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Autore: Fiore di Giada    03/09/2021    1 recensioni
[Seguito di "Un ponte tra due cuori" e "Un passo alla volta"]
Come posso aiutarlo?, si chiese il portiere karateka, triste. Forse, avrebbe potuto dormire con lui, per dargli un conforto.
Ma il suo ritegno frenava la sua bocca e gli impediva di porre una simile domanda.
Con lui, Genzo condivideva una natura riservata e non voleva costringerlo a simili contatti.
Doveva però dargli la facoltà di liberare la sua mente, almeno per qualche ora.
Genere: Angst, Hurt/Comfort, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Ed Warner/Ken Wakashimazu, Genzo Wakabayashi/Benji
Note: What if? | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Un lungo grido, come il lamento di un animale morente, esplose nel silenzio dell’abitazione.
Ken, d’istinto, aprì gli occhi e si alzò a sedere sul letto.
Poi, con un gesto deciso, scostò le lenzuola e posò i piedi nudi sul pavimento.
Che cosa era successo? Perché Genzo aveva urlato?
Si era infiltrato un ladro?
Si guardò intorno, cercando qualche arma. Qualsiasi cosa fosse successa, nel suo attuale stato, Genzo non sarebbe stato in grado di difendersi da solo.
Inoltre, c’era la possibilità che un eventuale aggressore fosse armato.
Scorse, posato sulla scrivania, un vaso panciuto, adorno di vivaci motivi colorati su pancia e collo.
Lo prese e, per alcuni istanti, lo guardò. Sarebbe stata una valida arma, ma non poteva lasciare nulla al caso.
Avrebbe dovuto giocarsi bene le sue carte.
Cauto, si avviò verso la porta, la aprì e uscì dalla stanza.

Percorse il corridoio, le orecchie tese a qualsiasi rumore. Non udiva nulla.
Eppure, non si era sognato quell’urlo.
Ne era certo, qualcosa era accaduto.
Genzo era stato ucciso, senza alcuna possibilità di difesa?
Eppure, avrebbe dovuto udire qualche rumore sospetto.
Gli sembrava che nulla avesse senso.

Cauto, posò la mano sulla maniglia dell’uscio della cucina e la aprì.
Lanciò uno sguardo nell’ambiente, vagamente illuminato dalla tenue luce di una lampada. Non gli pareva che ci fossero segni di colluttazione.
L’ambiente era ordinato, come sempre.
Un respiro affannoso, ad un tratto, attirò la sua attenzione e il giovane si girò.
Steso sul divano letto al centro della cucina, Genzo dormiva.
Il suo corpo era teso, come una sbarra d’acciaio, le sue mani si stringevano attorno al lenzuolo in una presa spasmodica, mentre grosse gocce di sudore strisciavano sulle sue guance, pallide d’angoscia.
Di tanto in tanto, i suoi occhi si riaprivano, rivelando pupille vitree, fisse, quasi prive di vita.
Un debole sospiro di sollievo fluì dalle labbra di Ken e il giovane karateka posò il vaso sul tavolo. Per fortuna, non era accaduto nulla.
Nessun ladro era entrato e Genzo non era stato vittima di alcuna violenza fisica.
Poi, la mano dello sconforto strinse il suo cuore. Si era ripetuta la medesima situazione di diverse sere.
Non era cambiato nulla.
Il sonno di Genzo era dilaniato da incubi orrendi e, ne era sicuro, riguardavano i tragici eventi accaduti in Germania.
Pur non avendo alcuna colpa, il suo cuore si macerava nei rimorsi e la stampa, crudele, contribuiva ad esacerbare il suo stato di prostrazione.
Quell’incidente, oltre alla vita del povero Andreas Schumann, si era impadronito dell’esistenza del suo rivale portiere e l’aveva calpestata, ferita, annientata.
Andreas giaceva sotto cinque metri di terra, pianto dai suoi famigliari, mentre Genzo si consumava nella solitudine di uno sperduto villaggio della Romania.
Cercava di tenere lontane le persone a lui care dall’accanimento della stampa e di curare le ferite del suo animo.
Ma quel rimedio si era rivelato peggiore del male.

Esitò, poi posò le mani sulle spalle di Genzo. Doveva riuscire a svegliarlo.
Era doloroso vedere il suo viso, distorto dalla pena.
Stai tranquillo. – affermò Ken, il tono pacato.
Il corpo dell’ex portiere, tuttavia, si agitò, come un epilettico durante una crisi assai violenta, e lunghe lacrime bagnarono le sue guance.
Il karateka, d’istinto, aumentò la pressione delle sue mani. Sentiva una forte compassione per Genzo, ma non doveva perdere la lucidità.
La fermezza gli avrebbe permesso di ottenere il suo obiettivo.
Doveva fargli sentire la sua presenza, affinché potesse emergere dall’oscurità di quel sogno.

Diverso tempo dopo, il corpo di Genzo smise di agitarsi e si rilassò sul materasso.
L’ex portiere, con molta fatica, sollevò le palpebre e il suo sguardo si rifletté negli occhi neri di Ken.
Una ruga di contrarietà attraversò la sua fronte e un sospiro fuggì dalle sue labbra. Si era ripetuta la medesima storia.
I suoi sonni erano dominati da quel ricordo tragico, rosso di sangue, e, confondendo il sogno con la realtà, aveva gridato.
Quante volte aveva svegliato Ken e aveva disturbato il suo riposo?
Ti devo chiedere scusa. Chissà cosa avrai pensato. – mormorò, mortificato. Si vergognava di quelle manifestazioni inconsulte, ma non riusciva a controllare se stesso, durante la notte.
Quando dormiva, il suo autocontrollo si infrangeva e la sua mente, priva di freni inibitori, si sbrigliava in incubi sempre più sanguinolenti.
Ken sollevò le labbra in un debole sorriso.
Niente di così scandaloso. Ho semplicemente pensato che fosse entrato un ladro e tu avessi bisogno di aiuto. Mi sono portato un’arma, anche se improvvisata. – dichiarò, ironico.
Girò la testa verso il tavolo e Genzo, seguendo il suo sguardo, scorse il vaso.
A sua volta, Genzo ridacchiò. In quei momenti, egli non si sentiva in grado di difendere se stesso, logorato dalla sofferenza, ma, contro un atleta come Ken, avrebbe potuto sentirsi al sicuro.
Si era preoccupato per lui e per la sua incolumità e non lo aveva giudicato.
Doveva ammetterlo, era felice di essere oggetto di tante e tali premure.
Con un difensore come te, non avrei avuto nulla da temere. Sarebbe bastata la sola tua forza a metterlo in fuga. – scherzò.
Una flebile gioia intiepidì il cuore di Ken, come una candela in una stanza fredda. Non lo aveva mai sentito ironizzare su qualcosa, quando erano insieme.
Voleva credere ad un pur timido segnale di ripresa, ma non doveva farsi illusioni.

Lo vedo. – dichiarò ad un tratto Genzo, serio.
Ken non rispose e, in un gesto affettuoso, posò la mano destra sul suo polso sinistro. Ne era sicuro, parlava del povero Andreas Schumann, ma non era necessario porre domande stupide al suo rivale.
Doveva essere lui a esprimere le sue emozioni.
Non avrebbe potuto curarlo, ne era cosciente, ma sarebbe stato un buon principio.
Quantomeno, non avrebbe dovuto sopportare da solo un tale, opprimente peso-
Sì, nei miei sogni c’è sempre lui. Andrea Schumann. Vedo il suo corpo privo di vita, straziato da molteplici ferite, da cui scende sangue rosso. Ha il collo spezzato da quella terribile caduta. Ma, lentamente, alza la testa, come una marionetta disarticolata in un film horror di quarta categoria. E mi guarda. – continuò.
Si interruppe e lunghi brividi percorsero la sua schiena. Il ricordo di quei sogni era dilaniante per lui, eppure non riusciva a fermare le sue parole.
L’affetto silenzioso di Ken gli ispirava fiducia e lo incoraggiava a parlare dei suoi tormenti.
Nonostante la loro rivalità, si era mostrato comprensivo e, in quelle giornate di vicinanza, gli aveva offerto un sostegno prezioso.
Come sono i suoi occhi? – chiese Ken.
Si maledì per la sua domanda. Si era ripromesso di lasciarlo esprimere senza porgli domande inopportune o sgradite, ma si era lasciato dominare dalla curiosità.
Non aveva tenuto conto dello sforzo compiuto da Genzo.
Sono occhi privi di vita. A volte, vedo solo orbite vuote, quasi di scheletro. Eppure, mi accusano sempre. Riesco a vedere odio, rancore e dolore. I suoi occhi mi odiano perché io sono vivo, nonostante tutto. E lui è morto e non potrà più esaudire i suoi sogni. Me lo ricorda sempre. – mormorò.
Trattenne a stento un singhiozzo, poi tacque e, per alcuni istanti, fissò un punto indefinito davanti a sé.
E’ come se, dall’Aldilà, si fosse assunto il compito di punirmi perché sono vivo. Vuole trasformare la mia vita in un inferno, per riequilibrare una sorte ingiusta. O, almeno, io sono convinto di questo. E, per questo, io non riesco a sostenere il suo sguardo. Arretro. – concluse.
Ken rifletté. No, non era lo spirito di Andreas a punire Genzo da un’altra dimensione, ma era il suo compagno a condannare se stesso, pur senza avere alcuna colpa.
Il suo rimorso era stato inasprito da una assurda campagna di stampa, che lo aveva tramutato in un assassino privo di emozioni.
Si erano spinti a comparare il suo caso a quello dei criminali nazisti che, per fortuna o calcolo, erano stati risparmiati dalla scure del processo di Norimberga.
Il volto di Andreas era solo il riflesso distorto del suo incessante tormento.

Come posso aiutarlo?, si chiese il portiere karateka, triste. Forse, avrebbe potuto dormire con lui, per dargli un conforto.
Ma il suo ritegno frenava la sua bocca e gli impediva di porre una simile domanda.
Con lui, Genzo condivideva una natura riservata e non voleva costringerlo a simili contatti.
Doveva però dargli la facoltà di liberare la sua mente, almeno per qualche ora.
Forse ho una idea., pensò. Nessuno dei due sarebbe riuscito a dormire.
Ma non erano obbligati a consumare il tempo in domande prive di senso.
Mi hai detto che il padrone di casa ti ha insegnato a giocare a scacchi. Puoi insegnare a me questo gioco? – chiese. Quel gioco costringeva l’intelligenza ad un impegno estenuante e avrebbe dato a entrambi un po’ di requie da quelle emozioni.
Ne avevano bisogno entrambi, seppur per ragioni differenti.
Genzo gli lanciò uno sguardo lucido di gratitudine. La proposta di Ken era un tentativo di allontanare, seppur per poco, la sua mente da quel tormento e non poteva non essergliene grato.
E, forse, non era stata una pessima idea.
In un momento di buonumore, il proprietario della casa gli aveva insegnato a giocare a scacchi e, spesso, lo costringeva a lunghe partite con lui.
Aveva sopportato quel tormento con pazienza, ma non poteva dire di non apprezzare quel gioco.
Va bene. Vado a prendere la scacchiera che ho in camera. – mormorò l’ex portiere dell’Amburgo.
Si alzò dal letto e uscì dalla cucina.


Qualche istante dopo, tornò e, tra le mani, stringeva una valigetta di forma vagamente rettangolare.
La posò sul tavolo, la aprì e, con cautela, estrasse una scacchiera di marmo a riquadri bianchi e verdi.
Poi, con cura, collocò da un lato le pedine verdi, dall’altro quelle bianche.
Vieni. Ora ti mostro cosa fare. Ti trasformerò nel mio rivale anche negli scacchi. – affermò, un mezzo sorriso sulle labbra. Non era guarito, eppure si sentiva sereno.
Avrebbe dovuto aggrapparsi a quei fragili momenti di tranquillità?
Non lo sapeva e non voleva pensarci
Ken accettò e si sedette dall’altra parte del tavolo. Oltre quella maschera, era piacevole vedere un riflesso del suo vecchio rivale.
Una speranza era ancora viva, malgrado la tragedia accaduta in Germania.
Poche ore dopo, la partita cominciò.




   
 
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