mia sorellina tra le braccia e
calmando i
suoi singhiozzi. Potevo consolare almeno lei…
Ma poi, una visione… la
più terribile che Alice
potesse avere. Bella, la finestra, il salto. Il suo corpo esanime in
una pozza
di sangue. Immediatamente sentii i muscoli scattare e non mi curai
più di
seguire una velocità umana, ma mi precipitai a chiudere
l’oggetto, causa della
morte della mia unica ragione di vita.
Purtroppo, sul suo volto, nacque
un’espressione ancor
più dolorosa. Sentivo fortissima nella mia mente la sua
sofferenza, non solo
tramite i pensieri di Jasper, ma anche grazie al particolare contatto
che ci
legava.
Gridò, disperata. E
sentivo ancora il suo grido
inumano nelle mie orecchie, una straziante richiesta d’aiuto
non espressa.
A quel punto ogni mia certezza
cadde. Ogni speranza.
Lei non era più lei. La mia solare, forte, spensierata,
timida e stupenda
moglie.
Il suo dolore, immenso, era troppo
grande. Lo leggevo
nei pensieri di mio padre. Per un umano era impossibile superare tutto
quello.
Il rapimento, la violenza, l’omicidio. Come avrei voluto
farmi peso di tutto
quel dolore! Impossibile. Parola
mai
esistita nel mio vocabolario di un mondo che rende possibili anche le
più
strane e orrende fantasie dell’uomo.
In quel momento, però,
entrambi ci facevamo del male.
Bella, chiudendosi sempre più dentro di sé, ed
io, che potevo solo stare a
guardare, immaginare le immense dimensioni del suo dolore e tentare di
spartirlo con la metà della mia anima che dovevamo ancora
avere in comune.
Dolore, solo dolore.
Ma poi, non so perché,
non so se a causa delle parole
di Alice o di un’improvvisa lucidità, Bella mi
aveva parlato, aveva detto il mio
nome. La sua voce era tremante, aliena, piena di tutta la disperazione
che
provava. Ma era la sua voce e io ne avrei contemplato ogni
più musicale nota.
Peccato che solo pochi minuti
più tardi, la situazione
si era completamente capovolta. Era stato uno strazio terribile vederla
ferirsi
a quel modo davanti ai miei occhi. Ancor di più
perché la scelleratezza di quel
gesto mi faceva capire quanto dovesse essere grande la sua angoscia.
Non potei più aspettare,
non più. Non potevo più far
tacere il mio istinto umano - risvegliato solo da lei - che mi gridava
nella
testa: aiutala! Salvala!
E così, le nostre anime,
stracciate in due parti dal
dolore, si erano fuse nuovamente insieme. E in quel momento
l’avevo capito, ne
avevo finalmente la certezza. Lei aveva bisogno di me. Non
c’era bisogno che me
lo chiedesse ancora, perché lei lo aveva detto: Ti amo.
E così era cominciata la
sua lenta guarigione. Parola
dopo parola, contatto dopo contatto. Era fragilissima, pronta a
chiudersi
ancora su sé stessa, e i lunghi pianti che sfogava contro il
mio petto potevano
solo farmi immaginare quanto soffrisse. Sapevo che tentava di
controllarsi,
sapevo che faceva di tutto per reprimere quelle lacrime che aveva paura
di
versare per amor mio. E tutto questo mi dimostrava ancor di
più quanto
altruista dovesse essere il mio amore, che si preoccupava di essere
stata la
causa di un essere immondo che aveva usto - non sapevo ancora fino a
che punto
- violenza su di lei.
Per ogni cosa che facevo, toccarla,
parlare,
guardarla, dovevo controllarmi. Tentavo di ricordare tutto quello che
la
potesse portare a dei ricordi dolorosi ed evitavo di farlo.
Dovevo aver pazienza, dote che
grazie al cielo non mi
mancava. Ma che sembrava invece mancare ogni tanto a Rose.
Bella era fragile, ci mancava poco
a farla sprofondare
nuovamente nel suo baratro. Una qualsiasi cosa le faceva mozzare il
respiro in
gola, la faceva tremare, la faceva scoppiare in lacrime. Ma io mi
sentivo bene.
Nonostante il costante dolore che provavo, mi sentivo bene
perché sapevo di
poterla aiutare.
E poi ora si era ripresa
così bene. Leggevo sempre nei
suoi occhi il bisogno di me. Quando mi allontanavo anche solo di
qualche metro,
mi richiamava a sé. E se poi se chiedevo se ci fosse
qualcosa che non andasse
lei scuoteva il suo piccolo capo, facendo ondeggiare i suoi lunghi
capelli, e
mi abbracciava. Aveva solo bisogno di me.
«Amore, torno
subito» dissi avvicinandomi a lei.
Mi regalò un piccolo
sorriso. «Stai andando da
Carlisle?».
Mi sorprese il fatto che
l’avesse scoperto così
facilmente. «Sì»
dissi solo. Sapevo che non ne voleva
sentire parlare di medicine e non voleva che mi preoccupassi -
inutilmente
diceva lei - per la sua salute.
Ma il suo sorriso, stranamente, si
aprì ancor di più
«Bene» disse, tendendosi con il volto verso di me.
Capii cosa voleva, così
mi chinai verso le sue labbra
e la baciai. Erano così rari quei momenti, che non
desideravo altro che
sfruttarli per renderla più felice e serena.
«Entra
figliolo»
mi disse mentalmente Carlisle quando fui davanti alla porta del suo
studio.
Entrando, mi chiusi la porta alle spalle.
Da quando Bella aveva avuto quel
mancamento durante la
festa del suo compleanno, mi sentivo molto nervoso e preoccupato. Lei
diceva
sempre di sentirsi bene, che non c’era nulla che non andasse.
Ma la vedevo ogni
tanto portarsi una mano alla pancia, o alla bocca, e chiudere gli
occhi. Come
se stesse avendo un conato di vomito o un capogiro. Ero molto
preoccupato.
«Sei
ancora in
pena per Bella?».
Annuii.
Mio padre mi fece segno di sedermi
su una poltrona
accanto alla sua. Era un gesto umano e non necessario, ma serviva a
creare un’atmosfera
tranquilla. «È successo qualcos’altro?
Ti ha detto qualcosa?» mi chiese serio.
Attraversai la stanza alla mia
velocità, sedendomi
sulla poltrona indicata da Carlisle. «No, lo sai che non mi
dice nulla…
minimizzava già prima, figurati adesso. E così
non fa altro che farmi
preoccupare di più» confessai sconfortato.
Mio padre mi fece leggere i suoi
pensieri. Lui era
piuttosto tranquillo, ma riconosceva che lo svenimento accostato alla
sua
perenne nausea poteva destare qualche sospetto. Tuttavia
aveva fatto i controlli di base, e non aveva trovato nulla che non
andasse in
Bella. Avrebbe voluto fare delle analisi più approfondite,
ma Bella si era
categoricamente rifiutata di andare in ospedale. Figurarsi che per ora
era solo
riuscita a fare qualche telefonata a suo padre e sua madre.
«Sì hai
ragione» ammisi io allora, sconsolato. «Ma
come te lo spieghi allora il suo malore, la nausea?».
«Edward,
potrebbero anche essere dei piccoli attacchi di panico. Non
mi sembra il
caso di tartassarla con delle domande sulla sua salute, potrebbe
sentirsi
oppressa e reagire contrariamente a come vogliamo che
reagisca».
«Già…
ma se non sono attacchi di panico? Che cosa
potrebbe essere, lo champagne?»
chiesi sarcastico. Impossibile che fosse davvero così. Bella
non avrebbe potuto
bere dell’alcool con la terapia di benzodiazepine,
così per il suo compleanno
Alice aveva preso uno spumante analcolico.
«Credo che sarebbe bene
aspettare, se si dovessero
presentare dei sintomi rilevanti o se la nausea dovesse ancora
perdurare,
allora faremo immediatamente degli altri controlli» mi disse
Carlisle. Poi mi
mise una mano sulla spalla. «Sta continuando a prendere una
sola compressa al
giorno?».
«Sì, dal
giorno del suo compleanno» dissi, passandomi
una mano fra i capelli. Era molto migliorata dal punto di vista
dell’umore, e
ne ero molto felice. Ormai parlava tranquillamente con il resto della
famiglia,
mangiava più o meno regolarmente, e scherzava persino. Stava
palesemente
meglio. Certo, ogni tanto si perdeva in lontananza con lo sguardo, o
senza che
neppure se ne accorgesse dai suoi occhi scendevano
alcune lacrime. Ma per fortuna, con la mia presenza o quella di Jasper,
riusciva a riprendersi in fretta, come se nulla fosse successo.
«Come sta? Ha avuto delle
altre crisi?» mi chiese mio
padre interrompendo il veloce flusso dei miei pensieri.
«Fortunatamente solo una
volta». Sospirai. «Il
problema è la notte… Si sveglia più
volte urlando e poi ci rimette tantissimo a
riaddormentarsi. Per questo è sempre così
stanca».
Carlisle aprì un
cassetto della sua scrivania e prese
dei fogli. «Forse dovremmo abbinare dei sonniferi per la
notte, e vedere così
come va. Manda Emmett in farmacia a
prenderli».
«Edward»
sentii nella mia testa il richiamo di mia sorella Rosalie. «Bella sta aspettando te per mangiare. Mi
sembra piuttosto agitata… Non so… Ha detto di non
disturbarti e che ti
aspetterà, cosa stai facendo ancora lì?».
«Cosa
c’è?» chiese mio padre notando il mio
sguardo
assente.
«Bella…
Rosalie dice che è strana…». Corrugai
le
sopracciglia. C’era qualcosa che mi padre non mi aveva detto,
per cui Bella era
agitata. «Che cosa mi devi dire?» chiesi curioso.
Mio padre mi sorrise. «Dobbiamo parlare».
Lo invitai a proseguire.
«Bella è molto
perspicace, lo è sempre stata. Ha
notato che non andiamo a caccia da un po’ - più di
tre settimane per l’esattezza
- e che la maggior parte di noi fatica a starle accanto» modo
gentile per
escludersi «così mi ha chiesto di dire a tutti che
vorrebbe che andassimo a
caccia, stanotte per la precisione».
Lo guardai stranito. I suoi
pensieri mi dicevano che
si aspettava una reazione da me, ma io non capivo. «Certo, va
bene, andate
pure» dissi dopo un po’.
«Edward»
mi
richiamò mentalmente mio padre «anche
tu».
Improvvisamente mi alzai a
velocità inumana, facendo
cadere la sedia a terra. «Lasciarla?» chiesi
sbigottito «lasciarla sola?!».
«Edward,
calmati» mi disse Carlisle sia con i pensieri
che con le parole.
«No che non mi calmo! Io
non la lascerò affatto».
Carlisle sospirò,
scuotendo il capo. «Sapeva che
avrebbe reagito così».
Ora capivo il motivo della sua
agitazione.
Impossibile. Io non l’avrei lasciata. Affatto. Decisamente
impossibile.
«Vuoi aspettare fino al
giorno della sua
trasformazione? Fra due mesi?» chiese Carlisle con un
sopracciglio alzato.
«Perché
no» feci, non credendo neppure io stesso alle
mie parole.
Carlisle sospirò.
«Bene. Non
aspetterò due mesi, ma non verrò neppure
stanotte con voi. Non ho intenzione di lasciarla completamente
sola» dissi
determinato, battendo un pugno sulla scrivania. Se non fosse stata di
legno
massello si sarebbe già rotta.
«Invece
dovresti» mi disse Carlisle, con la mia stessa
convinzione. «Primo, perché nei hai bisogno, non
vai a caccia da un mese, e non
puoi ridurti in questo stato, guardati» disse indicando la
mia immagine allo
specchio.
Avevo due ustioni al posto delle
occhiaie e le guance
tirate. Gli occhi… erano neri come una notte senza stelle.
Distolsi lo sguardo.
Avrei sopportato un’altra notte.
«Secondo» fece
ancora Carlisle «perché mi ha chiesto
di rimanere sola».
«Te l’ha
chiesto lei?» chiesi sbigottito.
Poi sentii dei passi umani e un
respiro pesante dietro
la porta.
«Entra, Bella»
disse Carlisle, lanciandomi un’occhiata
ammonitrice.
Lei aprì titubante la
porta e entrò nello studio con
passo incerto. Il sangue che le imporporava le guance fece
istintivamente
salire nella mia gola un fiotto di veleno. Aveva ragione, dannazione.
Ero
proprio ridotto male.
Aprii le braccia e lei si sedette
sulle mie ginocchia.
La strinsi a me, inspirando il suo irresistibile odore.
«Gliel’hai
già detto?» chiese a Carlisle con la sua
debole e melodiosa voce umana.
Lui le sorrise.
«Sì, ne stavamo discutendo proprio
ora».
Lei annuì,
mordicchiandosi un labbro. Poi posò i suoi
grandi occhi marroni nei miei. «Ti prego»
sussurrò, fissandomi di sottecchi
«vai».
Sospirai. Riusciva sempre a
convincermi. Ma questa
volta non avrei cambiato idea. «No Bella, non ti lascio
sola» dissi
determinato.
Lei chiuse gli occhi. Poi
sospirò, riaprendoli, seria.
«Va bene» disse. Mi stupì il fatto che
si fosse convinta così velocemente. Si
sollevò in piedi e andò verso la porta. Poi
l’aprì. «Emmett, Jasper».
Immediatamente i miei fratelli si
pararono davanti a
me. In quel momento capii le sue intenzioni. Non aveva affatto cambiato
idea.
Dovevo immaginarlo, Bella era testarda.
Mi guardò con
determinazione. «Ne ho già parlato agli
altri» disse, e in quel momento nello studio comparve anche
il resto della
famiglia. «Sono tutti d’accordo, non avercela con
me. Stanotte tu andrai a
caccia, che lo voglia o no».
«Edward,
ha
bisogno di rimanere sola», pensò
Rosalie.
Alice mi guardò
«Andrà
tutto bene, l’ho visto. Sarà importante per lei
sapere di avercela
fatta».
Scossi il capo, e vidi Jasper e
Emmett avvicinarsi determinati.
«Bella»
sibilai, frustato e preoccupato.
I suoi occhi si fecero grandi sul
suo viso pallido e
smunto, ma sostenne il suo sguardo. «H-ho bisogno che voi
andiate. S-se… se
davvero mi avete detto la verità»
farfugliò, studiando rapidamente i nostri
volti in cerca di una conferma «se davvero non
c’è pericolo per me, non c’è
motivo perché non rimanga sola».
«Ci sono
invece!» esclamai, facendola trasalire e
arretrare istintivamente. Presi un respiro per calmarmi.
Distolse per un attimo lo sguardo,
dirigendolo verso
la finestra e facendolo diventare vitreo, lontano. La sua voce era
piatta e
monocorde quando disse «vorresti dirmi che Jacob è
ancora vivo?».
Trasalii. Non aveva più
pronunciato il suo nome. «No».
Lentamente si volse nuovamente a
guardarmi. Piegò il
capo da un lato, sperando di piegare anche me con la sua logica.
«Questo non cambia
nulla».
«Perché?».
«Non è Jacob
il pericolo per te adesso».
«Ah no?» mi
domandava, i suoi piccoli pugni chiusi
frementi di una tremante rabbia e paura.
«Tu stessa sei il
pericolo per te! Stai ancora troppo
male».
Un fremito. Un singhiozzo. Tutti
gli occhi della mia
famiglia su di lei, pieni di pena. Bella che fuggiva in lacrime. Io che
correvo
da lei per bloccarla senza curarmi della mia velocità
vampira. Bella che urlava
spaventata dal mio tocco e dalla mia velocità, gettandosi a
terra e mettendo le
braccia a coprirsi il capo, come a proteggersi.
«Amore, sono solo
io!».
«Non mi toccare, non mi
toccare!» urlava senza fiato,
tutto il suo minuscolo corpo violato scosso violentemente, involucro di
una
mente ferita che non era più lì con me.
«Ah!» l’urlo più agghiacciante
«non mi
toccare!».
Gli sguardi della mia famiglia
erano su Alice, in
attesa che rivelasse la sua visione. Solo Bella guardava ancora me,
supplicandomi con lo sguardo che non aveva ancora perso la sua
fierezza.
«Dormi, amore»
un bacio sulla fronte. Buio. Un bacio
sulle labbra, e un vero, raro sorriso di Bella, uno di quello che non
vedevo…
da tempo, l’indomani mattina.
Alice si volse a guardarmi.
«Andrà tutto bene»
pensò.
Sospirai, malvolentieri. Il mio
istinto mi diceva che
non era la cosa giusta da fare, ma le visioni di mia sorella mi
dicevano che
non avevo scelta. Rilassai le spalle e annuì seccamente, di
malavoglia. Prima
ancora che allargassi le braccia Bella era corsa a rifugiarsi sul mio
petto,
sollevata.
Mezz’ora dopo ero in
camera mia insieme a lei, seduta
sulle mie ginocchia. Indossava una morbida vestaglia che arrivava fino
a metà
coscia, con sotto dei pantaloncini di cotone bianco con gli svolti
della stessa
seta azzurra del pezzo di sopra.
«Sei arrabbiato con
me?» mi domandò preoccupata,
studiandomi.
Sospirai, e non le risposi. Non ero
arrabbiato, ma
solo maledettamente preoccupato. Come dirglielo senza farla dubitare di
sé
stessa? «Non voglio lasciarti sola» mi arresi a
dire infine.
Sentii una sua mano calda sulla
guancia. «Dormirò
tutta la notte e quando domani mi sveglierò tu sarai
lì accanto a me. Non mi
accorgerò neppure della tua assenza. E
poi…» disse, mordicchiandosi il labbro.
Le misi un dito sotto il mento,
sollevandolo. «E poi?»
chiesi.
Lei prese un piccolo respiro.
«Domani mattina ti
racconterò tutto, promesso» mi gettò le
braccia intorno al collo e strinse con
tutta la sua forza. «Ce la farò…
tutto» sussurrò determinata.
Posai una mano sui suoi capelli
morbidi. Quel
pomeriggio avevamo fatto molti passi avanti durante una seduta di
psicoterapia.
Era una terribile sofferenza per lei raccontarmi i suoi ricordi
dolorosi, ma
per me era necessario per sapere e per Rosalie era necessario per
superare il
trauma.
Sbadigliò.
«Sono stanca» mormorò, la pelle pallida
e
le occhiaie sotto gli occhi, accucciandosi in posizione fetale. Era
più stanca
di prima, di quando era solo un’umana. Adesso era
un’umana ancor più fragile e
ferita.
Rosalie entrò nella
stanza. «Carlisle ti ha prescritto
dei sonniferi, cosa ne pensi di cominciare da stasera?»
chiese gentile a Bella.
Mia sorella aveva completamente cambiato atteggiamento con lei. Ora
spartivano
molto più di quanto non avessi voluto…
Lei scosse il capo, accucciandosi
maggiormente contro
il mio corpo. «No Rose… ce la
faccio…».
Mia sorella le sorrise.
«Va bene, qualora ne avessi
bisogno te li lascio sul mobiletto del bagno, quello sopra il
lavandino».
Annuì lievemente.
La dondolai un po’ sul
mio corpo, ma nonostante fosse
stanca non si addormentava. Così la portai a letto e mi
stesi accanto a lei,
sussurrando la sua ninna nanna nel suo orecchio e maledicendo il
momento in cui
mi sarei dovuto staccare da lei.
Si muoveva irrequieta nel letto, ma
ancora non
riusciva a dormire. La lasciavo abbracciarmi come meglio credeva, ma
non
riusciva a prendere sonno.
«Sicura che non vuoi
prendere un sonnifero?» le chiesi
allora.
Scosse il capo, chiudendo le
sottili palpebre rosate.
Aspettammo ancora, ma non riusciva ad addormentarsi.
«Fa caldo»
mugugnò infine.
Mi venne un’idea. La
presi fra le braccia e mi
sollevai in piedi. Posai la sua testa nell’incavo del mio
collo e, nonostante i
suoi deboli rifiuti, le misi addosso una copertina, fino a coprirla
completamente. Passai diverso tempo così, passeggiando per
la stanza e
cullandola, massaggiandole la schiena con la mano libera. Ogni tanto
interrompevo la mia ninna nanna per baciarle la fronte.
«Ti amo»
farfugliò ad un certo punto.
Sorrisi. L’amavo davvero,
così tanto. Ed era così
debole e fragile. Come avrei potuto separarmi da lei, anche solo per
una notte?
«Anch’io ti amo, ora dormi».
Continuai a cantare, a cullarla e
passeggiare per la
stanza. L’amavo. L’amavo e l’adoravo
indiscutibilmente. Quando tutto questo
sarebbe passato, avrei trascorso la mia serena eternità con
lei.
Quando la sua piccola e carnosa
bocca rossa si aprì
lievemente, lasciando passare un respiro pesante, capii che si era
addormentata. Delicatamente, attento a non svegliarla, la misi a letto,
rimboccandole le coperte e donandole un ultimo bacio.
Sospirai. Staccarsi dal mio
angioletto sarebbe stato
difficilissimo, eppure dovevo farlo.
Bella
Mi sentivo un po’ in
colpa per il modo con cui l’avevo
costretto ad andare a caccia. Non volevo che soffrisse. Standomi
accanto
soffriva sia fisicamente, sia per la sua debolezza emotiva, per cui non
riusciva
più a sopportare sia il mio che il suo dolore. Sentivo di
dover avere la prova
che stavo meglio, e stare per una misera notte da sola mi pareva una
buona
idea. Volevo provare a me stessa che era arrivato il momento. Quel
momento.
«Domani mattina ti
racconterò tutto, promesso» dissi
con fermezza, tentando di imprimere decisione nelle mie parole.
«Ce la farò…
tutto».
Già quel pomeriggio ci
avevamo provato, ma mi ero
interrotta poco prima di arrivare a finire il racconto.
Eravamo in giardino, sotto
l’ombra di un albero, perché
secondo Rose essere in un ambiente così tranquillo avrebbe
aiutato.
«Pendi la mano di
Edward» disse «e poi, piano, fai tre
respiri».
Feci come mi diceva e piantai i
miei occhi in quelli
scuri del mio amore.
«Racconta»
disse lei «dall’inizio».
«Era…»
mi schiarii la gola «era mattina. Mi ero
svegliata da poco e pregavo che il tempo non passasse più,
che lui non venisse
mai da me» mentre parlavo vedevo le immagini, vivide,
comparire dinanzi ai miei
occhi. «Ma così non fu» dissi con
dolore. «Uscii sul balcone, gridando, ma lui
mi riprese e mi scaraventò sul letto» Ricacciai
indietro le lacrime, non potevo
già piangere. Edward mi strinse con maggior forza la mano.
«Cominciò a
baciarmi… Prima la bocca e poi… il
corpo… il collo…
dappertutto…» presi un
grosso respiro. Vedevo la sofferenza nel volto di Edward.
«Continua» mi
incitò Rose.
«Strappò la
maglietta da un lato… e…» mi tremarono
le
labbra, tentai di rallentare il respiro, portandomi una mano al petto.
Dopo un
minuto circa, continuai «infilò la mano sotto la
maglietta… e… e…». Non
riuscii
a trattenere ancora le lacrime, che iniziarono a cadere copiose dai
miei occhi.
Edward mi strinse a sé.
Soffriva, soffriva troppo. E
il fatto che non andasse a caccia da molto tempo non faceva che
peggiorare le
cose.
«Ha cominciato a
toccarmi» piansi «e-e io u-urlavo… mi
dimenavo ma… lui era troppo forte… e…
corsi in bagno… vomitai, ma… lui mi
riprese… subito…» i singhiozzi mi
forzavano il respiro, facendomi scontrare
contro il suo petto. «Mi sbatté contro il muro,
tenendomi i polsi…».
Edward mi staccò un
attimo da sé, guardandomi negli
occhi. «È per questo che hai reagito in quel modo
quando l’ho fatto io?».
Annuii, gettandogli nuovamente le
braccia al collo.
«Scusami… io non volevo…».
Rose mi passò una mano
sulla schiena. «Calmati un po’,
prenditi del tempo» mi disse dolce.
Aspettammo che i singhiozzi
cessassero, tuttavia non
riuscii ad arrestare le lacrime.
«Bella» mi
chiese Edward «cosa ti ha fatto?».
Presi un respiro attraverso le
labbra tremule.
«Continuava a toccarmi… baciarmi… ovunque…
Io chiamavo te… ero disperata… dicevo il tuo
nome… l’unica cosa che potessi
fare…». Mi bloccai. Mi bastava chiudere gli occhi
per vedere come tutto era
andato a finire. Il dolore, fisico ed emotivo che ero stata costretta a
subire.
Il senso di violazione…
«Che cosa ti ha
fatto?» ripeté Edward.
«Si è
arrabbiato… mi… ha graffiato…
strappato i
pantaloni…», serrai con più forza le
palpebre.
Edward si irrigidì
completamente.
«Sentivo… il
suo bacino contro il mio…». Mi costrinsi
a prendere un respiro. «Basta!» urlai.
Edward mi distolse dai miei
pensieri, chiedendomi
ancora se volessi prendere un sonnifero. Risposi di no e tentai di
concentrarmi
per dormire. Purtroppo
però tutta quella agitazione mi
aveva lasciata innaturalmente accaldata.
Lui mi prese fra le braccia,
sistemandomi una
copertina addosso e passeggiando nella stanza canticchiando e
cullandomi, nel
tentativo di farmi addormentare. Mi sentivo bene fra le sue braccia. Mi
sentivo
protetta. E ora sapevo che ogni cosa sarebbe andata per il meglio.
Gliel’averi
detto, il giorno dopo… Ne avevo già parlato con
Rose, volevo tornare a vivere a
casa nostra. «Ti amo» sussurrai.
«Anch’io ti
amo, ora dormi» mi rispose dolcemente,
dondolandosi sui talloni e ricominciando a cantare teneramente.
Mi lasciai cullare in quel paradiso
fatto solo di
Edward, e scivolai in un tenero e dolce sonno.
Edward
Erano passate cinque ore ormai.
Cinque ore di caccia,
cinque ore di separazione da Bella. Cinque ore di pena.
Eravamo tutti più o meno
sazi, ma avvertivo dai
pensieri dei miei familiari che ci saremmo fermati tre altre ore, in
modo da
stare tranquilli per un po’. Ci eravamo spinti piuttosto
lontano, visto che
stavamo cacciando in gruppo numeroso.
Sospirai, serrando la mandibola.
Volevo solo tornare
da Bella. Mi mancava sentire il suo lento respiro mentre dormiva, il
movimento
armonico del suo petto, la morbidezza dei suoi capelli sparsi sul
cuscino.
Avevo bisogno di tenere la situazione sotto controllo e sapere che
stava bene.
Se avesse avuto un incubo? Se fosse stata spaventata? Se avesse avuto
un
attacco di panico?
Lasciai andare il corpo esanime di
un puma appena
dissanguato. Mi leccai le labbra, unica parte del mio corpo sporca di
sangue.
Sapevo ancora cacciare senza sporcarmi.
Mi sedetti su un grosso ramo di un
albero e controllai
il cellulare. Nessuna chiamata persa, nessun messaggio. Me
l’aveva giurato, mi
avrebbe chiamato se fosse accaduto qualcosa. Sbuffai, irritato.
Emmett mi raggiunse e mi mise una
mano sulla spalla «Vuoi già
tornare a casa dalla tua Bellina?!».
Sospirai, perendomi con lo sguardo
nel panorama.
«Tanto non me lo permetterai, vero?».
Lui si mise una mano sul cuore, con
fare scherzoso. «Oh
no impossibile. Ho fatto giurin
giurello, mignolino mignoletto
con la mia sorellina umana, impossibile!».
Alzai gli occhi al cielo.
In quell’istante, Alice
lasciò andare la presa sulla
sua preda.
Tutta la famiglia smise di cacciare
e si voltò ad
osservare i nostri occhi vacui.
Un’immagine terribile
prese forma nelle nostre menti.
Bella,
mortalmente pallida. I capelli color cioccolato sparsi intorno a lei.
Svenuta
a terra sul pavimento dorato della mia stanza.
La sua
mano
bianca e immobile, semi-aperta e stesa in avanti.
Accanto
alle
sue dita la nuova boccetta di sonniferi.
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