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Autore: Adeia Di Elferas    06/02/2021    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Caterina, suo malgrado, si era trovata immersa in una girandola infinita di incontri e chiacchiere che la tenevano impegnata, praticamente, dall'alba al tramonto.

Sembrava che tutta Roma volesse vederla, incontrarla, parlarle... C'era chi, come alcuni possidenti, ricchi, ma non nobili, voleva guardarla negli occhi solo per curiosità, solo per capire come e con quale forza una donna come lei fosse riuscita a sopravvivere a quella che si diceva fosse stata una prigionia degna di un vero criminale. Altri, invece, come l'Orsini che le stava davanti quel pomeriggio, voleva tastare il terreno, capire se lei ancora aveva degli agganci utili e, se sì, come sfruttarli a proprio vantaggio.

La Sforza ascoltava tutti, cercava di sorridere, rispondeva in modo sibillino a ogni domanda diretta e, di fatto, lasciava i suoi ospiti sempre contenti della sua disponibilità, ma più confusi di quando non fossero entrati nel suo palazzo.

L'Alégre, che aveva già incontrato un paio di volte, era stato molto chiaro con lei: le aveva detto che stava cercando di organizzarle la fuga più semplice e sicura possibile, in modo che potesse riparare a Firenze senza problemi. Le aveva consigliato di essere cordiale con tutti, di fingersi stupida, se era quello che avrebbe fatto stare tranquillo il papa, di comportarsi come se la lunga prigionia le avesse tolto ogni volontà. La mise in guardia su tutti, anche su quelli che ancora venivano considerati creature di Sisto IV.

Le aveva anche fatto presente che, ormai, il Valentino aveva lasciato Roma, e questo l'aveva resa felice e sollevata come un agnello che avesse saputo che il lupo se n'era dovuto andare.

Le aveva chiesto di pazientare, per frate Lauro, ancora un paio di giorni, e così lei avrebbe fatto.

Si fidava ciecamente di Yves, anche se a volte se ne chiedeva il motivo. Erano stati nemici, avevano combattuto l'uno contro l'altra, eppure in quel frangente era l'unico a cui si sarebbe affidata senza pensarci un solo istante. Forse sapeva di poter contare su quel francese perché aveva sentito in lui un tale astio per il pontefice da credere che avrebbe fatto qualsiasi cosa, pur di ledere Rodrigo, esattamente come lei.

“Sono quindi molto felice di vedervi sana e salva.” concluse l'Orsini – di cui Caterina aveva già scordato il nome intero – con un sorriso un po' tirato.

“Vi ringrazio.” disse la donna, stringata.

L'uomo sembrava tentennare, così, alla fine, Caterina gli disse che era stata lieta di incontrarlo, e che, se lo desiderava, poteva tornare da lei quando voleva. L'Orsini, un po' impacciato, capì di essere stato congedato e, con un breve inchino, se ne andò.

“Chiunque ci sia adesso – fece la Sforza, al segretario di Raffaele, che era arrivato nella saletta per annunciarle il prossimo ospite – ditegli che lo riceverò tra un paio d'ore. Adesso sono stanca.”

Le sembrava assurdo che così tanta gente volesse avere un colloquio con lei, tuttavia aveva vissuto a Roma per anni e aveva imparato a conoscere l'ipocrita inconsistenza della corte papale e dei cittadini più abbienti dell'Urbe. Probabilmente, malgrado le guerre e tutta la confusione che avvolgeva l'Italia in quei giorni, lei era il maggior svago e il più importante argomento di pettegolezzo di tutta la città.

La donna, dopo essersi presa qualche minuto per andare in stanza a bere un po' d'acqua e riflettere, si rese conto di essere agitata e di non riuscire a stare ferma a lungo. Le avevano riferito che le truppe francesi si stavano avvicinando a Capua e da lì sarebbero andate sicuramente a Napoli e quel fatto le metteva addosso una strana fretta.

L'Alégre l'aveva pregata di essere paziente e di non prendere grosse iniziative da sola, però Caterina cominciava a sentirsi insofferente, a tratti, per quell'immobilità. Non aveva avuto molte notizie da Firenze, negli ultimi giorni. L'unica nota degna di interesse era stata quella stilata da Paolo Riario che, con toni cauti, temendo sicuramente di essere intercettato, le aveva voluto far sapere che i suoi sostenitori erano a conoscenza della sua liberazione e ne erano felici.

Tra le altre cose – come suggerirle di farsi aiutare dai francesi giusti, scegliendo con cautela gli uomini di cui fidarsi per una partenza a breve per Firenze – Paolo le aveva scritto una frase in particolare che aveva scaldato il cuore della Tigre.

Per riportarsela alla mente, la Sforza riprese la lettera che teneva accuratamente nascosta nella manica del suo abito. La spiegò con calma e cercò quelle poche parole che le avevano ridato una parvenza di serenità, ma che, allo stesso tempo, l'avevano resa ancor più desiderosa di lasciare in fretta Roma.

'Lodovico – aveva scritto il Riario, usando una finezza nell'adoperare il vecchio nome di Giovannino, sempre a beneficio di occhi indiscreti che leggessero – sie fatto grande e uno bellissimo figliolo e gagliardo'.

Con un sospiro tremante, sforzandosi di immaginare come fosse diventato il suo figlio più piccolo, che ormai aveva passato i tre anni d'età, la Leonessa rimise a posto la lettera e decise di passare quel tempo che si era presa vagando per il palazzo che, solo formalmente, apparteneva al suo primogenito.

Si perse tra le opere d'arte e le statue che il Cardinale Sansoni Riario aveva collezionato nel tempo, ma non le guardò nemmeno, persa nei suoi pensieri, intenta a divincolarsi tra la voglia di riabbracciare i suoi figli e la necessità di stare al passo giusto, senza accelerare troppo i tempi, per evitare di rovinare il fine lavorio che, lo sapeva anche grazie alla lettera di Paolo, così tanti uomini stavano portando avanti per lei.

 

Fortunati ascoltò in silenzio le campane battere l'ora e poi, con un sospiro greve, andò alla scrivania per vergare una nuova lettera destinata ai due figli maggiori della Tigre: Ottaviano e Cesare.

Da quando era arrivato a Firenze, aveva dovuto fare i conti con un fatto che l'aveva lasciato senza parole per quasi due giorni: i due ragazzi, poco dopo la sua partenza alla volta di Roma, avevano lasciato la casa di Alessandra Scali e – così avevano detto ai fratelli – avevano preso la via di Milano, probabilmente per cercare un incontro con il Cardinale di Rouen.

Francesco all'inizio non ci aveva voluto credere, ma poi, messo davanti all'evidenza, aveva cercato di capire come sistemare la situazione nel miglior modo possibile. Nel frattempo si era premurato di controllare che gli altri figli della Leonessa fossero in salute e al sicuro. Aveva constato con gioia che anche Bianca e Giovannino stavano bene e avevano raggiunto senza difficoltà palazzo Scali.

Solo la piccolo Cornelia, figlia di Ottaviano, era rimasta dalle Murate, ma forse si trattava della soluzione migliore per tutti, al momento.

Giusto quella mattina, il piovano aveva anche ricevuto una breve missiva da parte di frate Lauro, che andava a riecheggiare quella scritta di proprio pugno da Caterina qualche giorno prima, con cui il frate lo informava di essere stato infine liberato, e gli faceva intendere, con qualche sottinteso, che la Tigre stava facendo del suo meglio per seguire le direttive dell'Alégre, benché sentisse sempre più spesso crescere la voglia di tornare dalla propria famiglia.

Il fatto che Bossi fosse stato nominato in modo ufficiale Cappellano personale della Tigre, secondo Fortunati, poteva rappresentare un problema. Non nell'immediato, magari, ma se la donna avesse deciso – com'era del tutto probabile – di portare con sé il frate a Firenze, in città quella presenza sarebbe stata un motivo di attrito tra la Sforza e la Signoria, in quanto, per motivi che il piovano stava ancora indagando, sembrava che frate Lauro fosse ben noto, in zona, e non molto apprezzato.

Anche in quell'ottica, era fondamentale, secondo il fiorentino, fare in fretta a preparare il terreno giusto per l'arrivo di Caterina e, come prima mossa, la famiglia doveva essere unita e farle quadrato attorno.

Gli equilibri erano molto precari e anche se la Tigre era di fatto una cittadina di Firenze, Francesco sapeva bene quanto fosse complessa la sua posizione. Innanzitutto, chiedendo numi ad alcuni suoi contatti altolocati, Fortunati aveva scoperto che nel 1498, quando Giovanni Medici aveva richiesto la cittadinanza per la moglie e per i figli adottivi, i voti favorevoli a quella concessione erano stati settecentoventisei. Non erano poco, ma i contrari erano comunque stati trecentocinquantanove, e, non lo si poteva escludere, vista la confusione sorta appena un paio d'anni dopo attorno alla figura della Leonessa, probabilmente molti degli oltre settecento favorevoli, se avessero dovuto rivotare, non sarebbero stati più così propensi ad ascrivere Caterina Sforza tra i cittadini di Firenze.

E, a ben pensarci, anche all'epoca della concessione della cittadinanza, erano stati più il nome e la buona fama di Giovanni ad averla vinta, che non quelli della diretta interessata.

Il piovano, quindi, si sentiva come preso in mezzo a una morsa. Da un lato avrebbe voluto sentirsi sicuro di sé e pronto a tutto, perfino ad assicurare a Caterina che Firenze sarebbe stata per lei un porto sicuro, ma, dall'altro, voleva che ci fosse anche qualcun altro al suo fianco, pronto a combattere in caso di necessità. Ottaviano e Cesare Riario, di per se stessi, non avevano grandi titoli o dei curricula particolarmente pesanti, eppure secondo Fortunati avrebbero potuto fare la loro parte, se solo si fossero schierati apertamente in difesa della madre.

Francesco aveva scritto già due volte ai due figli maggiori della Sforza, mandando due staffette a cercarli, ma per il momento non aveva avuto ancora né notizie certe né risposte autografe dei due giovani.

Così, quando si mise comodo alla scrivania e impugnò la penna già intinta nell'inchiostro scuro, decise di usare le parole che, a sua idea, potessero ritenersi il più adatte a convincerli a rientrare il prima possibile a Firenze, quali che fossero gli affari che li stavano trattenendo al nord.

Per quella volta aveva scelto un giovane stalliere che si era rifugiato a Firenze proprio alla rotta dei Riario, tornando tra le fila dei loro servitori con un ardore che Fortunati riteneva quasi stucchevole, ma che di certo gli avrebbe fatto un gran servizio, per un compito tanto delicato.

Dapprima stese un breve riassunto di quanto accaduto alla loro madre dalla liberazione di Castel Sant'Angelo in poi, in modo che, se anche le prime due missive fossero andate a vuoto, con quella in mano avrebbero ugualmente potuto capire la delicatezza della situazione generale. Dopodiché scese più nel dettaglio, sperando di poter così toccare le loro coscienze.

'La S.a V.a vedranno per le sue incluse in questa et altre copie di lettere ad me, che mi hanno forzato mandare Francesco vostro staffiere ad posta ad ciò che quelle provenghino in modo S. Ex. possa uscir di mano di quelli diavoli incarnati – il piovano deglutì nel descrivere in quel modo il papa e suo figlio, ma si disse che non esistevano termini più appropriati di quelli, per tratteggiare due mostri simili – et tornarsene a sua figlioli'.

Ci pensò ancora un momento e poi affondò: 'Et credo sia bene fare presto ad ciò non incorressi in qualche maggior laccio, che ogni minimo accidente la farebbe ritornare in più servitù che prima.'.

Forse, si diceva, quell'ammonimento avrebbe fatto poca breccia su Cesare, che aveva una visione molto fatalista della vita, riconducendo ogni fatto dell'esistenza umana al volere divino, ma Ottaviano, che pure a parole odiava e disprezzava la madre, anche solo per paura di subirne in un secondo tempo le ire, o di averne la morte sulla coscienza, avrebbe raccolto quelle parole con lo spirito giusto, forzando anche il fratello a darsi una mossa e tornare in fretta a Firenze.

'Però provedete subito, et fate d'esser qui – specificò Francesco, senza mezzi termini, cercando di dare un buon quadro della faccenda – frate Lauro scrive che si è acconcio con sua Signoria per Cappellano, che non potrebbe essere più ad proposito, essendo in quella gratia et bono credito che è qui et tenuto uno frate da bene et bono: che se cognioscie pure che le cose nostre sono per indirizzarsi bene: maravigliomene veramente assai, scrivendomi pochi giorni fa Madonna di sua mano, che lui era fora, et che le S.e V.e si guardassino da lui come vedesti, che hora se lo habbia messo in casa: che se lui viene qui seco, farete una buca in terra, essendo lui in odio a ciascuno et maxime a questi Frateschi: hollo scripto ad sua Signoria non so come se ne governerà: dicovi solo che questa cosa importa, et che quelle persone che lo hanno in odio qui, et che lui ha offeso, doventeranno inimiche vostre, como sono e Salviati, Soderini et tucti gli homini che vogliono vivere bene: et però fate che monsignore Rev.mo ce prevegha se havete paura non riescha a voi.'.

Fortunati rilesse il tutto, domandandosi se non fosse stato troppo categorico, nel puntare il dito a quel modo contro Bossi, però lui per primo si era reso conto che quel nome a Firenze non piaceva e che, per quanto umanamente capisse il desiderio di Caterina di aiutare chi le era stato vicino, sarebbe stato meglio per tutti se Frate Lauro fosse rimasto a Roma o se ne fosse almeno andato altrove e non proprio in Toscana.

Il piovano appose la firma e la data e poi rilesse tutto un paio di volte. In cuor suo, sperava che i due giovani Riario avessero ricevuto anche le due missive precedenti e fossero già sulla via del ritorno, tuttavia pregò con tutto se stesso affinché anche quella lettera arrivasse tra le loro mani il prima possibile.

Affidò il messaggio allo stalliere che aveva scelto e gli raccomandò di non tornare finché non avesse trovato i due Riario. Dopodiché, convinto che fosse buona cosa avvisare anche gli altri figli della Tigre delle novità riguardanti frate Lauro e la madre, si recò a palazzo Scali.

Non appena fu sulla porta, mentre ancora stava ringraziando il servo che gli aveva aperto, l'uomo si vide correre incontro il piccolo Giovannino. Con un sorriso, lasciò che il bambino gli si aggrappasse al vestone scuro e aspettò che arrivasse qualcuno a salutarlo e a riprendere il pargolo.

“Perdonatelo.” disse piano Bianca, che fu la prima a palesarsi: “Gli piacete...”

Il bambino, un piccolo turbine di poco più di tre anni, si staccò con riluttanza dall'abito del piovano, ma quando capì che l'alternativa era essere preso in braccio dalla sorella, si lasciò convincere.

“Vi trovo bene.” disse Francesco, guardando gli occhi blu della Riario e rendendosi conto di quanto quella ragazza assomigliasse alla madre, benché avesse dei tratti più dolci: “Credo che sia stato un bene, per voi, uscire da quel convento.”

La diciannovenne fece un sorriso un po' imbarazzato e poi commentò: “Alle Murate mi sono trovata bene. Suor Elena è sempre stata molto gentile, con me.”

“Lo immagino.” annuì Fortunati: “Solo credo che un posto del genere non sia adatto a una giovane donna piena di vita come voi.”

Bianca teneva lo sguardo basso, ma da come le sue guance prendevano un po' di colore, il fiorentino capì di aver centrato il punto più di quanto non volesse.

“I vostri parenti vi hanno fatto buona scorta dal convento a qui. All'inizio temevo che non fosse una buona idea che fossero loro a fare uscire dalle Murate voi e vostro fratello, ma alla fine è stata la scelta giusta...” disse il piovano, quasi più per non far morire la conversazione che per reale bisogno di esprimere la sua soddisfazione.

“Infatti, è così.” annuì piano la Riario, pensando a come fosse stato strano, per lei, lasciare quella strana bolla che era il convento in piena notte, accompagnata da Scipione e Paolo Riario, due giovani uomini che erano per metà suoi fratelli, ma che per lei erano poco più che due sconosciuti.

L'uomo abbozzò un sorriso e poi, non avendo davvero più idea di cos'altro dire, restò semplicemente in silenzio.

Nessuno dei due, in realtà, sapeva come continuare quella conversazione, perciò entrambi tirarono un sospiro di sollievo, quando arrivò Alessandra e invitò il piovano e la ragazza a seguirla nella sala, in modo da poter parlare più comodamente. In un primo momento, Francesco si rivolse sia alla padrona di casa, sia a Bianca, Galeazzo, Sforzino e Bernardino. Giovannino, mentre i grandi parlavano, se ne stava sul tappeto in mezzo a loro, a tratti guardandoli perplesso, a tratti distraendosi con il suo giocattolo di legno a forma di cavaliere.

Solo dopo aver ragguagliato tutti sulle ultime novità che gli erano arrivate da Roma, Francesco chiese alla Scali di poterle parlare un attimo in privato.

“Anche io ho bisogno di dirvi una cosa...” accettò subito lei.

I due aspettarono che i figli della Tigre lasciassero la stanza e poi, avvicinandosi appena l'uno all'altra, si presero un momento prima di cominciare.

“Bianca mi sembra un po'...” cominciò a dire il piovano.

“Madonna Bianca sta facendo un po' fatica ad abituarsi, ma è normale.” lo anticipò la Scali: “Ma credo che recupererà in fretta.”

Quell'ultimo inciso era stato detto con un tono che fece accigliare Fortunati. La donna non voleva parlarne, ma la sera prima aveva visto la Riario trattenersi, a suo modo di vedere, più del dovuto, con uno dei servi di casa, prima di andare a dormire. Forse era stata solo suggestione, o forse era colpa delle voci che accompagnavano il nome della madre della ragazza, fatto restava che Alessandra aveva visto nel suo atteggiamento una civetteria che poteva preludere solo ed esclusivamente a qualche guaio.

“Non è di questo che voglio parlarvi.” tagliò corto la padrona di casa, dimenticandosi perfino che anche Fortunati aveva detto di doverle comunicare qualcosa di importante.

“Ditemi, dunque.” la invogliò lui, in attesa.

“Non appena si potrà...” cominciò a dire lei, per poi schiarirsi la voce e riprendere: “Non appena la loro madre... Ecco, non appena sarà sicuro farlo, vorrei che andassero tutti a vivere altrove.”

Per Francesco fu un fulmine a ciel sereno. Aveva dato per scontato l'appoggio incondizionato di Alessandra, e forse aveva sbagliato a farlo. Umanamente la capiva: era rimasta vedova da poco, e, per una certa logica, la era rimasta a causa di Caterina Sforza, si era sobbarcata i figli più della suddetta e non aveva mai chiesto nulla, né si era mai lamentata di alcunché. A conti fatti, aveva fatto già anche troppo.

“Certo.” disse quindi lui, sperando di non tradire la propria delusione: “Avete fatto molto, per tutti noi, ve ne saremo grati in eterno.”

“Non prendete la mia richiesta nel modo sbagliato.” ci tenne a dire Alessandra: “Mio marito ha dato la vita, per questa causa, e io ho fatto tutto quello che potevo, e non me ne pento.”

“Certo, io...” provò a inserirsi il piovano, ma la donna lo anticipò, sollevando una mano.

“Non voglio nemmeno nulla in cambio.” precisò: “Ho fatto quello che ritenevo giusto, e ne sono contenta così. Solo... Ho... Ho bisogno di restare sola, adesso.”

Francesco strinse i denti e poi annuì: “Lo capisco.”

“Sto maturando l'idea di rifugiarmi in un convento e fare vita contemplativa.” rincarò la Scali, rabbuiandosi: “Questa vita, ormai, non ha più alcuna attrattiva per me. Ho fatto quello che dovevo, rispettando anche il sacrificio di Michele, ma adesso sono stanca. Voglio avere del tempo per pensare e pregare e...”

“Dio è sicuramente soddisfatto e felice del vostro operato e sono certo che vi concederà presto la pace che cercate.” la incoraggiò Fortunati, posandole una mano sulla spalla e stringendo appena, come a volerle dare sostegno anche in quel modo: “Non appena Madonna Sforza sarà qui a Firenze, faremo in modo di trovare a tutti un'altra sistemazione.”

“Sapevo che mi avreste compresa.” sospirò Alessandra: “Per il momento, comunque, finché sarà necessario, potrete contare su di me.”

L'uomo la ringraziò di nuovo e poi, quando la Scali gli chiese di cosa dovesse parlarle, egli si rese conto che non era più il caso di approfondire il discorso che aveva in mente all'inizio, che riguardava perlopiù l'arrivo di Caterina. Adesso la cosa che doveva premergli di più, oltre a tutto ciò che concerneva le manovre per far arrivare la Tigre, era pensare a una sistemazione alternativa per lei e per tutti i suoi figli.

Sperando, nel frattempo, che Ottaviano e Cesare ritrovassero la strada per Firenze...

 

“A quanto pare siete stata convincente.” disse a voce molto bassa Yves d'Alégre: “La notizia è arrivata fino al figlio del papa.”

Caterina, seduta composta alla sedia della scrivania, guardava il francese quasi senza batter ciglio, in attesa di conoscere il suo destino. Sapeva che ormai la sua fuga da Roma doveva essere prossima, perché il condottiero le aveva dato disposizioni, negli ultimi giorni, che non le lasciavano molti dubbi, e tuttavia il suo cuore non smetteva di accelerare, man mano che l'uomo andava avanti nel suo discorso.

“E avete sparso bene la voce, nel che... Be', sembra che chi ha inteso da voi la cosa, non si sia accorto che la vostra era una recita.” continuò Yves.

“Ho fatto solo quello che mi avete detto di fare.” cercò di velocizzare la questione la Tigre: “Mi avete detto di lasciare intendere a certi che sono venuti qui a incontrarmi che sarei presto partita per Firenze e che l'avrei fatto via terra, seguendo la via Flaminia. Né più né meno.”

Il francese si morse un istante il labbro, annuendo e poi le rivelò: “Il Valentino, anche se è quasi a Napoli, ha inteso bene queste chiacchiere e ha dato ordine a dei suoi uomini romagnoli di aspettarvi lungo la via per tagliarvi la gola.”

La Leonessa inspirò con forza, stringendosi le mani l'una nell'altra: “Dei romagnoli...”

“Mi pare ovvio, il motivo.” commentò l'Alégre.

Anche a Caterina il motivo appariva ovvio. Cesare Borja aveva pensato che, in quel modo, se i sicari fossero stati trovati e fatti prigionieri dai francesi, lui avrebbe potuto facilmente lavarsene le mani, dicendo che si trattava, appunto, di romagnoli, vecchi sudditi della tirannica Sforza, che, sapendola libera, non avevano perso tempo e si erano appostati per ucciderla e vendicarsi di tanti anni di soprusi e crudeltà.

“Anzi – sbuffò la donna, continuando a voce alta il suo silenzioso ragionamento – così il figlio del papa potrebbe addirittura dire che se mi avesse tenuta al castello come voleva fare, sarei stata al sicuro...”

“Precisamente.” confermò Yves, spostando il peso da un piede all'altro.

“E allora, adesso come facciamo?” chiese la Leonessa, impaziente.

“Stanotte, quando sentirete le campane di Roma suonare la mezza, due miei uomini verranno qui, passando dall'entrata della servitù – iniziò a spiegare Yves – e vi daranno dei vestiti per cambiarvi.”

Caterina ascoltava con l'animo in subbuglio. Capiva, dal tono dell'uomo, che quella partenza, ossia una vera e propria fuga, era anche per lui una grossa incognita. Se fossero stati scoperti, sarebbe venuta meno la presunta buonafede dei francesi nei confronti del papa, e a quel punto Alessandro VI avrebbe potuto rigirare il tutto a proprio favore, non solo obbligandoli a riportarla magari addirittura a Castel Sant'Angelo, ma anche esercitando un maggior peso nell'organizzazione dell'esercito nel napoletano.

“Sul Tevere vi aspetteranno degli altri uomini del mio esercito, tutta gente fidata e sveglia.” fece presente il condottiero: “Andrete via fiume fino a Ostia. Lì vi aspetta una piccola nave che salperà non appena metterete piede sul ponte. Nel giro di poco sarete a Livorno.”

“E da lì? Passerò da Pisa?” si informò Caterina.

“Questo è il piano.” confermò Yves: “E si farà in modo che, appena fuori Firenze, ci sia qualcuno ad attendervi.”

Il pensiero della donna corse subito ai suoi figli, ad alcuni di loro in particolare. Era inverosimile che fuori dai confini cittadini avrebbe trovato Giovannino, quello lo sapeva, e lo stesso valeva per Bianca, ma era abbastanza sicura che almeno Galeazzo e Bernardino sarebbero stati lì, pronti a scortarla fino in città.

La sola idea che presto li avrebbe davvero rivisti, che avrebbe potuto sentire di nuovo le loro voci, abbracciarli, vedere quanto fossero cresciuti, la fece scoppiare in lacrime.

Il francese, non capendo a fondo quella reazione, che non si aspettava, specie da una donna come lei, si schiarì la voce e provò a chiedere, tirando a indovinare: “Vi spaventa il viaggio per mare? So che può spaventare un viaggio in nave, specie adesso che i Turchi...”

“No, no...” soffiò lei, cercando di tornare padrona di sé: “Anche se io... Anche se non conosco il mare – spiegò – non ho paura.”

“I rischi, a prendere la vela, ci sono, ma...” insistette il condottiero, convinto davvero che il problema fosse quello.

“Meglio rompere in una fortuna in mare – lo zittì la Tigre, ritrovando la fermezza dello sguardo, anche se non della voce – meglio cadere in mano ai pirati o ai Turchi, che rischiare d'incontrare gli scherani dei Borja!”

“E sia, allora.” sorrise Yves, rinfrancato da quelle parole: “Frate Lauro aspetterà lungo il fiume, così non rischieremo di farlo vedere a qualcuno mentre esce da questo palazzo.”

“Per Bartolomeo da Cremona, invece, non c'è speranza, vero?” domandò la Leonessa, ben conoscendo già la risposta.

Più volte aveva provato a pungolare il francese sulle sorti di Baccino. L'uomo aveva raccolto, con cautela, qualche informazione, ma sembrava che il giovane fosse ancora prigioniero, anche se non in pericolo di vita.

“Come vi ho già detto – sospirò l'Alégre, passandosi una mano tra i capelli, un po' in difficoltà – è meglio che prima andiate a Firenze. Quando sarete al sicuro, sarà più facile fare pressioni per farlo liberare.”

“Avete ragione.” deglutì lei: “Non ci va la fretta, nelle cose delicate.”

Il condottiero le dedicò un cenno d'assenso e poi, allargando un po' le braccia, concluse: “Non ho altro da dirvi. State attenta e nulla più.”

“Non potrò mai ringraziarvi abbastanza per quello che state facendo per me.” disse la donna, alzandosi, in segno di rispetto.

“Vedetelo come un risarcimento per il pessimo comportamento che abbiamo tenuto nei vostri confronti alla fine della guerra.” si congedò l'uomo: “Siete il soldato più valoroso contro cui abbia mai combattuto: questo è l'onore delle armi che non ho potuto tributarvi a tempo debito.”

La Leonessa chinò il capo, senza dire nulla. Lasciò che il condottiero uscisse senza che tra loro ci fossero altri scambi di battute.

Rimasta sola, diede uno sguardo alla stanza in cui si trovava e si sentì stranamente spaventata, al pensiero che di lì a poche ore avrebbe lasciato quel palazzo per sempre. Ne era certa: a Roma non sarebbe tornata mai più.

Andò alla finestra, scorgendo fuori ancora una discreta folla di gente che ancora chiedeva di poterla incontrare. Aveva in programma di fare come nulla fosse: fino a sera avrebbe accettato visite, come faceva ogni giorno.

Per tutto il pomeriggio, quindi, vide gente e chiacchierò del nulla, ma sul suo volto tutti notarono un sorriso molto particolare, appena accennato, placido, ma in un certo senso ironico. Nessuno, però, sapeva a cosa fosse dovuto.

'Dopo diciassette anni da quando sono stata esiliata da Roma – pensava di continuo, ricordando l'epilogo della sua impresa, dopo la morte di Sisto IV, quando il Sacro Collegio era stato in mano sua, sotto la minaccia dei cannoni di Castel Sant'Angelo – adesso è il papa che non vuole lasciarmi andar via. Ma come dopo l'esilio ho trovato il modo di tornare, così adesso ho trovato il modo di partire.'.

Quando calò il buio e finirono i colloqui del giorno, la donna cenò in fretta, mangiando poco, per paura di soffrire di stomaco una volta in viaggio, e poi si ritirò in stanza. Mentre aspettava di sentire il suono delle campane che avrebbe sancito il momento della sua partenza, la donna si stese un momento sul suo lettuccio da campo e, guardando il soffitto, cominciò a pregare, rammaricandosi solo di non poter portare con sé anche Baccino, uno degli uomini che più le era stato fedele e che più avrebbe voluto al suo fianco in un momento tanto difficile.

 

   
 
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