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Autore: Adeia Di Elferas    23/02/2021    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Il sole era nel mezzo del cielo, così grande e caldo da sovrastare tutto il resto. Caterina era in sella al suo baio, e poco davanti a lei stavano due soldati francesi. Al suo fianco, tutto sudato e sbuffante, cavalcava frate Lauro, mentre alle loro spalle restava solo un uomo alla retroguardia. Troilo De Rossi aveva preferito rimanere indietro a curare le spalle della colonna.

Non stavano seguendo sempre la via principale, anzi, spesso si inoltravano nella vegetazione, attraversando piccoli boschi, per poi uscirne nel mezzo di qualche radura stesa tra le colline. Il verde e l'odore dell'erba riempivano gli occhi della Tigre, calmandola. Le ricordavano i posti che più aveva amato nella sua vita, dai boschi collinari nel pavese, fino alla riserva di caccia che aveva voluto a Forlì.

Quando finalmente incrociarono di nuovo la strada maestra, la donna strinse gli occhi verso l'orizzonte, in cerca di qualche punto di riferimento che andasse oltre agli alberi e agli arbusti.

“Quella è Firenze?” chiese a un certo punto, indicando un profilo alto e grigio, una cinta muraria di tutto rispetto.

Uno dei due francesi annuì solo con un cenno del capo, mentre frate Lauro, che si stava addirittura sporgendo sulla sella del suo cavallo, per vedere meglio, ribatté: “Eccome se la è, mia signora. E sono pronto a scommettere che quella – e indicò un puntino sfocato più riconoscibile di altri – sia la sommità del Duomo di Santa Maria del Fiore!”

Caterina, a quella conferma, sentì il cuore accelerare e la gola seccarsi. A breve, si ripeteva, avrebbe visto i suoi figli arrivarle incontro. Anche se non era facile essere puntuali, a quel genere di incontri, sperava di trovarli presto.

Il battere lento e cadenzato degli zoccoli sulla via e il proprio respiro, che si era fatto più corto, sembravano voler scandire il tempo che ancora la separava dagli unici affetti che sentiva ancora di avere al mondo.

Non passò molto prima di intravedere una piccola comitiva avanzare verso di loro. La luce feroce del sole, però, impediva di scorgerne bene i componenti, tanto che la Leonessa, per quanto fosse impaziente, attese ancora a lungo, prima di slanciarsi in avanti. Solo quando le parve di riconoscere il profilo del suo primogenito, si permise di sorridere.

Più si avvicinavano, più i dubbi si azzeravano. Li poteva vedere bene, ormai: Ottaviano, Cesare, Galeazzo, Sforzino e Bernardino. Scorgere assieme i figli nati dal suo primo matrimonio e quello nato dal suo amore con Giacomo, produsse in lei una subitanea e violentissima tempesta di emozioni. In quell'occhiata era racchiusa buona parte della sua vita, i suoi amori, i suoi dolori, i suoi rimpianti e le sue gioie.

“Posso andare?” chiese, mentre osservava come anche i suoi figli, ancora abbastanza lontani, stessero iniziando a parlottare tra loro, come se si stessero domandando se la figura vestita da uomo e affiancata da un frate che si faceva loro incontro fosse realmente la loro madre.

“Andate.” concesse il francese che guidava la compagnia.

Senza più indugi, la donna diede due forti colpi di tacco ai fianchi del suo cavallo, facendolo schizzare in avanti come un'anguilla. Nello stesso istante, Galeazzo e Bernardino fecero altrettanto con le loro bestie, e a breve anche gli altri tre li imitarono.

Appena le sembrò di essere abbastanza vicina, Caterina arrestò di colpo la sua cavalcatura e scese di sella, per mettersi a correre. Anche se le sue gambe protestavano e incespicavano, la donna le forzò ad andare più svelte. Allo stesso modo, anche i due figli che per primi si erano slanciati verso di lei, imitandola, stavano scendendo da cavallo per correrle incontro.

Mentre, sullo sfondo, Ottaviano, chiedeva a una delle guardie che li seguivano di prendere in custodia gli animali, la Tigre spalancò le braccia, per accogliere chi per primo sarebbe arrivato a stringerla.

Il più veloce, tra Galeazzo e Bernardino, fu il secondo. La Sforza trattenne a sé il bambino, di dieci anni e mezzo, accorgendosi tutto di colpo di come fosse diventato alto e di quanto, adesso, assomigliasse in modo ancor più spiccato al padre.

Mentre ancora il Feo le stava incollato, anche Galeazzo, mettendo da parte i suoi modi di solito così trattenuti, si lanciò quasi di peso verso la madre. Sotto l'irruenza di quei due ragazzi, Caterina si lasciò cadere in ginocchio e così fecero loro, seguendola anche in terra, pur di non lasciarla.

Più tiepido, ma comunque accorato, anche Sforzino si unì all'abbraccio. Tutti e quattro piansero, senza darsi pena di nascondere il sollievo che stavano provando nel trovarsi di nuovo assieme, e quando infine allentarono il loro abbraccio, tutti loro avevano gli occhi rossi e il respiro spezzato.

Solo quando la donna e i tre figli si rimisero in piedi, Ottaviano e Cesare osarono avvicinarsi alla madre.

La Tigre guardò ancora per un lungo minuto Bernardino, specchiandosi nei suoi occhi svegli, poi passò a Galeazzo, accarezzandogli la guancia, trovandolo eccezionalmente adulto, calcolando che non aveva ancora sedici anni: “Hai già la barba...” gli sussurrò, avvertendo sotto le dita la pelle del suo volto più pungente di quanto si fosse aspettata.

Il ragazzo arrossì violentemente e fece un breve cenno d'assenso, senza riuscire a dire nulla, ancora troppo scosso e commosso dall'aver di nuovo la madre davanti a sé.

Rispettando il suo imbarazzo, e in parte condividendolo, dato che, malgrado il forte affetto che li legava, entrambi faticavano a dimostrarselo apertamente, la Leonessa passò oltre e guardò con interesse Sforzino. Nell'arco di un mese avrebbe compiuto quattordici anni, eppure il suo volto pieno e paffuto sembrava quello di un bambino. Non era molto alto, ed era chiaro che in quell'ultimo anno e mezzo non avesse lesinato sui pasti abbondanti. In un certo senso, alla madre ricordava il fratello Ermes, e tanto le bastava per sentirlo ancora di più una parte di sé.

Alla fine, mentre alle loro spalle sia gli accompagnatori della Sforza, sia quelli dei ragazzi, li raggiungevano, la donna si decise a rivolgersi ai suoi due figli maggiori.

Dapprima guardò Cesare. Si sorprese e non poco, nel vedere i suoi occhi, incavati e spalancati come sempre, umidi di lacrime. Non stava piangendo, ma si era comunque emozionato in una qualche misura. I suoi abiti, ormai troppo seri per farlo sembrare solo l'imitazione di un religioso, le ricordarono la sua carica e il percorso che a Roma era già stato tracciato per lui. Aveva quasi ventun anni, era un uomo.

Non riuscendo a fare di più, gli prese entrambe le mani con le sue e le strinse con forza. Il giovane ricambiò quel gesto e schiuse le labbra sottili per dire qualcosa. Quando la gola gli si strinse in una morsa di spilli, però, scosse appena il capo e non disse nulla.

Caterina aveva capito che in quelle parole inespresse c'era una dichiarazione d'affetto di suo figlio, in quel momento ancora un cucciolo, un qualcosa di ben diverso dal giovane uomo rigido e serioso che pretendeva di essere.

Non appena gli lasciò le mani, la Leonessa si dedicò a Ottaviano. Il ventiduenne la guardava di sottecchi, quasi ne avesse paura. Entrambi stavano ripensando a tutto quello che era intercorso tra loro e che, non sempre per loro colpa, li aveva divisi sempre di più, fino a farli diventare due estranei, se non addirittura due nemici.

“Adesso va tutto bene.” disse piano la Sforza, appoggiando una mano sulla spalla del figlio.

Il Riario, a quel punto, come schiacciato dal peso di quel gesto, scoppiò a piangere senza ritegno e, serrando con forza gli occhi, accettò l'abbraccio della madre. Alla Tigre pesò molto, stringere a sé quel figlio che era arrivata perfino a desiderare morto, però non si tirò indietro. Non voleva più guerre, in casa sua: mai più.

“Bianca e Giovannino sono al palazzo della Scali.” disse Galeazzo, non appena la madre si fu allontanata da Ottaviano: “Vi aspettano.”

“Andiamo, allora.” soffiò Caterina, che non vedeva più l'ora di riabbracciare anche la sua unica figlia e il suo ultimogenito.

“Prima dovete cambiarvi.” riprese il ragazzo, che, tra tutti i fratelli, seppur altrettanto frastornato, pareva l'unico ad avere ancora ben presente in testa il piano iniziale: “Il vostro ingresso a Firenze non passerà inosservato. Non potete farvi vedere vestita a quel modo, se...”

La Leonessa si diede uno sguardo rapido e annuì: “Non posso entrare in città vestita da uomo, se non voglio che la Signoria trovi subito un modo per scaricarmi...”

“Vi abbiamo portato degli abiti.” riprese Galeazzo, che, pur non essendo il maggiore dei Riario, si comportava proprio come se lo fosse, scavalcando senza trovare alcuna resistenza sia Cesare, sia Ottaviano, che ancora stava piangendo come una fontana: “Ce li ha prestati Madonna Scali. Non sapevamo se la taglia potesse andare bene...”

Il figlio stava squadrando la madre con occhio nuovo. Dopo un primo momento di sollievo assoluto e acritico, infatti, ora si rendeva conto di quanto la Tigre fosse deperita. Smagrita, più lenta, dal viso incavato e dalle forme più spigolose... Era una donna molto diversa da quella a cui aveva detto addio più di un anno prima a Forlì.

“Va bene, datemi quello che devo indossare e lo indosserò. Se mi starà largo, significherà che Firenze mi vedrà con addosso un abito largo, ma comunque viva. È questo che conta.” sorrise la donna.

Galeazzo le spiegò che a breve distanza da lì c'era un piccolo avamposto fortificato in cui avrebbe potuto cambiarsi tranquillamente. Detto ciò, risalirono tutti in sella. I francesi parlarono per qualche istante con le guardie che scortavano i figli della Tigre, e decisero che li avrebbero seguiti, ma a distanza, entrando poi in città in un secondo momento, per non attirare troppo l'attenzione su di sé.

Apparve chiaro, infatti – per quanto la Sforza e i suoi accompagnatori ne fossero stati all'oscuro fino a quel momento – che la Signoria non solo sapesse che Caterina era in procinto di arrivare, ma che, addirittura, fosse convinta che la donna avesse fatto quel viaggio con il benestare e la protezione del papa. Far notare troppo, quindi, la presenza dei soldati d'Oltralpe, avrebbe potuto in qualche modo complicare le cose.

La Leonessa si disse d'accordo e seguì i figli verso l'avamposto che le avevano nominato. Non sapeva cosa dire loro e anche i ragazzi tacevano. Era stato tanto e così difficile il tempo trascorso lontano, che le parole sembravano del tutto superflue.

Gli abiti di Alessandra Scali, tutto sommato, stavano abbastanza bene alla Tigre. Per fortuna si trattava di un vestito poco pretenzioso, e molto accollato. Quelle due qualità le permettevano di sentirsi più a suo agio del previsto, perché non la rendevano troppo appariscente e, allo stesso modo, non mortificavano ulteriormente il suo corpo patito.

L'unico capo d'abbigliamento a cui non volle rinunciare per nessun motivo, furono gli stivali di cuoio che aveva indossato per tutto il viaggio. Le erano comodi, e la facevano sentire a suo agio: non se ne sarebbe privata per una mera questione di etichetta.

Rimessasi in sella, con Galeazzo alla sua destra, Bernardino alla sinistra e tutti gli altri alle sue spalle, la donna si lasciò guidare verso le mura di Firenze.

Attraversarono Porta Romana, e bastò una parola dei suoi figli per far sì che i soldati di guardia non li fermassero. Il passo tranquillo del baio della Sforza batteva sulle lastre che serpeggiavano nelle vie strette e ombreggiate della città. L'aria, per quanto in realtà viziata dagli effluvi delle botteghe, delle osterie e delle case, a Caterina sembrava fresca e dissetante come acqua sorgiva.

Avevano passata la via dei Guicciardini, erano saliti sul Ponte Vecchio, e da lì imboccarono via Por Santa Maria. Volsero poi per la Vacchereccia, entrando in Piazza dei Signori.

Caterina si rendeva conto che molti occhi erano puntati su di lei e che qualcuno parlottava indicandola. Le sembrava strano essere stata riconosciuta, e pensò fosse più probabile che l'attenzione che stava suscitando fosse più legata al drappello di persone che la seguivano, che non alla sua identità.

Cercò di non curarsi degli sguardi indiscreti, e seguì Galeazzo e Bernardino, mentre accostavano il palazzo della Signoria. Ricordava bene il profilo rigido di quell'edificio. La prima volta l'aveva visto da bambina, quando era stata a Firenze con suo padre. Poi, senza volerlo davvero, l'aveva dimenticato per anni. Era tornato ad avere forma, nella sua mente, solo quando vi si era presentata all'inizio della guerra con il Valentino, per mettere in guardia i fiorentini. Con il senno di poi, aveva commesso un errore di valutazione: i Signori di Firenze erano stati più furbi, o forse solo più servili, di lei, e se lei era caduta rovinosamente sotto i cannoni del Borja, loro si erano solo inginocchiati alle parole di re Luigi.

Lasciandosi alle spalle la piazza, il piccolo corteo passò sotto le finestre delle case dei Gondi, fino al palazzo del Podestà.

La Leonessa si accorse di non conoscere i posti in cui si avventurarono di lì in poi. La via del Proconsolo, il Borgo degli Albizi, il quartiere popolato dalle dimore dei Pazzi e dei Da Filicaia erano per lei un insieme confuso di vicoli e strade più ampie, mescolati a piccoli slarghi che congiungevano un lastricato all'altro.

“Siamo quasi a Borgo Pinti.” la informò a un certo punto Galeazzo: “La casa di Madonna Alessandra è lì.”

La Sforza sentì il cuore pulsare con forza nel suo petto. Non sentiva nemmeno più la stanchezza, e il ciondolare del suo cavallo non le dava più noia. Ormai aveva solo voglia di riabbracciare Bianca e di vedere quanto fosse cresciuto il suo Giovannino. Tutte le tribolazioni del corpo, in confronto a quel bisogno, erano secondarie.

Non ci fu bisogno di dirle quale fosse di preciso, il palazzo della Scali. Caterina scorse subito un movimento dietro una delle finestre e poi, quando vide aprirsi il portone, riconobbe all'istante i capelli biondi, lunghi e sciolti, di sua figlia Bianca.

Senza attendere un cenno da Galeazzo o da nessun altro, la Tigre incitò il proprio cavallo ad accelerare e nell'arco di qualche falcata si trovò davanti alla ragazza.

Bianca aveva quasi vent'anni, ormai. Era alta, florida, e il suo volto, Caterina lo notò subito, con una punta di malinconia, ricordava molto più di prima quello di sua nonna Lucrezia.

Gli occhi verdi della Sforza, dopo essere passati sulla figura della ragazza, vennero calamitati da un'altra presenza: tra le braccia della giovane, con la piccola bocca chiusa in un'espressione seria e gli occhi dalle iridi color pece spalancati, c'era Giovannino.

Prima ancora che la madre dicesse qualcosa, la Riario le porse il bambino, di tre anni, senza attendere che la donna smontasse di sella. Sotto lo sguardo curioso di alcuni fiorentini che erano per strada, sporgendosi in avanti, la Leonessa afferrò il suo ultimogenito, che ancora la fissava attonito.

Lo strinse a sé e, nel momento esatto in cui lo fece, Giovannino si mise a piangere in silenzio. Era confuso, sapeva che quella era sua madre, e, adesso che ne sentiva il calore, gli sembrava di ricordarla. Tuttavia, l'unica cosa di cui era certo era il presente e quell'odore rassicurante che gli riempiva le narici e quelle braccia sicure che lo tenevano stretto erano le uniche cose che gli importavano.

“Sei cresciuto così tanto...” disse piano la donna, accarezzando lentamente la testa del figlio.

Il piccolo Medici, in tutta risposta, non trattenne più i singhiozzi, vinto da una forza che nemmeno lui capiva, e rimase contro la madre finché non fu lei ad allontanarlo un po' da sé.

“Bianca, ti prego, aiutami...” fece Caterina, dopo aver dato ancora un bacio sulla fronte al bambino, facendo capire alla ragazza di riprenderlo, in modo che lei potesse smontare di sella.

Dopo essersi fatta restituire il fratellino, la giovane lo lasciò subito, permettendogli di correre dentro casa. Anche se era felice di rivedere la madre, Giovannino era un po' spaventato. Il fatto di non ricordarsela bene, lo stava confondendo e così, scegliendo la via più facile per un bambino di tre anni, era andato a cercare un posto tranquillo dove calmarsi.

La Tigre, guardando il figlio correre via e sentendosi orgogliosa del suo aspetto vivace e sano, lasciò le redini del suo cavallo a Galeazzo, che nel frattempo l'aveva raggiunta, e si rivolse a Bianca.

“Grazie.” soffiò, sottintendendo la sua riconoscenza per tantissime cose, in primis proprio per lo stato di salute perfetto in cui si trovava il suo ultimogenito.

La Riario scosse il capo, come a dirle che non era necessario ringraziarla, senza riuscire a dire nulla, la gola stretta da un nodo di commozione e felicità. Anche se la madre le sembrava patita e invecchiata, era comunque lì davanti a lei, viva. Quel fatto, solo qualche mese prima, le sarebbe sembrato un sogno a occhi aperti.

Gettandole le braccia al collo, Bianca strinse a sé la madre con forza, quasi sorprendendola. La Leonessa la lasciò fare, ricambiando quel gesto colmo d'amore come meglio poteva.

“Adesso venite... Vorrete riposare...” fece la ragazza, indicandole la porta spalancata.

“Mi pareva che fossimo rimaste d'accordo di darci del tu, come facevamo io e tua nonna.” le ricordò la Sforza, che aveva ben impresso in mente il momento in cui aveva chiesto alla figlia di fare così, tanto tempo addietro.

Anche Bianca pareva rammentarlo, e, ricacciando indietro qualche lacrima, annuì: “Vieni, ti farò preparare un bagno caldo e...”

“Prima voglio incontrare Madonna Scali.” la interruppe Caterina, che pure non avrebbe desiderato altro che il tenero abbraccio di un bagno caldo e il sincero ristoro di un po' di cibo ben cucinato.

La Riario aveva immaginato, pensando a sua madre così come se la ricordava, che quella sarebbe stata una delle sue prime richieste. Vedere che la Tigre del presente rispecchiava almeno in quello ciò che era stata la Tigre del passato la rincuorò parecchio.

“Certo...” disse la giovane, mentre i fratelli e le guardie cominciavano a organizzarsi per sistemare i cavalli e rientrare a palazzo: “La troverai nel salone assieme a messer Fortunati, faccio strada...”

“Fortunati è qui?” domandò la donna, seguendo la figlia.

Il tono della sua domanda era palese: si chiedeva come mai il piovano non fosse rimasto sulla porta come Bianca per salutarla al suo arrivo.

“Ha detto – spiegò la Riario, intuendo facilmente i pensieri della Leonessa – che voleva prima lasciarti il tempo di riabbracciare la famiglia, che tanto ci sarà modo anche dopo per parlare di politica e guerra...”

La donna ripensò un attimo agli sguardi curiosi che, sulla via, qualche fiorentino le aveva rivolto, in particolare proprio quando era stata lì, davanti al palazzo della Scali. In quell'ottica, capiva di più la scelta di Francesco. Non si trattava solo di una gentilezza nei suoi confronti, per quanto il piovano fosse davvero un uomo accorto e premuroso, ma anche di un modo per preservare se stesso.

In tutti quei mesi Fortunati aveva potuto lavorare in sottofondo, diventando forse cruciale nella sua liberazione. Se voleva continuare a essere così libero di muoversi, almeno nei primi tempi, doveva per forza impedire che Firenze lo collegasse troppo a lei e, paradossalmente, agli occhi dell'opinione pubblica era più importante un saluto sul portone di casa che non interi carteggi atti a farla liberare.

“Il salone è lì avanti...” indicò la ragazza, quando furono quasi arrivate.

Caterina apprezzò la discrezione che Bianca sapeva dimostrare, nel lasciarle, di fatto, scegliere se venire accompagnata fino a destinazione o meno.

“Grazie.” le sorrise: “Vado da sola.”

La Riario guardò la madre avanzare verso il salone. Indossava un abito non suo, questo era chiaro, e si notava soprattutto dall'orlo delle sottane: la Tigre era parecchio più alta di Madonna Scali e quella differenza lasciava scoperta buona parte degli stivali di cuoio che la Sforza portava.

Quel dettaglio – le gonne troppo corte e dei calzari maschili che facevano capolino appena sotto di esse – secondo Bianca incarnava alle perfezione ciò che era sua madre.

La osservò con attenzione. Il suo passo era molto meno svelto di un tempo e aveva un che di claudicante. Sapeva che, durante l'ultima battaglia, era stata ferita dai francesi proprio a una gamba... Magari quella lievissima zoppia era dovuta a quello.

Aveva le spalle larghe, ma il suo fisico era scarno. I suoi capelli, completamente bianchi e sfibrati, le ricadevano sulla schiena come le dita sottili di un fantasma.

Vista da dietro, insomma, sembrava molto più anziana di quanto non fosse. Trentotto anni non era un'età eccessivamente avanzata, per una donna, eppure, da lì a Bianca sembrava fragile come un fuscello.

Appena prima di arrivare alla porta del salone, la Leonessa si voltò un attimo, cercando la figlia con lo sguardo. Quando i suoi occhi verdi incrociarono quelli blu scuro della ragazza, il suo volto venne attraversato da un sorriso tranquillo, un sorriso che la Riario ricordava di aver visto a stento sul volto della madre, in passato.

Ricambiandolo, la giovane le fece un brevissimo cenno del capo, quasi a incoraggiarla, e poi, con un sospiro, la guardò entrare nel salone.

Rimasta sola, benché i rumori della casa tutt'attorno a lei rendessero vivo il palazzo, Bianca si appoggiò un momento alla parete. Solo ora si rendeva conto di quanto il cuore le battesse veloce e di quanto i suoi occhi bruciassero per il pianto non sfogato.

Colta da un irrefrenabile singhiozzo, la Riario si accucciò e si mise a piangere scompostamente.

Ciò per cui aveva pregato durante il suo soggiorno forzoso alle Murate finalmente si era avverato: sua madre Caterina era arrivata a Firenze, viva libera.

Asciugandosi gli occhi con il dorso della mano, Bianca cercò di ritrovare il controllo di sé. Aveva la gola in fiamme e il naso gonfio per il pianto, ma si sentiva bene, anzi, benissimo. In un solo giorno sentiva di aver recuperato la speranza e la fiducia nella vita.

Con un sospiro ancora un po' tremulo, decise di darsi da fare e, senza darsi pena di mostrare a tutti quanto si fosse commossa, prima di correre nelle cucine, andò a cercare Galeazzo, chiedendogli, non appena lo vide: “Erano poi arrivate quelle scorte di vino nero di Fortunago che avevi chiesto di comprare..?”

   
 
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