Equinox
- 2 -
Riuniti
L’aereo stava rollando sulla
pista. Meredith, all’ultimo momento, era riuscita a fare avere ad Abigail un posto poco più avanti dell’ala dell’aereo. Era
sempre stata così premurosa con lei, ma nell’ultima settimana molte cose erano
cambiate nella vita della ragazza, forse troppe.
Abigail era sempre stata una
ragazza forte, caratteristica che indubbiamente aveva acquisito da sua madre
Helen, ma da una settimana a quella parte tutto il suo mondo era crollato. Non
si era mai sentita cosi sola ed indifesa. Ora era lì, seduta su quell’enorme
aereo, diretta in un posto sconosciuto per cercare un uomo di cui non sapeva
quasi niente, se non le poche righe che sua madre, molti anni prima, le aveva
scritto in una lettera. Una lettera che doveva essere consegnata solo alla sua
morte. Così era stato.
Una lacrima sgorgò da quegli intensi occhi grigi,
mentre lo sguardo era perso fuori dall’oblò. La terra si allontanava, ma non
tratteneva con sé la tristezza ed il dolore.
Nella lettera, sua madre raccontava ad Abigail, come da giovane si fosse invaghita di un uomo e
come, in una sera diversa dalle altre, avessero fatto assieme una pazzia.
Quando Helen scoprì che, nonostante tutto quello che aveva passato, lui non si
sentiva di lasciare la moglie e il giovane figlio, abbandonò tutto per
andarsene il più lontano possibile da quell’uomo. Solo in seguito scoprì di
essere in dolce attesa di Abigail.
Decise di tenere quel bambino, il frutto di un
sentimento così forte. Almeno da parte sua.
Nell’ultima settimana non aveva fatto altro che
ripensare a quella lettera e, immancabilmente, ogni volta l’assaliva un
singhiozzo strozzato.
Lei e sua madre erano sempre state sole, ma erano
sempre state felici così. Traslocavano spesso per il lavoro di Helen, ma non
era un problema per Abigail. In sedici anni aveva
vissuto a Los Angeles, New York, Firenze, Strasburgo, Londra e per ultimo a
Tokyo. La sua vita era stata un’avventura, anche ora lo era! Prese un profondo
respiro nel tentativo di calmarsi e ricacciare indietro il fiume di lacrime,
che sembrava non esaurirsi mai.
“Signorina, va tutto bene?”
Chiese l’hostess con un mezzo sorriso e uno
sguardo ansioso.
Abigail annuì cercando di essere
credibile, un sorriso appena abbozzato le solcò qualche istante il viso.
“Sì, nessun problema. Grazie.”
Dopo averle lanciato un’ultima occhiata
preoccupata, l’hostess si diresse verso il suo posto. Sicuramente Meredith
aveva parlato con qualcuno all’aereoporto, in modo
che la tenessero d’occhio per tutto il viaggio.
Sbuffò stizzita, Meredith era stata una buona
amica di famiglia negli ultimi anni a Tokyo, ma ora non poteva più fare altro
se non metterla su quell’aereo e continuare
trattarla come una ragazzina qualunque.
Quando la sua sveglia suonò, Gabriel era già in
piedi da circa mezz’ora e aveva appena finito di rifare il letto. Ora di fronte all’armadio aprì malamente
un’anta per scegliere cosa mettersi, quando un’ondata di vestiti scuri lo
travolse.
Gabriel era un vero amante della musica di ogni
genere, anche se il rock era il suo prediletto. La sua camera, infatti
rispecchiava questo stile. Le pareti erano completamente coperte da scaffali
pieni di CD, gruppi del passato e del presente.
Qualche anno prima era andato in disibilio nel aver
trovato dei vecchi dischi in un mercatino dell’usato e ora li teneva con grande
cura, come se fossero dei tesori veri e propri; così la sua modesta stanza
mansardata sembrava ancora più piccola di quello che era. Aveva il letto
proprio dove il muro diventava più basso e spesso aveva finito per sbatterci la
testa violentemente, soprattutto la mattina quando si svegliava. Ci volle del
tempo per abituarsi e la sua statura non gli era di certo d’aiuto. Non per
nulla era un giocatore di basket! Dopo essersi infilato al volo dei jeans
scuri, aprì il lucernaio per far prendere aria alla stanza, infine voltandosi a
guardare intorno gli occhi si soffermarono sulla foto sorridente di sua madre e
lui da piccolo. Erano tifosi sfegatati di basket e quando divenne titolare e
successivamente capitano della squadra della scuola si ricordò che fu il suo
orgoglio. Il suo coach gli aveva confidato che quest’anno con l’arrivo degli
osservatori del college si sarebbe assicurato molto probabilmente la borsa di
studio per lo sport. Ma come spesso accade il destino a volte sembra avere
altri piani.
Finì con calma di vestirsi continuando l’opera
allo specchio: una sistemata veloce ai capelli biondissimi tagliati molto corti
e un tocco di gel per finire. Il basket
gli aveva assicurato popolarità e particolare successo tra le ragazze, a
dispetto di qualche sua stranezza. Non era un brutto ragazzo, oltre all’altezza
aveva il fisico scolpito dall’attività fisica; gli occhi erano scuri e profondi
e la pelle sembrava perennemente abbronzata. Nonostante ciò non aveva mai avuto
una ragazza fissa, solo piccole avventure.
Quando Gabriel scese al
piano di sotto, andando verso la cucina scorse il padre intento a bersi un
caffè, rigorosamente ristretto. Gli arrivò alle sue spalle, silenzioso e
furtivo, cercando di recuperare la sua tazza preferita senza essere visto.
Appena fu troppo vicino, però, il padre accorgendosi della sua presenza, finì
per spaventarsi saltando di scattò sulla sedia dopo essersi scottato con il suo
caffè.
“Nervoso per oggi?”
Chiese divertito
guardandolo dritto in volto dirigendosi poi verso il frigorifero a tirare fuori
un cartone del latte per versarlo abbondantemente nella tazza, osservando suo
padre che si ricomponeva asciugando il caffè versato.
Lo vide scuotere il
viso senza dire una parola, d’altro canto non che lui non lo fosse, la notizia
dell’arrivo di quella ragazzina nonché sua sorellastra era stata una vera
doccia fredda.
Ci aveva messo davvero
tanto a perdonare suo padre per quello, sua madre ormai era morta da cinque
anni, ma era ancora una ferita aperta soprattutto perché suo padre non aveva
mai detto che aveva avuto una relazione. Lui lo sapeva solo da poche settimane
e seppur, a differenza dell’inizio, non spariva più di casa per giorni e non
gli urlava contro, faceva ancora fatica a perdonarlo, anche se i loro rapporti
si erano decisamente distesi.
Quindi uscì dalla
cucina avviandosi verso l’ingresso dove aveva già preparato i suoi libri e le
chiavi della macchina. Uscì dalla porta sul retro con un sospiro rassegnato.
Non poteva evitare quella situazione, quindi prima o poi avrebbe dovuto
arrendersi, ma ora doveva solo sbrigarsi. Era già abbastanza in ritardo per la
scuola.
Il viaggio era stato lungo e movimentato, avevano
incontrato una perturbazione, ma nulla di veramente impressionante come quell’anno
che lei e Helen erano andate in India.
Abigail era tremendamente
affamata, dopo aver aspettato per quasi un’ora le sue valigie, ora era seduta
ad un bar dell’aeroporto in attesa di un cappuccino e brioche, per alleviare i
morsi della fame.
Tutti la stavano guardavano. Cercò di non farci
caso, alla fine era abituata a quelle attenzioni verso di se. Viaggiando così
tanto aveva capito che la gente era molto attratta dal mistero, anche se a
volte era più l’immaginazione, che altro a guidarle.
Del resto, ora la gente, vedeva una ragazza di
sedici anni, seduta al bar apparentemente da sola con due enormi valigie. Era
snella, ma non molto slanciata, occhi grigi come perle, con sguardo
incredibilmente intelligente e vivace, capelli biondissimi che cerchiavano un
viso serio e già con fattezze adulte. Per il viaggio aveva optato per dei
vestiti comodi, era un vero maschiaccio sia nei miei modi di essere
sia in quelli di vestire, seppur in quello era stata influenzata dal passato di
sua madre e così i colori smorzati e tenui non mancavano mai addosso a lei.
Intelligente più che mai, era una ragazza con un
profondo senso della giustizia e un carattere irrequieto e pepato, non permetteva a nessuno di metterle i piedi in testa.
Si passò una mano tra i capelli scompigliandoli un
po’, mentre alzò lo sguardo per vedere l’orario vicino al tabellone dei voli.
Erano quasi le dieci e mezzo del mattino. Finì in fretta il suo cappuccino e
prendendo le valigie le trascinò verso l’uscita principale, ancora poco e
sarebbe arrivato il mezzo di trasporto che Meredith aveva prenotato per
portarla alla sua nuova casa.
Rimase ad aspettare sotto la tettoia, il sole era
nascosto da nuvole scure, l’aria era molto più fredda di come lo era in
Giappone alla sua partenza. Non dovette aspettare molto. Una Mercedes berlina
blu scura si fermò proprio davanti a lei, anche se la corsia era adibita solo
ai taxi. Un uomo spense il motore e scese, andandole incontro.
“Buon giorno e ben arrivata, signorina Abigail!”
La salutò con un sorriso aperto e offrendosi di
prenderle le valigie.
Abigail lo studiò con attenzione,
mentre lui metteva i bagagli nel baule. Era abbastanza giovane, avrà avuto
trent’anni, era biondo e con il viso curato, vestito bene, con un completo
scuro, camicia e cravatta. Decisamente non sembrava un tassista, neanche di
quelli privati.
Sobbalzò quando lui chiuse il baule e le rivolse
un altro sorriso aprendole la portiera posteriore per
invitarla a salire.
Lei gli rispose con una certa titubanza, ma ubbidì
e prese posto.
Gabriel arrivò a piedi davanti all’edificio in
mattoni rossi. Ogni mattina se la faceva sempre a piedi, suo padre non aveva
ancora voluto prendergli una macchina e per orgoglio lui si rifiutava di
rendere ancora il pullman come i ragazzi del primo anno. Guardando il lato
positivo, cosi era sempre in movimento, non c’era il rischio che perdesse la
sua forma atletica.
Pensando a quello però non sapeva se riderne o
piangerne. Del resto andava ancora bene quando c’era bel tempo, ma quando, come
quella giorno, il tempo non sembrava voler seguire le regole di stagione, la
cosa non era molto invitante.
Sfregandosi un po’ le mani per scaldarle si avviò
verso l’entrata salutando qua e là dei ragazzi che conosceva, anche se la
maggior parte non sapeva neanche come si chiamavano. Accelerò il passo quando
entrando sentì subito suonare la campanella. Come sempre era arrivato per un
soffio in orario.
Il tratto in macchina non era stato molto lungo
per fortuna. L’uomo per quanto continuasse a sorriderle non era certo di molte
parole! Si fermarono davanti ad una casa come tante, il quartiere sembrava
tranquillo, ma forse era solo un impressione. Del resto era quasi mezzogiorno,
i ragazzi erano a scuola e la maggior parte degli adulti a lavoro. L’uomo
misterioso scese e venne ad aprirle la portiera come aveva fatto prima, scaricò
il baule, mentre Abigail rimaneva sul marciapiede a
fissare stranita la casa di fronte a lei.
Stando lì, si rese conto che la sua vita stava
cambiando radicalmente. Non perché si era trasferita ancora, ma perché lì
avrebbe messo finalmente radici. Avrebbe potuto avere finalmente una famiglia,
degli amici, cose che fino a quel momento non aveva avuto o almeno non nel
senso che intendevano tutti i suoi coetanei. Finora non aveva una casa che non
continuasse a cambiare ogni tre o quattro anni, aveva una famiglia composta
solo da sua madre e degli amici che condividevano solo un breve tratto della
sua vita.
Sospirò nervosa. Le paure cominciavano ad
assalirla, anche se con qualche ritardo. La paura di angosciare quell’uomo che
avrebbe dovuto essere suo padre. Di lei non sapeva niente, in tutti quegli anni
era andato avanti per la sua strada facendosi una famiglia e ora arrivava lei a
stravolgere anche il suo di mondo.
Con una mano l’uomo chiuse il baule e andò alla
porta a suonare il campanello, poi si girò verso la ragazza e le rivolse un
altro dei strani sorrisi.
Abigail lo fissò ancora ferma sul
marciapiede. Perché nessuno veniva ad aprire la porta? Lui avrebbe dovuto
esserci in casa! Possibile che fosse uscito perché non la voleva?
Scossa la testa con decisione. Doveva smettere di
lasciar vagare in quel modo la sua fantasia. Va bene tutto, però se lui non
fosse venuto ad aprire, lei che cosa avrebbe fatto? Ora era completamente sola!
Scosse di nuovo la testa. No! Non doveva cedere a quel modo, qualcosa avrebbe
inventato, così cominciò facendo un passo verso la porta.