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Autore: Elsira    12/03/2021    1 recensioni
Gli antichi greci credevano che un tempo l’essere umano fosse un essere perfetto e, soprattutto, completo. Era formato da quattro braccia, quattro gambe, due volti. Ma un giorno, Zeus, temendo la perfezione umana, lo divise in due, rendendolo così imperfetto… Incompleto. Da quel momento, l’uomo cerca disperatamente la sua metà, per tentare di tornare al suo stato originario. Per tornare a essere completo.
Questa è la storia di Camilla e di Arkin, e del loro tentativo di metterla in tasca a Zeus.
Quand'ero piccola, mio padre e mio nonno mi dicevano sempre che non c'era nulla che non potesse essere risolto. Ci si può ammalare, si può perdere il lavoro, si può litigare con una persona cara... Ma le malattie si curano, i soldi si riguadagnano, i rapporti si ricuciono. A tutto c'è rimedio, tutto può essere affrontato serenamente e superato. Tutto. Tranne la Morte.
E come tutte le mie storie, anche questa comincia ad essere interessante dalla metà in poi. Giusto per non far perdere tempo.
Genere: Angst, Commedia, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate | Contesto: Contesto generale/vago
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Non Scritto.

 
 

«Stjerne, cosa fai?» Le labbra di Arkin mi sfiorano morbide il collo scoperto, la sua barba mi fa appena il solletico, mentre mi volto verso di lui con un sorriso fanciullesco. «La colazione è pronta, non vorrai farla freddare.»

«Niente, ora arrivo.»

Mi guarda negli occhi qualche secondo, poi torna eretto ed esce dal mio studio, dicendo semplicemente: «Ti aspetto giù.»

A volte mi sento completamente nuda di fronte a lui e a quelle gemme, vulnerabile come fossi ancora una bambina. Mi scrutano, mi capiscono, comprendono tutto di me ancor prima che io possa dire qualcosa. E lo stesso vale all'inverso: so bene che ha perfettamente capito cosa sto facendo, so che il suo atteggiamento disinteressato è in realtà un modo per nascondere la trepidazione di vedere il mio nuovo lavoro completo.

Poso il pennello e mi alzo, indosso la vestaglia e scendo le scale, fermandomi un attimo a osservare la tavola da pranzo alla mia destra colma di quelle che a cose normali sarebbero squisite cibarie e bevande, ma che al momento mi fanno montare la nausea solo a sapere che sono lì.

Volto a sinistra e mi metto seduta sul divano del salone, chiudendo gli occhi e cercando di pensare a un modo per farmi venire fame.

«Mademoiselle.» La voce di Arkin mi fa voltare verso di lui, tornando al presente.

«Non credi di aver esagerato con la colazione?» Chiedo, fingendo un sorriso, mentre lui mi scruta di nuovo con quei due zaffiri. Si siede accanto a me, sul bracciolo, e mi porge un bicchiere colmo di spremuta d’arancia appena fatta, rispondendo sincero: «Assolutamente no. È lo stretto necessario, se ti va qualcosa che non c’è, dimmelo che lo vado a compr-» Lo interrompo, posando la mia mano sulla sua e abbassandogliela, con il risultato che lui mi guarda preoccupato. «Arkin… Puoi per favore smettere di trattarmi così? Non sono malata, sono solo incinta.»

Lo vedo abbassare lo sguardo e storgere leggermente le labbra in un’espressione di non gradimento. Comprendo il motivo di questo suo atteggiamento quasi assillante: durante l’ultima gravidanza sono stata a un passo dal perdere il bambino perché non mangiavo nulla, ero arrivata al punto che avevo saltato talmente tanti pasti che il mio corpo si era dimenticato di come fosse mangiare tre volte al giorno. So che questo mio atteggiamento è sbagliato, lo so benissimo. Ma in gravidanza la nausea del primo semestre è spesso talmente forte che perdo completamente appetito, faccio fatica a mangiare qualsiasi cosa, anche se so che è sbagliato. Una parte di me ha sempre ammirato quelle donne che, in gravidanza, dormono 20 ore al giorno, come Elsa.

Io ho rischiato grosso, non solo per la mia salute ma anche per quella di mio figlio. Ne sono pienamente consapevole.

Poggio la testa sulla sua spalla, sorridendo tranquilla. «Ti ringrazio per tutto quello che fai, ma non c’è bisogno di tutto questo. Sto mangiando regolare stavolta, tranquillo.»

«Voglio che tu stia bene.»

«Io sto bene.»

«Voglio farti stare ancora meglio.»

Mi scappa un sorriso. Sì, è sempre lo stesso, non importa quanto tempo possa passare, Arkin è sempre il solito.

Percepisco la sua mano accarezzarmi i capelli e con essi parte della schiena, lo lascio fare e mi godo la sensazione del suo tocco leggero per un momento, prima che veniamo interrotti dal bimbo di quasi due anni che ci chiama per aprire il cancello in cima alle scale.

Arkin si alza e si dirige da nostro figlio con un sorriso, dandogli il buongiorno e scendendo con lui per mano. Appena arrivato al piano terra, il piccolo mi corre incontro e mi salta in collo, schioccandomi un sonoro bacio sulla guancia. «God morgen mamma! (Buongiorno mammina!)»

«God morgen min kjære, sov du godt? (Buongiorno tesoro mio, dormito bene?)»

Lui annuisce energico, poi fa l’espressione classica di chi si è appena ricordato una cosa importante e scende dalle mie gambe: si mette le manine a cono per tapparsi la bocca e inizia a parlare alla mia pancia, ancora relativamente piatta. Quando ha finito, Arkin gli chiede: «Lille krigeren, er alt okei? (Piccolo guerriero, tutto bene?)»

«Ja. Jeg ønsket å fortelle min søster at det er morgen, selv om det er stjerner på himmelen. (Sì. Volevo dire a mia sorella che è mattina, anche se in cielo ci sono le stelle.)»

Io e Arkin ci scambiamo un’occhiata confusa, oltretutto visto che il sesso del bebé è ancora ignoto, poi però, vedendo l’espressione orgogliosa di nostro figlio, sorridiamo anche noi e mio marito si china poggiando le mani sulle cosce, in modo da arrivare all’altezza del piccolo. «Lille krigeren, vet du hva helter gjør hver morgen for å være sterk og klar til å redde verden? (Piccolo guerriero, lo sai cosa fanno gli eroi ogni mattina per essere forti e proteggere il mondo?)»

«Frokost! (Colazione!)» Esulta il bimbo, alzando le braccia al cielo, facendomi scappare un riso.

«Vel, alle ved bordet da, kraft! (Bene, tutti a tavola allora, forza!)» Lo incita Arkin, dirigendosi verso l’altra stanza.

«Mamma også! (Anche mammina!)» Esclama il piccolo, abbracciando una mia gamba. Suo padre coglie la palla al balzo, esclamando furbo: «Selvfølgelig kommer mor også, hun må mate lillesøsteren din også. O bror. (Certo che viene anche mamma, deve dare da mangiare anche alla tua sorellina. O fratello.)» Non posso fare a meno di sospirare, ammettendo silenziosamente la sconfitta, quando mio figlio mi prende la mano e mi tira verso il tavolo da pranzo, esclamando: «Kom mamma, min søster å spise! (Mamma muoviti, mia sorella deve mangiare!)»

«Kommer, kommer… (Arrivo, arrivo…)» Sospiro ridendo, mentre vedo Arkin mostrarmi la punta della lingua vittorioso e dispettoso, con l’espressione da schiaffi migliore del suo repertorio.

Una volta giunti in sala da pranzo, ci mettiamo ognuno al proprio posto e mi ritrovo con un piccolo aspirante guerriero alto novanta centimetri alla mia destra che divora l’abbondante colazione servita dal padre, mangiando composto ma famelico. Vederlo così concentrato sul cibo che ha di fronte, mentre io non ho nessun appetito e solo l’idea di mettere qualcosa in bocca mi fa venire la nausea, mi fa sentire un po’ meglio. 

Di colpo, mi viene in mente ciò che è accaduto poco prima e non posso fare a meno di chiedere: «Min kjære, hva... Hva hvisket du til babyen tidligere? Du vet at det også kan være mann, ikke sant? (Tesoro mio, cosa… Cosa bisbigliavi prima al bebè? Sai che potrebbe anche essere maschio, vero?)»

«Nei nei. Hun er en jente. Onkel fortalte meg det. (No, no. È una femmina. Me lo ha detto lo zio.)»

«Onkel? (Lo zio?)»

Gli sguardi mio e di mio marito si fanno equamente interrogativi, quando nostro figlio indica la foto sul camino alle sue spalle che ritraeva me, Paolo e Arkin da bambini e dice, con il braccio ancora alzato: «I natt drømte jeg onkel, at barnet der. Han sa til å ta vare på mamma og pappa, min søster og lære henne alt jeg vet. Og hvis jeg trenger en skytsengel, å vite at han holder et øye med meg. (Stanotte ho sognato lo zio, quel bambino lì. Mi ha detto di prendermi cura di mamma e papà, di mia sorella e di insegnarle tutto quello che so. E che se ho bisogno di un angelo custode, sapere che lui c’è e mi tiene d’occhio.)» Rimango un attimo stranita da quanto appena detto da mio figlio, ma prima che possa dire qualsiasi cosa, lo sbuffo di Arkin mi precede: «Jeg ble byttet ut med et barn, utenfor troen... (Sono stato scambiato con un bambino, da non credere…)» Lo guardo un attimo turbata, ma riconosco l’espressione dei suoi occhi e mi rilasso subito, sorridendo alla risposta di nostro figlio: «Jeg er en kriger! Jeg trenger onkels beskyttelse mer, jeg må beskytte verden! (Io sono un guerriero! Ho più bisogno io dello zio, io devo proteggere il mondo!)»

Mi scappa una risata, che attrae l’attenzione del bimbo al mio fianco, il quale guarda scettico me e poi il mio piatto, ancora intatto. Prende una fetta di pane cosparsa di marmellata di susine e me la mette alle labbra, decretando con cipiglio serio, con quella sua vocina ancora da angioletto: «Spiiiise! (Maaaangia!)» Sto per rispondere, quando mio marito si allea con lui e mi fa: «Non vorrai mica dare il cattivo esempio, non è vero?»

Scacco matto. Dannazione. 

Prendo la fetta con la marmellata, sfioro la fronte di mio figlio con un bacio e, dopo avergli sussurrato un grazie, do il primo morso.

 
 


Ed è... The End.
Il tempo verbale di quest'ultimo capitolo è stato cambiato al presente deliberatamente. Questo breve epilogo può essere visto in più modi: uno sguardo al futuro/presente, di come sta andando e andrà la storia di Arkin e Cam, oppure come il sogno che fece Cam qualche capitolo fa, quando le venne la crisi di panico al risveglio. 

Lo so che ho detto e ridetto che questo racconto non lo dedico a nessuno se non i suoi personaggi, e non ho intenzione di tornare indietro su questo, però un grazie speciale a chiunque abbia avuto il coraggio di arrivare fin qui, sia durante la pubblicazione che in un futuro prossimo, è doveroso. Dunque, grazie.

Un abbraccio a distanza, vi voglio bene! 
Ci sentiamo alla prossima, dove non so cosa scriverò, ma lo farò (cit). 

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