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Autore: Clodie Swan    14/02/2021    4 recensioni
“Noi non siamo i nostri genitori. Non siamo le nostre famiglie.” le disse con un tono dolce guardandola intensamente. Le sue parole la calmarono subito e annuì con un piccolo sospiro.
“E poi...” cominciò Jughead lasciando subito la frase in sospeso.
Non era da lui balbettare o restare a corto di parole. Betty ne fu sorpresa e lo guardò interrogativa.
Jughead esitò trattenendo il fiato per un istante.
“Cosa?” chiese lei incoraggiandolo con lo sguardo curioso.
Negli occhi di lui vide un lampo di risolutezza e sentì le sue mani sul viso. Un attimo dopo la stava baciando.
Betty e Jughead: due diverse solitudini che si sono trovate. Cosa hanno provato i due ragazzi prima di quel bacio inaspettato?
Scritta in collaborazione con Daffodil.
Genere: Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Capitolo 8

Always


 

POV Betty di Clodie Swan

Thornhill, la tenuta dei Blossom poteva essere considerata, citando le parole di Jughead, la casa degli orrori della città, con tanto di cimitero privato nell’immenso giardino. Ma era anche la casa della famiglia più ricca di Riverdale che avrebbe invitato l'élite della società ed avrebbe preteso una cerimonia sontuosa. Di sicuro si sarebbero vestiti tutti in maniera impeccabile. Betty tirò fuori un abito nero dal taglio semplice e vi indossò sopra un giacca corta elegante. Veronica forse le avrebbe suggerito qualcosa di più sofisticato, ma dal momento che aveva passato la notte da Cheryl non era lì per consigliarla. E poi se voleva andare in giro per la villa ad indagare avrebbe fatto meglio a indossare qualcosa di poco vistoso. A tal proposito, disfò anche la solita coda di cavallo e tirò all’indietro i capelli trattenendoli sulla nuca con un fermaglio e lasciandoli sciolti sulle spalle.

Dovresti portarli più spesso sciolti” le diceva a volte Polly “Sono bellissimi.” Betty era convinta di non essere bella come sua sorella o Veronica. Polly aveva dei capelli lunghissimi e biondi, le piaceva spazzolarglieli la sera mentre chiacchieravano. Presa dalla nostalgia per sua sorella, non si accorse che qualcuno era entrato nella stanza.

“Pronta ad entrare nella tana del diavolo?” sentì chiedere all’improvviso dalla voce di Jughead.

Betty si girò e restò a bocca aperta. Per un attimo non lo riconobbe. Jughead indossava un completo scuro con una camicia bianca e una cravatta nera. Un abito sobrio che gli stava a pennello e esaltava la figura alta e snella del ragazzo. Non era statuario e muscoloso come Archie, Kevin o Trevor, ma aveva comunque un bel fisico. Era incredibilmente carino quel giorno. Betty lo guardò come un sorriso compiaciuto e di ammirazione. Lui si infilò le mani in tasca, stringendosi nelle spalle. “E´il meglio che ho potuto fare.” disse con semplicità.

Betty sorrise, sapendo quanto Jughead detestasse l’abbigliamento formale. Eppure ci guadagnava ad indossarlo. Mentre scendevano le scale si chiesa come mai Jughead non avesse la ragazza. Era carino. Era simpatico e sensibile. Aveva le sue idee anticonformiste, ma era intelligente, amava i libri e i film, era molto più maturo dei suoi coetanei. Forse non aveva trovato ancora quella giusta.

Quando arrivarono alla tenuta dei Blossom tutti, avevano già cominciato a prendere posto. Betty e Jughead salutarono i loro compagni di scuola e si sedettero vicini, nell’ultima fila. Archie fece dono a Penelope della maglia numero nove dei Riverdale Bulldog, che era appartenuta a Jason e poi tornò a sedersi tra Veronica e Valerie. Betty lo salutò brevemente, provando una certa soddisfazione nel trovarsi seduta anche lei accanto a qualcun altro che sembrava apprezzare la sua compagnia. Senza Jughead, probabilmente, non avrebbe trovato il coraggio di avventurarsi in cerca di indizi nella stanza di un ragazzo morto.

Il momento giusto per sgattaiolare di sopra si presentò quando, dopo l’elogio strappalacrime di Cheryl, la signora Blossom annunciò che era pronto un rinfresco e gli invitati cominciarono a sparpagliarsi per la casa. “Adesso.” bisbigliò Jughead chinandosi verso il suo orecchio. Betty trattenne il respiro e sgusciò via furtivamente insieme a lui, su per le scale.

Trovare la camera di Jason richiese del tempo, visto che nessuno dei due era mai stato in quella casa, ma una volta individuato il corridoio riservato alle stanze private dei Blossom, i due giovani si divisero sui due lati e aprirono ogni porta fino a quando Jughead non notò una camera piena di accessori sportivi e lo stemma della squadra di football appeso alla parete.

“Vieni Betty, deve essere questa.”le disse facendole un cenno con la mano.

Mentre si muovevano nell’ampia camera, chiedendosi dove cominciare a cercare, una figura emerse dall’ombra facendoli sussultare per la paura. Si trattava una donna anziana seduta sulla sedia a rotelle, dallo sguardo vitreo ed i lineamenti affilati: era a dir poco inquietante. Betty si rifugiò istintivamente contro il petto di Jughead che le posò una mano sulla spalla, in un gesto di protezione. La vecchietta avanzò verso di lei cercando di metterla a fuoco. Aveva i capelli bianchi con l’eccezione di una ciocca di colore rosso: doveva essere nonna Rose Blossom. Betty impaurita schiacciò ancora di più la schiena contro di Jughead. Se non ci fosse stato lui, sarebbe potuta svenire. Dov’era il suo sangue freddo da investigatrice?

“Polly!” gracchiò amabilmente l’anziana signora. “Che piacere rivederti!”

Nonna Rose non sembrava infastidita, né sorpresa dalla loro presenza in camera del nipote e invitò Betty ad avvicinarsi. Jughead con delicatezza la spinse in avanti per incoraggiarla. Betty si sedette sul letto di Jason per stare all’altezza della signora e cercò di reggere il gioco. La rivelazione di nonna Rose la lasciò senza parole: Polly e Jason si erano fidanzati la scorsa estate e volevano sposarsi. La nonnina aveva dato loro la sua benedizione regalando alla ragazza un anello di famiglia, cosa di cui i Blossom erano stati tenuti all’oscuro. Incapace di ascoltare altro Betty si alzò e corse via, sconvolta, seguita da Jughead.


 


POV JUGHEAD di Daffodil


La busta nera in cui c’era il cartoncino con i dettagli della cerimonia funebre era aperta su una scrivania anni 20 che aveva riesumato da un angolo del sotterraneo. La lampada Tiffany emanava una luce calda e delicata. Si sentiva un animale in gabbia. Non poteva presentarsi a casa Blossom in jeans e camicia a quadri, non se voleva passare inosservato e se per una volta voleva far parte del gruppo.

“Jughead?” la voce roca e profonda di Pop lo distrasse dalle meditazioni. Scattò in piedi dalla poltrona e si avvicinò alle scale. “Credo che tu abbia bisogno di un aiutino…” il vecchio signore teneva in mano un completo nero, con camicia bianca e cravatta, forse non proprio l’ultimo modello, ma dalla fattura impeccabile.
“Come...” era rimasto senza parole. Non riusciva nemmeno a pensare.
“Suppongo che tu debba accompagnare una certa signorina al funerale e non mi sembrava il caso di andarci impreparato.” Il sorriso che accentuava le rughe sul volto paffuto gli scaldarono il cuore.
“Hanno invitato anche altri compagni di scuola…” Era tremendamente in imbarazzo.
“Non dubito… ma lei vuole che sia tu ad essere al suo fianco in questo momento.” Gli occhi buoni dell’uomo dissero più delle parole.
“Non so cosa dire…” Rispose Jughead ed era sincero. Niente sarcasmo. Guardò l’uomo con un motto di affetto e gratitudine, nessuno era mai stato così attento con lui.
“Dai, preparati che è tardi!” Lo sollecitò Pop prima di riprendere la scala.


Nel piccolo bagno c’era un vecchio specchio, sufficiente per riflettere la sua immagine. Le converse nere forse non erano il massimo ma sempre meglio degli anfibi ed erano sicuramente più silenziose. In quel completo che profumava di fiori di campo e torta di mele fatta in casa si sentì stranamente più sicuro di sé, di avere una possibilità con la perfetta ragazza della porta accanto.
Nelle sue vene scorreva l'adrenalina.

Nella tasca dei pantaloni il suo cellulare vibrò brevemente. “Ho lasciato la porta della cucina aperta, entra pure. I miei sono già a Thornhill.” Un sorriso spontaneo si allargò sul volto. Lo stava aspettando. Salì gli scalini due a due.

La casa con la porta cremisi era avvolta nel silenzio quasi totale… si sentiva la voce di Chantal Kreviazuk che faceva le sue evoluzioni vocali sul ritornello di Leaving on a Jet Plane.

Conosceva quella canzone e anche il film, anche se era un blockbuster più vecchio di lui. Lo avevano guardato insieme ad Archie una piovosa domenica pomeriggio e lui si era trovato a passare kleenex a una disperata Betty quando il protagonista, Bruce Willis, si era sacrificato restando sull’asteroide.

Seguì la musica e rimase per un attimo dietro la porta socchiusa a spiarla attraverso il riflesso nello specchio. Indossava un vestitino nero, semplice, che le arrivava sopra il ginocchio, i collant erano leggeri e dietro c’era una sottile riga nera, come quelle che portavano negli Anni Quaranta le donne sofisticate. Gli era difficile staccare gli occhi, le accarezzò le gambe fino all’orlo del vestito e poi lasciò che l’immaginazione coprisse quello che non poteva vedere. Aveva lasciato i capelli sciolti e si era truccata un po’ più del solito. Lentamente con la mano spinse la porta ed entrò. Incrociarono subito lo sguardo attraverso lo specchio e Betty si girò di scatto.

Non poté evitare al suo corpo di reagire mentre lei lo squadrò da testa ai piedi e per evitare una figuraccia infilò le mani nelle tasche.
Gli piaceva quello che vedeva nelle iridi verdi ma per stemperare l’atmosfera si lasciò sfuggire “E´ il meglio che sono riuscito a fare”... sentì il pomo d'Adamo grattare in gola, aveva la bocca secca e il desiderio di affondare le mani in quelle onde bionde era più bruciante che mai.

Una volta in strada le aprì lo sportello del vecchio e malandato pick up che era andato a recuperare a casa, tanto suo padre difficilmente lo guidava. Il viaggio fu silenzioso, in sottofondo le dolcissime parole di Bullet di Ann Marr trasmesse dal suo telefono.

I cancelli della casa degli orrori si stagliavano davanti a loro. Si guardarono per un attimo, lui le prese la mano stringendola nella sua ed entrarono. Presero posto in fondo, dietro agli altri ragazzi, Betty si guardava intorno, la fronte segnata da un’espressione concentrata e forse anche preoccupata, l’aveva vista seguire con gli occhi il gesto di Archie, e non era riuscito a trattenersi da prenderle ancora la mano, voleva rassicurarla.

“Adesso.” le bisbigliò chinandosi verso il suo orecchio. Betty trattenne il respiro e sgusciò via furtivamente insieme a lui, su per le scale.

Trovare la camera di Jason richiese del tempo, visto che nessuno dei due era mai stato in quella casa, ma una volta individuato il corridoio riservato alle stanze private dei Blossom, si divisero sui due lati e aprirono ogni porta fino a quando lui non notò una camera piena di accessori sportivi e lo stemma della squadra di football appeso alla parete.

“Vieni Betty, deve essere questa.” le disse facendole un cenno con la mano.

Mentre si muovevano nell’ampia camera, chiedendosi dove cominciare a cercare, una figura emerse dall’ombra facendoli sussultare per la paura. Betty si rifugiò istintivamente contro di lui, che le posò la mano sulla spalla e una sul fianco in un gesto di protezione. Il profumo dei suoi capelli gli invase le narici, stordendolo un momento.

La vecchietta avanzò sulla sedia rotelle esigendo fin da subito l’attenzione di Betty che si trovò costretta a fingersi Polly. Prima di avvicinarsi, la ragazza si schiacciò ancora di più con la schiena contro il suo petto. In un altro momento sarebbe stato tutto molto eccitante, sentire il suo sedere in un punto particolare, i capelli che gli solleticavano il naso, il collo a portata della sua bocca… chiuse gli occhi un attimo per scacciare quei pensieri e cercò di rassicurarla stringendo la sua mano sulla spalla.

La matriarca dei Blossom aveva un modo un po’ particolare di esprimersi, quasi per indovinelli e metafore, ma le rivelazioni furono piuttosto pesanti, tanto che Betty corse fuori dalla stanza. La seguì a ruota giù per la grande scala di legno e riuscì ad afferrarla solo una volta che furono in giardino.
Il viso era una maschera di sofferenza, le lacrime si rincorrevano veloci lungo le guance pallide e dalle labbra usciva un respiro affannato e sofferto.

Non l’aveva mai vista così disperata. Nemmeno quella volta al campo di football quando si era rivoltata contro Archie poco dopo il ballo di inizio anno. Non sapeva bene cosa fare: non era sicuramente il momento per il suo sarcasmo, né per un’analisi oggettiva di quanto scoperto.
Se la tirò addosso e la tenne così stretta, che a un certo punto ebbe paura di farle male.

Sul viaggio di ritorno la scassata radio del pick up, l’abitacolo fu riempito dalle inconfondibili note di Always dei Bon Jovi…
And I will love you, baby – Always
And I'll be there forever and a day – Always
I'll be there till the stars don't shine
Till the heavens burst and
The words don't rhyme
And I know when I die, you'll be on my mind
And I'll love you – Always


La musica ultimamente non gli era molto d’aiuto, accostò al marciapiede davanti alla villetta e rimase lì con lei in silenzio.
“Jug… forse è il caso che parli con mio padre. Le storie non coincidono. Posso chiamarti più tardi?”. Teneva gli occhi bassi sulle sue mani strette in grembo. Era talmente tesa che le nocche erano diventate bianche.
Voleva toccarla ancora ma non gli sembrò opportuno. “Betty puoi chiamarmi tutte le volte che vuoi e quando vuoi.” Le rivolse un sorriso gentile.
Le aprì, la scortò fino alla porta e accettò l’abbraccio e il bacio sulla guancia da parte di lei.

Risalito in macchina aspettò un po’ prima di prendere la direzione del Pop’s.
Il locale era quasi vuoto, Pop Tate era dietro il bancone e aveva le dita affondate nei capelli. “Ciao…” lo salutò ma capì subito che c’era qualcosa che non andava.
“Juggie…” non lo chiamava mai così. “Mi dispiace veramente ma non posso più ospitarti.” Capì senza difficoltà che quelle parole gli pesavano parecchio e capì anche perché l’uomo le aveva pronunciate senza guardarlo in volto.

“E´ venuto di persona o ha mandato uno dei suoi uomini?” Aveva già imboccato la strada per il sotterraneo.
“E´venuto lui…” La voce era strozzata e si percepiva tutto il dispiacere.
“Tranquillo Pop, sono fuori in cinque minuti.” E ora dove cazzo andava?

  
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