I
miei venti metri quadrati
Tredicesimo
Capitolo
Nudisti
per caso
I
miei tacchi facevano il solito rumore ritmico , mentre salivo le scale ,
imprecai, perché cavolo c’era sempre l’ascensore rotto?
Arrivai
al sesto piano, e mi chinai a sollevare un poco lo zerbino con su scritto a
lettere sbiadite “Welcome”.
Come sempre sotto vi trovai le chiavi. In famiglia erano soliti lasciarle lì, sapevo anche che il
loro vicino le teneva dentro il vaso dei gerani , mentre quelli
dell’interno
A
essere abituali ospiti si imparavano un sacco di cose.
Infilai
la chiave nella toppa, la girai piano in modo da limitare il rumore e la spinsi
sollevandola un poco, perché non cigolasse. Quella maledetta porta era
un catorcio, un ladro avrebbe potuto aprirla anche senza sapere dove erano le
chiavi.
Avanzai
nella stanza vuota. La casa di Joyce assomigliava alla mia, ma i muri
dell’atrio non c’erano, e il salotto e la cucina erano uniti in
un’unica sala. Piegai la testa da una parte, osservando il corridoio che
finiva in bagno, la cui porta era socchiusa e potevo intravedere il telo
plastico della doccia. C’erano delle paperelle gialle. Feci due passi
facendo appositamente rumore coi tacchi e aspettai, non ci volle molto
perché una porta sulla sinistra si aprisse, e con mia grande sorpresa ne
uscì una testa blu, che decisamente non apparteneva a Joyce.
La
ragazza , magra, bassa e decisamente in mutande mi salutò intimorita,
mentre Joyce la seguì a ruota chiudendosi dietro la porta.
“
Oh, la megera blu è venuta a trovarmi” esclamò per nulla
imbarazzato per il fatto che avessi interrotto qualche cosa.
“Ah,
vedo che hai delle storie con le mie oche blu!” sibilai socchiudendo gli
occhi, e forse nel tono misi un po’ di cattiveria.
“Beh,
quella mi pare una sola, e tra l’altro si chiama Sofia”
continuò tranquillo avanzando verso di me, mentre la mia oca blu
recuperava i vestiti che aveva lasciato sulla sedia della cucina.
“Cosa
vuoi che me ne freghi di come si chiama” sbottai con un sorriso, come se
lei non fosse lì. Joyce fece una smorfia, era sempre più gentile
di me con le persone.
“Rachele”
pigolò la mia oca blu alle mie spalle “sabato sera andiamo al
Luxury e mi chiedevo se
volessi…” non la lasciai finire e mi voltai un attimo per dirle
“Non se ne parla, non esco con voi” commentai, tornando subito a
guardare degli occhi Joyce che mi ricambiava con un ghigno mefistofelico
stampato in faccia.
“Ho
bisogno di un decespugliatore” annunciai. Joyce aggrottò le
sopracciglia. “Che diamine ti serve un decespugliatore?”
sbottò lui ancora in mutande.
“Non
mi pare di averti chiesto cosa fai con le mie oche” lo rimbeccai io.
Joyce sbuffò, e io sorrisi.
Un
quarto d’ora dopo avevo ottenuto il decespugliatore.
Le
pettegole della scuola già alla prima ora avevano intercettato la nuova
coppia. Chi alla festa in maschera non si era accorto di nulla, di sicuro era
stato informato dalle pettegole.
Le
pettegole erano ormai un’istituzione. Davano i voti al vestiario delle
ragazze, e di sicuro la prediletta era Nikka, che aveva spodestato Rachele dopo
che quest’ultima si era tinta i capelli, spettegolavano per i corridoi,
ed erano a conoscenza di pettegolezzi di ogni genere.
In
realtà, per capire che Nikka e Alberto avevano una storia non
c’era bisogno di essere dei pettegoli provetti, infatti chiunque aveva
potuto vederli mentre si sbaciucchiavano appassionatamente sulla scalinata
della scuola.
Mei
era arrivato presto e si era infilato subito in classe, perciò non
assistette all’arrivo della ragazza e del suo pseudo principe azzurro.
Almeno quel tipo non era Pallotti. Aveva un cervello sotto il cappello da
mafioso e i capelli ricci. Sospirò senza pensarci tanto e si mise a
ripassare la lezione per non trovarsi impreparato a un’eventuale compito
a sorpresa. Non che ce ne fossero mai stati, ma Mei era un tipo previdente.
Nel
mentre Pallotti si aggirava per i corridoi alla ricerca dell’azzurra
Rachele. Come aveva potuto farsela scappare alla festa? Non era Nikka, ma era
davvero carina, e già che aveva perso la regina fashion della scuola non
poteva farsi soffiare sotto il naso anche l’enigmatica ragazza blu.
Ovviamente i suoi pensieri erano molto più semplici, probabilmente
Pallotti non conosceva neanche il significato della parola enigmatico.
La
trovò che tirava tranquillamente calci al distributore delle bibite
perché le aveva rubato venti centesimi.
“Rachele!”
esclamò concitato il biondo correndole incontro, Rachele alzò lo
sguardo dal suo avversario meccanico e gli sorrise.
“Senti,
mi spiace davvero tanto per l’altra sera, ma un idiota mi ha rubato i
vestiti e la limousine che avevo noleggiato!” disse sperando che la
ragazza credette alle sue scuse, che dette così sembravano davvero
assurde.
“Tranquillo…
già lo so…” disse in tono dolce , poi aggiunse sibillina
“sono stata io… e comunque i vestiti te li ho
bruciati…”. Sorrise ancora e girò i tacchi, e la macchinetta
delle bibite sputò venti centesimi, che finirono ai piedi di un Pallotti
inebetito , mentre guardava Rachele andarsene via per il corridoio.
La
classe di Mei si riempì in fretta e prima che la professoressa della
prima ora arrivasse le sua compagne trovarono il tempo per una profusione di
chiacchiere davvero impressionante.
Isabella
Gigli aveva comprato un nuovo rossetto Chanel e l’aveva pagato una
fortuna. Aveva risparmiato per tre mesi la sua paghetta senza andare in giro
per discoteche e pub il sabato sera per poterselo comprare. Le sue amiche erano
decisamente entusiaste e si esibivano in plateali e teatrali complimenti. Mei
cercò di non farci caso e continuò a concentrarsi sugli esercizi
sui logaritmi. I logaritmi erano decisamente più simpatici di Isabella
Gigli e delle sue amiche, che ovviamente non erano le uniche a fare rumore,
infatti dall’altra parte della classe c’era chi diceva che il rossetto
le faceva delle labbra orrende, qualcuno si azzardò a dire che
sembravano rifatte e se si fosse
messa due gommoni in faccia nessuno avrebbe notato la differenza.
Mei
cercò ancora una volta di isolarsi per non sentire quelle chiacchiere
inutili, ma la sua attenzione fu attirata da un nome pronunciato da una delle
pettegole “Nikka”.
A
quel punto era ufficiale, i logaritmi erano passati in secondo piano.
“…
si è messa con quel tipo… tu che ne pensi? Ha un cappello da
mafioso, e ha un’aria così trasandata!” aveva detto una
ragazza incredibilmente pallida, la cui bianchezza nivea era accentuata dal
capelli corvini e lisci che le incorniciavano il viso.
“Ma
è un look particolare! Ne abbiamo discusso anche la settimana
scorsa… Alberto tiene molto al suo aspetto, non uscirebbe mai vestito a
caso, è un abbigliamento perfettamente studiato! E a me non dispiace
… Nikka a fatto veramente un buon colpo…” commentò una
ragazza coi capelli più tendenti all’arancione che al rosso e
degli occhiali molto spessi.
“Hai
sentito? Vuole organizzare una festa per il suo compleanno nella villa di
campagna di lui… pare che i Lombardi stiano economicamente bene…
secondo te Nikka l’ha adocchiato per questo? non mi stupirei
conoscendola…” sospirò la mora avvicinando il viso a quello
dell’amica, per rendere più privata la loro conversazione.
“Credo
che glil’abbia chiesto lui…
insomma si sa che Nikka è un animale da party, era sicuramente la
persona più indicata per organizzargliela… di sicuro saprà
cosa fare… credo che dovremmo recuperare un invito…le feste in
villa sono sempre le più divertenti… ti ricordi quando hanno
beccato quel Joyce Cumoli in atteggiamenti ambigui con una suora? O quando
Pallotti ha spaccato il naso a un tipo perché aveva finito lo spumante?
E
Non
fece in tempo a perdersi nei suoi pensieri perché sentì il
cellulare vibrargli nella tasca, lo estrasse scoprendo un messaggio non letto,
sul display illuminato stava scritto a chiare lettere Nikka.
“Mei!
Vieni nella camera oscura, ho una proposta che non puoi rifiutare!!” ,
Mei si immaginò un tono civettuolo e allegro, ma comunque alzandosi si
preoccupò di trovare una testa di opossum sul banco al suo ritorno. E
poi, da quando a scuola c’era una camera oscura?
Si
alzò perplesso dando un’occhiata all’orologio di metallo con
le lancette fosforescenti che si sarebbero viste anche al buio.
Mancava
un quarto d’ora all’inizio delle lezioni, e probabilmente le
chiacchiere con Nikka, o le minacce, non si sarebbero protratte abbastanza per
fargli perdere l’inizio della lezione di matematica.
Il
problema si presentava però in altra forma: dove diamine era la camera
oscura?
Si
alzò , mentre le pettegole lo squadravano discretamente, da quando aveva
cominciato a farsi vedere in giro con Nikka anche loro si erano accorte della
sua esistenza.
Prima
di inoltrarsi nel corridoio ci infilò la testa sospettoso, chiedendosi
dove fosse l’aula adibita alla fotografia, poi si decise a uscire,
arrendendosi a dover chiedere informazioni come un turista.
Come
si fa a essere turisti di una scuola superiore?
Cominciò
a incamminarsi speranzoso verso la presidenza, e incrociò un sedere
infilato nell’armadietto degli inservienti, se così si può
dire. Dall’armadietto emerse un busto e una testa blu.
Non
ci mise molto a capire che quella non era sua sorella. Era decisamente
più bassa, il portamento era molto meno da Rachele , il sedere era vagamente piatto e i pantaloncini erano
decisamente commerciali, sua madre non avrebbe mai confezionato una cosa del
genere.
E
quindi chi era?
La
risposta arrivò in fretta, quando la ragazzina, parecchi centimetri
più in basso andrò a sbattere arretrando contro il suo petto. Mei
fece un paio di passi indietro per riprendere l’equilibrio perduto.
Lei
si voltò per scusarsi e gli sorrise. “Mei” esclamò
allegra. Non che lui la conoscesse, ma suppose che fosse una delle oche blu di
sua sorella.
“stavo
cercando un decespugliatore… credo che tua sorella ne avesse
bisogno…e ho anche idea di non stargli particolarmente simpatica dallo
sguardo che mi ha rivolto sta mattina quando ci siamo viste a casa di Joyce”
disse più parlando a sé stessa che a Mei, poi si ricordò
di averlo davanti e aggiunse “comunque io sono Sofia molto piacere di
conoscerti!” esclamò gioviale dinanzi ad un attonito Mei.
Lui
fece un sorriso tirato, poi decise di approfittarne “Sai per caso
dov’è la camera buia? Nikka mi ha detto che dovevamo vederci
lì” .
“Nikka?”
chiese storcendo la bocca con disapprovazione, era un’oca blu in fondo, e
l’esercito di Rachele odiava per natura Nikka e le sue guardie del corpo.
Detta in termini bellici.
“Rachele
non protesta se la vedo” si affrettò a mentire con un sorriso. Non
che pretendesse l’approvazione di sua sorella per fare qualche cosa, ma
aveva bisogno di sapere dove diamine fosse la stanza buia prima che suonasse la
campana di inizio lezione, e se avesse dovuto fare da se avrebbe fatto notte.
Sofia
sembrò convincersi, e gli fece un sorrisetto “ beh, se entri nella
stanza delle fotocopiatrici è subito a sinistra” spiegò
indicando un punto dietro di lui. Si voltò chiedendosi da quando in qua
a scuola c’era anche una stanza delle fotocopiatrici, e infatti pochi
metri più indietro stava una porta in vetro con attaccato un foglio sul
quale troneggiava la scritta “Fotocopie”.
Si
rivoltò verso la ragazza per ringraziare, ma quella era già
sparita. Sbatté le palpebre perplesso, sicuramente quel modo di sparire
l’aveva imparato da sua sorella. In realtà non si ricordava una
precisa sparizione furtiva di Rachele, ma fu sicuro che quella fosse una sua
prerogativa.
Deciso
ad arrivare a destinazione aprì sicuro la porta incriminata, e
richiudendola sobbalzò nel vedere Joyce seduto su una fotocopiatrice a
braghe calate che leggeva il quotidiano. Il ragazzo sobbalzò a sua volta
e abbassò il giornale per guardarlo negli occhi.
“Tu
non mi hai visto mentre mi fotocopiavo il sedere, ok?” fece minaccioso
socchiudendo un occhio. Mei annuì perplesso, poi gli sovvenne quello che
aveva sentito poco prima dalle pettegole “Joyce! Sei andato a letto con
una suora!?!” fece aggrottando
le sopracciglia.
Joyce
alzò le spalle, sorrise e alzò gli occhi al cielo in modo
malinconico “Quasi, ci hanno interrotti… poi ovviamente lei ha
sciolto i voti.. ah… è stato un paio di anni fa durante una festa
in villa, le feste in villa sono sempre le migliori…” fece con fare
malinconico, ma Mei lo fermò prima che potesse continuare.
“Va
bene va bene…” fece sottolineando le sue parole con un movimento
deciso della mano, che somigliava tanto allo STOP di un vigile.
“Ah,
già che sei qui, sai per caso cosa ci vuol fare tua sorella con un
decespugliatore?” chiese tranquillamente ricominciando a leggere il
giornale che aveva appoggiato sulle ginocchia.
“Senti,
gli affari di mia sorella non li so, ne ho abbastanza di decespugliatori suore
e sparaneve!” esclamò Mei scocciato, ma Joyce parve illuminarsi
alla parola sparaneve.
“Oh,
la sai anche tu la storia dello sparaneve? Oh, quella volta tua sorella fu
fantastica, mi pare fosse per le vacanze di natale ed eravamo a...”
“Non
lo voglio sapere! Torna a fotocopiarti il sedere! Io vado da Nikka!!”
disse esasperato quasi urlando.
“Bye
bye Darling…” lo salutò tranquillamente affondando il naso
nella rubrica di sport.
La
porta indicata dall’oca blu di sua sorella era a sinistra, Mei
abbassò la maniglia che scoccò e annunciò la sua presenza,
un filò di luce si distese sul pavimento della stanza, ma appena
l’uscio si richiuse tutto piombò nell’oscurità, Mei,
istintivamente cercò con la mano l’interruttore ma venne fermato
da un’esclamazione un po’ stridula, che Mei riconobbe subito
provenire dalla bocca di Nikka “Ehi, non ci provare, non vorrai mica
rovinarmi il lavoro vero?” .
Qualche
cosa si accese a poca distanza dalle sue ciglia , un accendino, che gli
rivelò la presenza di una vicinissima Nikka. “Se aspetti un attimo
ti abituerai alla luce fioca… razza di impaziente” ridacchiò
, spegnendo l’accendino e rimettendoselo in tasca.
Mei
sbatté un po’ le palpebre aspettando che i suoi occhi si
abituassero alla penombra.
“Non
sapevo che ti interessassi alla fotografia…” disse poi
appoggiandosi stancamente al muro.
“Che
foto sono?”. Nel buio gli parve di vederla alzare le spalle “Sono
foto mie…” rispose sventolandone una e appendendola al filo. Egocentrica, pensò una parte di
cervello poco importante, del ragazzo.
“Ti
chiederai perché ti ho cercato” cominciò lei pratica.
“Più
che altro mi sono chiesto perché mai in questo posto…” disse
Mei cui la camera buia da fotografo faceva venire in mente qualche cosa di hard
o horror. Insomma qualche cosa che cominciasse con l’H.
Nikka
lo liquidò con un gesto della mano “Oh, no, è solo
perché sono molto impegnata… allora volevo dirti che ho intenzione
di organizzare una festa per il compleanno di Alberto” Mei annuì
mentre cominciava a vedere con più chiarezza la sagoma della ragazza nel
buio. Ma non capiva cosa centrasse
in quella storia lui.
“Ho
intenzione di esporti…” continuò tranquilla appendendo foto.
Mei alzò un sopracciglio nel buio. “Cioè?” chiese
decisamente perplesso.
“Allora…
nel caso non l’avessi capito, credo che tu abbia del potenziale…
insomma, sei un bel ragazzo, pulito (e lo dico perché molte persone che
conosco possono tranquillamente passare una settimana senza lavarsi i denti) ,
educato e ben vestito. L’unica cosa che ti manca è un po’ di
sprint… e credo che dovrò esporti alla festa di Alberto per farti
conoscere un po’ di ragazze…” terminò incrociando le
braccia e guardandolo.
“Non
mi interessa conoscere della ragazze!” sbottò, più
perché si sentiva un idiota a farsi trattare così, che per il
fatto che fosse vero.
“Oh,
ma insomma!!” fece lei guardandolo nel buio e avvicinandosi di qualche
passo. “Perché diamine non ti dai una mossa? Non ci credo che non
vorresti avere una ragazza, o un’accompagnatrice, o una lucciola, o una
baby sitter,o un qualsiasi altro essere femminile accanto!”
Mei
si schiacciò contro il muro, reggere lo sguardo della ragazza al buio
era decisamente più semplice.
“Cos’è
che non ti va bene nell’avere una vita sociale e avere successo con le
ragazze?”
“Non
capisco perché ci tieni tanto…” sibilò piano e
rilassando i muscoli, mentre tornava ad abbassare i talloni che aveva alzato
per appiattirsi ancora di più contro la parete.
Gli
sembrò di averla fregata, ma lei si stava semplicemente fregando il
mento in modo poco femminile e chic, ma tanto finché era al buio con un
Mei decisamente digiuno di rudimenti sociali non le poteva succedere nulla.
“Hai
mai sentito parlare di D’annunzio? Si studia al quinto anno…”
cominciò lentamente. Mei annuì, e lei vide i suoi capelli
muoversi e frusciare nella penombra, perciò continuò a spiegare.
“Belle
donne, levrieri, lusso… voleva che la sua vita fosse un’opera
d’arte” disse.
“Infatti
è scappato in Francia rincorso dai creditori…” si
affrettò ad aggiungere. Nikka soffocò una risatina spenta.
“Non
mi pare di starmi indebitando, a parte con mia madre… in effetti l’altro
giorno le ho chiesto duecento euro per fare acquisti in profumeria, non ha
gradito. Ma comunque voglio che sia tu la mia opera d’arte. Sei una buona
base”.
Mei
sbatté un po’ le palpebre. “Che diamine stai dicendo?”
Nikka
sbuffò scocciata, Mei si ostinava a non capire o a far finta di non
capire. “Leonardo aveva
Mei
rimase un attimo in silenzio, mentre si diceva che quella ragazza era fuori
come un balcone, poi alla fine parlò lentamente “ Leonardo e
D’annunzio? Non credi di puntare un po’ in alto… paragonarsi
a…” lei non lo fece finire e lo precedette “Lo so… ma
chi se ne importa se pensi che sia assurdo. Sarai il mio levriero?”chiese
infine.
“Niente
museruola?” si informò subito. “Promesso” rispose
alzando il mignolo e aspettandolo che Mei ci agganciasse il suo. Lui rimase a
guardarlo nella penombra.
“Devi
attaccarci il tuo…” sospirò rassegnata dal fatto che Mei
fosse sempre e comunque fuori dal mondo.
“Oh”
sussultò lui eseguendo. Nikka lo strinse e si alzò sulle punte
cercando di guardarlo meglio negli occhi.
“Allora
, verrai alla festa di Alberto, e ci andremo con lo stesso giubbotto , va bene?
Andiamo a comprarlo oggi…” disse tutto in una volta senza
respirare.
“Un
attimo…Alberto…” non riuscì a finire perché
Nikka sapeva già la domanda e aveva anche già la risposta.
“No,
non è come Pallotti. Sa che siamo amici. Il mio nuovo fidanzato è
un signore. Stai tranquillo” spiegò stringendo la mascella.
“Ok”
disse infine lui. Lei sorrise “Perfetto… esci prima tu, io ti
seguo”.
Mei
aprì una fessura e uscì sgusciando come un’anguilla.
Guadagnò in due passi la porta che dava sul corridoio e a malapena
sentì Joyce che da sopra la fotocopiatrice lo salutava.
Si
chiuse la porta di vetro alle spalle, e nello stesso istante sentì uno
strillo di donna seguito da un tonfo.
“Oddio
Nikka!!” sentì dire a Joyce mentre probabilmente raspava nel suo
quotidiano ai piedi della fotocopiatrice.
“Oddio lo dico io! Ma che schifo!
Rimettiti i pantaloni… ma insomma che schifo cosa stavi facendo??”
. Ridacchiò, non aveva pensato ad avvertire Joyce dell’imminente
arrivo di Nikka.
“E’
così orribile senza pantaloni…?” chiese sorridendo tra
sé e sé.
“Beh,..”
cominciò a rispondere pensierosa Sofia che era riapparsa accanto a lui.
Mei sobbalzò e saltò qualche passo più in là
sbraitando “Era una domanda retorica… non volevo una risposta!
Torna a cercare il tuo decespugliatore!!”.
Poi
girò i tacchi e andò verso la sua classe, per poco non avrebbe
perso l’inizio della lezione. Sofia alzò le spalle e se ne
tornò a girare a vuoto per i corridoi. Certe persone in quella scuola
sembravano lì per caso. Come se fossero turisti, in giro per le aule e i
bagni come se fossero in vacanza. Magari sul tetto in periodo di esami
allestivano una spiaggia per nudisti.
Sei
ore di scuola passarono in fretta, e come al solito la mensa era affollata, la
signora Pavesi aveva provveduto a rifornire i suoi pargoli di gustosi panini.
Joyce
si lasciò cadere di fronte a Rachele che mangiava silenziosamente il suo
pranzo cercando di ignorare le oche blu che straparlavano vicino a lei.
Il
ragazzo impellicciato scartò il suo pranzo comprato al bar e lo
addentò mentre le ragazze blu continuavano a ciarlare. Sembrava che
entrambi – Joyce e Rachele – non seguissero i discorsi, parlavano
di trucchi, ragazzi, capelli, ceretta, e loro rimanevano con gli occhi puntati
sul cibo, come se fossero da soli. Solo Joyce a volte alzava gli occhi per dare
un’occhiata ai capelli blu della sua amica. Sofia lo aveva visto un paio
di volte farlo. Sguardi a lei invece non gliene riservava mai. Deglutì e
tornò al chiacchiericcio delle sue due amiche coi capelli turchini.
“Allora?
Quest’estate si va a Maiorca?” saltò su una delle due amiche
di Sofia, riprendendosi in un attimo l’attenzione di quest’ultima
che per un secondo aveva vacillato per colpa del bizzarro Joyce.
Sofia
sorrise. “Direi che Maiorca sia perfetta per il viaggio di
maturità… relax e divertimento, ci è andata l’anno
scorso mia sorella, ha detto che è una bellissima isola!” aveva
detto in tono leggero.
“Ah
ha! Perfetto!” trillò la sua amica, che tra tutte sembrava essere
la più organizzata, e infatti tirò fuori da chissà dove un
atlante che descriveva nei minimi dettagli tutte le isole del Mediterraneo. Lo
aprì con lentezza e come per magia trovò subito la pagina giusta,
per poi puntarci il dito e urlare “Maiorca!!”.
Rachele
alzò discretamente lo sguardo dal suo panino per puntarlo sull’oca
con atlante. Joyce seguì il suo sguardo fino a posarsi sulla ragazza che
aveva portato la cartina e portava un fiocchetto rosa sulla testa. Gli venne
quasi da ridere. Quelle tre ragazze cercavano di imitare la sua cara Rachele, ma
sarebbe stato ovvio anche per lo sprovedutissimo Mei che un affare del genere
sua sorella non l’avrebbe mai indossato.
“Però
cosa facciamo? Ci andiamo solo noi tre? Dovremmo pure trovare una quarta
ragazza!” disse d’un tratto l’altra ragazza.
Lo
sguardo di Rachele si fece meno discreto e le sopracciglia si alzarono, mentre
Joyce passava gli occhi dalle oche a lei. Ghignò, come per dire “e
adesso vediamo cosa succede”.
“Certo
che no!” rispose la ragazza col fiocco rosa, che probabilmente era una
specie di capo “Chiederò a mia cugina Ilaria di venire con noi,
lei fa il quinto anno, al liceo scientifico in via Mazzini”.
Rachele
non volle sentire altro, si alzò e se ne andò senza finire il
pranzo, che finì dritto dritto con stizza nel bidone. Joyce fece un
sorrisetto, poi seguì il suo esempio dicendo “Gente io vado a fare
la pipì” . Le oche blu lo salutarono con aria sognante, e lui
andò a svuotarsi tranquillamente la vescica.
Rachele
conosceva tutto della casa di Joyce, e poteva entrare quando voleva. Joyce del
canto suo solitamente schifava la porta di casa Pavesi, prediligendo la
finestra del bagno, ma quel giorno non aveva troppa voglia di arrampicarsi su
per la grondaia e si ritrovò a forzare la porta con la tessera
sanitaria. Lo aveva visto fare in un film. Ovviamente nel film il protagonista
usava la carta di credito, ma dato che in famiglia di carte di credito non ve
ne era nemmeno l’ombra aveva dovuto accontentarsi.
Avrebbe
potuto sì, usare il campanello, e farsi aprire come facevano tutte le
persone normali, ma trovava che il citofono facesse un rumore più che
mai molesto, e poi era impersonale. Se sentivi che ti stavano scassinando la
porta non poteva essere altri che lui. Anche perché un ladro di buon
senso non avrebbe mai derubato casa Pavesi.
Alla
fine dopo aver lambiccato un paio di minuti, la porta si schiuse e Joyce
penetrò silenziosamente nell’appartamento chiudendosi
l’uscio alle spalle.
Piegò
la testa da una parte vedendo la turchina Rachele che guardava sconsolata il
tavolo della cucina coperto di polvere bianca. La stessa polvere che le
imbrattava anche buona parte del viso.
Joyce
sbatté un poco le palpebre e aspetto che lo insultasse. Lo insultava talmente
spesso che era diventata un’abitudine. Ma rimase lì sconsolata a
guardare la polvere sul suo tavolo.
“Che
è successo?” chiese tranquillo avanzando qualche passo in cucina.
“Le
oche blu vanno a Maiorca…senza di me” pigolò.
“E
a te dispiace” finì lui.
“No” disse lei senza neanche sforzarsi di mentire in modo
convincente.
“E
questa cosa ti distrugge così tanto da darti alla droga?” chiese.
“No,
idiota, è farina, stavo cercando di cucinare una millefoglie”
l’aveva insultato e gli aveva regalato uno sguardo carico d’odio.
Bene, era tornata
“Ma
non sei capace… beh, se vuoi mia sorella Jane è una cuoca
spettacolare, mica come te” disse con un sorriso che alludeva chiaramente
al disastro che si era creato in cucina.
“Di
solito cucina mia madre” ribatté la ragazza blu alzandosi.
“Scusami io non ho una madre amorevole come la tua… se fosse per
mio padre mangeremmo pizza surgelata e pollo fritto da asporto tutti i
giorni!”disse poi aggiunse “Tuo fratello?”
“Con
Nikka” rispose scocciata lei mentre chiudeva la porta, diretta
all’appartamento dell’amico.
“E
questo non aiuta l’umore…”
“Già…
ma fammi un favore, la prossima volta suona il campanello” disse, sapendo
che avrebbe di nuovo usato la tessera sanitaria.
Se
c’era una persona che conosceva tutti i negozi della città, quella
persona era sicuramente Nikka. Mei non l’aveva mai vista raggiante come
quel giorno, mentre la sua sciarpa lilla di tulle le svolazzava dietro. Non
condivideva l’emozione, ma lo divertiva vederla così raggiante.
“Credo
che gli spolverini siano chic, non trovi?” chiese a un certo punto felice
guardando una vetrina.
Mei
piegò la testa da una parte, e alzò le spalle. Boh, sì,
erano carini… forse… ma in realtà non gliene fregava niente.
Quella ragazza sarebbe andata d’accordo a chiacchierare con sua madre,
che sapeva riconoscere il cachemir
e sapeva cos’erano le parigine.
“Penso
che come cappotto per entrambi non sarebbe male…” disse guardando
la vetrina con aria pensierosa.
Mei
studiò la minuscola figura dell’amica, avvolta in un
mongomeri verde bottiglia, e una
borsa di coccodrillo di un verde simile.
Una
volta sua madre , quando ancora pensava di poter insegnare qualche cosa di
stile al figlio, gli aveva raccontato che il verde aveva un sacco di sfumature.
Certo ogni colore aveva delle sfumature, ma il verde ne aveva più di
tutti gli altri, e tra di loro erano solite non abbinarsi al meglio.
Però, secondo il suo modesto occhio profano, i suoi verdi si abbinavano
bene tra loro. Gli venne da sorridere.
“Che
c’è?” sbottò Nikka che si sentiva derisa. Mei
sbatté le palpebre impaurito “Niente niente…”
“Non
ti piace?” chiese alzando gli occhi al cielo.
Mei
alzò le spalle. “Sinceramente?” . Lei annuì muovendo
un po’ la borsetta di coccodrillo. “Non ho idea di che cosa tua
stia dicendo” non poteva credere di averle risposto così, e si
diede dello scemo, perché non stava zitto.
Nikka
rimase basita.
Mei
avrebbe voluto fustigarsi, la prima ragazza che gli rivolgeva la parola, prima
si lasciava trucidare, poi le diceva che non la ascoltava minimamente.
Ma
alla fine lei sorrise.
“Almeno
sei sincero… te ne frega qualche cosa di questo giubbotto?”
Mei
alzò le spalle “Dei vestiti me ne è sempre fregato poco. Ma
se Leonardo pensa che la sua Gioconda abbia bisogno di un giubbotto…
beh…” .
Nikka
sembrò contenta della sua risposta “Nikka pensa che per lei e Mei
questo cappotto sia indispensabile!”.
Mei
annuì “Bene… cappotto sia” .
Una
volta entrati Nikka si fermò a civettare con il commesso.
Se
sei ricco mandi il tuo Alfredo, o Ambrogio o Girolamo , a comprare quello che
ti piace, ma se in casa si vive in due con uno stipendio da impiegato statale,
difficilmente si può lasciare la mancia, come potrebbe fare il
maggiordomo Alfredo. Bensì si civetta col commesso nella speranza che
poi ti faccia lo sconto.
Mei
aveva guardato intensamente il manichino su cui stava il giubbotto che aveva
conquistato Nikka. Guardò la cintura, il colore beige chiaro, tutte le
cuciture il modo, quasi frapposo, in cui cadeva sulle gambe del manichino.
Nikka
gli trotterellò felice accanto “Allora cosa ne pensi?”
“Non
è da donna?” chiese perplesso.
“No,
è unisex, ma gli uomini non se lo mettono quasi mai perché la
maggior parte sono privi di senso dello stile” . Non che la cosa lo
convincesse molto … aggiunse poi “Non fa tanto maniaco dei
giardinetti?”
“No,
per essere un maniaco ti ci vorrebbe un impermeabile giallo e degli occhiali a
goccia. Se eviti di mettertelo senza nulla sotto risolverai in fretta la
situazione”
Mei
alzò le spalle “O la và o la spacca”
Più
tardi poco prima di cena qualcuno suonò alla porta. La signora Pavesi e
i suoi figli si guardarono, e poi guardarono la porta. Chi poteva essere? O
meglio, chi poteva suonare?
Non
suonava più nessuno alla loro porta. La signora del terzo piano, quella
coi dodici gatti era solita
bussare, Joyce entrava dalla finestra, la portinaia aveva la chiave e la
spagnola che si doveva sposare invece iniziava a urlare prima ancora di essere
arrivata al pianerottolo dei Pavesi.
Rachele
alzò le spalle “Vado io!”disse stancamente.
Aprì
la porta e sbatté le palpebre, stupita di trovarsi un’oca blu
davanti. L’aveva riconosciuta, era quella che sia chiamava Sofia.
“Mi
chiedevo se volessi venire a Maiorca con noi” chiese con un sorriso e
senza preamboli. Rachele la guardò incerta, probabilmente Sofia non
l’aveva mai vista, così, decisamente spiazzata.
“Certo
che no, io non rimpiazzo nessuna cugina!” aveva sbottato, ma si vedeva
che non era ben sicura di quello che stava succedendo, sbatté la porta
per chiuderla, e si inciampò nell’aria finendo a sedere sul pavimento.
La
signora Pavesi fece capolino dalla cucina “Tutto a posto cara?”.
Rachele alzò le spalle.
“Diciamo
che sono viva” rispose abbacchiata. Non ci capiva più niente,
prima impazziva per togliersi di mezzo le oche blu, poi non la invitavano in
vacanza e impazziva, poi la invitavano e impazziva lo stesso. Non si capiva
più.
Dall’altra
parte della porta un’allibitissima Sofia se ne stava in piedi sullo
zerbino. Si voltò lentamente verso la sommità della rampa delle
scale, dove stava seduto un ridanciano Joyce. Si era messo lì
perché Rachele non lo vedesse, quando avrebbe aperto la porta.
“ehm…”
lei non sapeva cosa dire, cosa si poteva dire dopo che una senza quasi motivo
ti sbatteva la porta in faccia urlando?
Joyce
scese lentamente le scale che li separavano dicendo “Le ha fatto
piacere… davvero…”
“Quindi
verrà a Maiorca con noi?” domandò lei continuando a non
capire, quando ormai lui le era arrivato affianco.
“Certo
che no… ma le ha fatto piacere che voi glielo abbiate chiesto… ti
va un panino?”
In
casa Pavesi la situazione tra le due donne di casa si era pressappoco
congelata, mentre Mei faceva la spola tra bagno e camera da letto, mentre si
faceva la barba.
Rachele
era rimasta a sedere a gambe incrociate davanti alla porta con aria spaesata,
mentre sua madre sulla soglia della cucina la guardava con aria preoccupata.
D’un
tratto la ragazza parve svegliarsi, e si voltò di scatto per parlare con
sua madre che sobbalzò “Mi insegni a cucinare la
millefoglie?” chiese di botto. Gli occhi della signora Pavesi si
illuminarono “Tesoro, hai intenzione di darti all’arte
culinaria…?”
Rachele
boccheggiò “Non proprio mamma… ma se la vuoi vedere sotto
questo aspetto sei liberissima”
Mei
si era ritrovato a correre come un idiota, come aveva fatto a perdere
così tanto tempo a scegliere cosa mettersi per la festa in villa del
ragazzo di Nikka, e di non aver scelto niente?
Era
uscito nudo, solo con il giubbotto e le mutande, e per di più era anche
in ritardo. E come avrebbe spiegato a Nikka che nell’indecisione aveva
optato per il nudismo?
Era
diventato pazzo forse? Non era mai stato un ragazzo avventato, il Mei
dell’anno prima non sarebbe mai uscito nudo. Il Mei dell’anno prima
non sarebbe nemmeno uscito, ma quelli erano altri problemi. E a quel punto,
mentre correva alla fontana dei giardinetti, dove si erano dati appuntamento,
doveva anche inventarsi una scusa plausibile per il suo arrivo decisamente
spoglio. Gli avevo rubato i vestiti? Era andato a fuoco l’armadio?
No,
non esistevano scuse plausibili, o lontanamente intelligenti. Era un emerito
idiota , e se lo ripeté per l’ennesima volta quando scorse Nikka
in lontananza che lo aspettava accanto agli zampilli della fontana.
Rallentò
la corsa, proprio frenando davanti a lei, che gli sorrideva raggiante, truccata
perfettamente, col viso incorniciato da due lunghi ed eleganti orecchini
d’argento.
Come
avrebbe fatto a dire a una perfezionista simile che era arrivato fin lì
decisamente nudo? Tra l’altro iniziava a sentire un discreto freschino,
dato che ormai Natale era alle porte.
“Buona
sera Mei” disse con voce vellutata allungando il collo per dargli un
bacio sulla guancia.
Mei
si sentì avvolgere dal profumo delicato di Nikka.
Deglutì,
intorpidito dal profumo. “Nikka devo dirti una cosa…”
pronunciò faticosamente quando lei gli prese le mani per condurlo chissà
dove.
Lei
si fermò e gli strinse ancora le mani tra le sue, che erano freddissime.
“Anche io e…”
“Sono
nudo, non sapevo che vestiti mettermi e sono venuto in mutande”
sbottò infine. Nikka lo guardò per qualche secondo sbattendo le
palpebre perplessa.
Mei
fu sicuro che stesse per esplodere.
Ma alla fine lei sorrise e rise perfino, in un moto irrefrenabile.
Appoggiò la fronte al suo braccio, poi finalmente quando ebbe ripreso
fiato e riuscì a guardarlo senza ridere troppo disse “Anche io,
sono in mutande…!!” poi ricominciò a ridere senza sosta, a
lui scappò un sorriso.
E
così anche alle impeccabili come Nikka e Rachele succedevano cose
strane, la prima che usciva di casa nuda, la seconda che crollava davanti
all’invito di una ragazzina blu.
“Non
ci posso credere! Siamo due disadattati!! Ora si che siamo dei maniaci dei
giardinetti!!” esclamò come se non avesse mai riso così
tanto in vita sua.
“E
adesso?” chiese Mei con un sorriso un po’ preoccupato”Andiamo
alla festa?”
Lei
lo guardò alzando le sopracciglia “E cosa facciamo? Non ci
togliamo il giubbotto per tutta la serata?”. Mei alzò le spalle
dubbioso.
“Io
dico che è meglio un bel posto all’aperto dove non sia disdicevole
non togliersi il giubbotto!!” esclamò con Mei che si trovava
assolutamente d’accordo.
E
così Nikka disertò la festa di compleanno del suo nuovo ragazzo
per andare a prendere un gelato alla baracchina dei gelati al parco, in
compagnia del nerd, pseudo opera d’arte Mei.
Quando
tornò a casa stava ancora ridacchiando, anche se aveva un freddo cane.
Era stato buffo, Nikka gli aveva raccontato un sacco di cose su Chanel e
colleghi, e lui non aveva capito assolutamente nulla, ma era comunque contento
come una Pasqua. Andò dritto in bagno intenzionato a farsi una doccia
calda, ma si trovò un po’ spiazzato, e fece un salto
all’indietro quando vide sua sorella seduta per terra accanto al
gabinetto. Lei lo guardò dal pavimento e gli sorrise “Ben tornato
fratellino”
“Tutto
a posto?” chiese lui perplesso. Sapeva della spiccata simpatia che sua
sorella provava per gli alcolici , ma non l’aveva mai vista post
vomitata. E di sicuro in quel momento non si sentiva in gran forma.
Si
sedette come lei, con le spalle appoggiate alle piastrelle del muro e i piedi
allungati lungo il pavimento, in modo che solo il water li dividesse.
“Sono
andata a consegnare una torta a una ragazza blu… amo essere scortese, ma
forse a volte esagero. Poi sono andata a bere in giro…”.
Mei
sospirò guardandola, poi disse “Questi vestiti non li ha fatti
mamma, vero?” indicando contemporaneamente ciò che indossava la
sorella.
No,
decisamente il top era troppo succinto per essere opera di mamma. Aveva quello
e delle bretelle dorate, mentre in testa portava un cerchietto con un fiore
nero. Di sicuro l’abbigliamento era ricercato, ma non erano cose di
competenza della signora Pavesi.
Rachele
alzò le spalle “Joyce” disse con semplicità senza
guardarlo e muovendo un po’ la lattina che teneva ancora in mano.
“Joyce
si mette quella roba?” Mei sapeva che l’amico irlandese aveva idee
strane in quanto ad abbigliamento, ma non poteva certo immaginarselo conciato
così.
“NO,
SUA SORELLA!!” sbraitò subito Rachele. Mei si
tranquillizzò, non fece in tempo a mettersi seduto per bene che sua
sorella gli mise davanti la birra.
“La
metti via? Non mi va che la mamma la trovi in giro domani mattina”.
Mei
la guardò per un attimo poi trangugiò ciò che era rimasto
nella lattina, per non aver nemmeno il tempo di mandarlo giù prima di
sputarlo schifato nel water. Rachele si mise a ridere sguaiatamente rischiando
di tirare una testata al gabinetto.
“Rimarrai
astemio tutta la vita?”
Mei
alzò le spalle “Temo di sì”. Rachele diede
un’occhiata alla Gioconda con gli occhi censurati con lo scotch.
“Sai
che dicono che
Mei
annuì in attesa che sua sorella dicesse qualche cosa d’altro, e
infatti “Credo che sia ora di andare. Devo svelare altri misteri, buona
notte stupido opossum” disse alzandosi barcollante e sparendo in
corridoio.
Non
stavo dormendo, come al solito, ma ero in un beato dormiveglia, con la guancia
schiacciata contro il materasso e i capelli sulla faccia, quando la porta si
aprì lentamente facendo entrare un filo di luce che mi illuminò
la schiena.
“Che
ci fai qui?” chiese Joyce tranquillo chiudendo la porta ed eliminando il
filo luminoso.
“Non
mi andava di dormire a casa mia” biascicai con la bocca storta per la
posizione. Joyce alzò le spalle si tolse l’odioso pellicciotto
arancione e si lasciò cadere a braccia aperte sul letto come un
crocifisso instabile.
“Dimmi
una cosa” dissi dopo un po’ di silenzio, lui muggì un
assenso.
“Chi
cavolo è Darcy?” sbottai tenendomi su la testa su una mano. Lui si
girò stancamente verso di me.
“Mia
sorella” disse per poi ricadere come in coma sul cuscino.
“No”
sentenziai altera “Tu hai due sorelle, e si chiamano Jane ed Emily, come
Jane Austen e Emily Dickinson” spiegai saccente.
Joyce
ridacchiò “Te lo ricordi… no, Darcy è la figlia di
mia madre, ha tredici anni. L’apparecchio per i denti , gli occhiali, le
lentiggini e vive nella verde Irlanda”
“Darcy
è un nome da uomo” dissi come per trovare per forza qualche cosa
che non va per forza.
“E’
unisex…” ribadì lui. Sospirai.
“Buonanotte idiota” dissi
girandomi dalla mia parte del letto.
“Buonanotte
stronza” rispose lui facendo lo stesso.
Grazie mille a chi ha letto e commentato, spero di non deludervi
con questo nuovo capitolo, forse è un po’ troppo lungo, ma volevo
metterci anche un po’ di paranoie by Rachele.