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Autore: afep    02/10/2021    1 recensioni
La vita dell'eroe professionista è costellata di sacrifici, e chiunque voglia puntare alla vetta deve essere pronto a rinunciare a tutto ciò che possa rallentare la sua scalata. Questo vale anche per il più grande di tutti, il simbolo della pace in persona.
Eppure, abbagliati dalla sua luce sfolgorante, nessuno si chiede a cosa abbia dovuto rinunciare. O a chi.
Genere: Malinconico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: All Might, Altri, Nuovo personaggio
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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Why do the birds go on singing?
Why do the stars glow above?
Don't they know it's the end of the world?
It ended when I lost your love.”

(The end of the world – Skeeter Davis)



Un'altra rapina sventata.
Ne stanno parlando alla radio proprio adesso. Dal bancone della caffetteria riesco a sentire la voce del giornalista che proviene, un po' gracchiante, dalla cucina sul retro: una banca assediata, i clienti presi in ostaggio, gli spari, e poi Lui.
Certo, non dovrei stupirmi. Quando mai Lui si è tirato indietro? Quando mai è mancato di intervenire, se gli capitava di trovarsi nei paraggi di un crimine?
Il giornalista decanta le sue lodi, e ogni volta che ripete il suo nome – un po' troppo spesso, noto, come un ragazzino che parla del suo idolo – mi ritrovo a sorridere amaramente. Dovrei averci fatto il callo, ormai; ventidue anni sono un periodo troppo lungo per continuare a pensare a una persona, o almeno così dice mia sorella, ma la verità è che non riesco a lasciarmelo alle spalle.
Ogni volta che lo sento nominare è un goccia di miele amaro. Ogni volta che sento la sua voce, in radio o in televisione, è una stilettata al petto.
All'inizio faceva più male. Ogni accenno mi straziava il cuore con artigli avvelenati, ogni allusione mi strappava lacrime brucianti. Ora va meglio; non piango più, se non in occasione dei nostri anniversari e in quei momenti in cui l'appartamento improvvisamente mi appare troppo vuoto, ricordandomi come avrebbe potuto essere la mia vita se le cose fossero andate diversamente.
Ma no, non potevano andare diversamente. Non con un uomo che aveva deciso di diventare un simbolo, anziché una persona. Un simbolo di pace, diceva; e la cosa più folle, la cosa più assurda, è che ci è riuscito davvero.
A oggi è il più rinomato tra gli Eroi: così veloce e forte, sempre con il sorriso sulle labbra per rassicurare le folle, sempre con le parole giuste da dispensare ai microfoni.
Avrei potuto diventare un'Eroina io stessa, se lo avessi voluto.
Ho un potere anche io, come ormai la maggior parte della popolazione mondiale. Non ho certo la rapidità, la resistenza e la forza sovrumana che ha Lui, ma posso manipolare l'ossigeno secondo il mio volere; divertente e innocuo quando si tratta di spegnere le candele e gli incensi nei templi, oppure quando si vuole ricreare l'idromassaggio nella banale vasca di casa, più pericoloso e terribile quando invece si va a toccare il corpo umano.
Se avessi frequentato i corsi e le scuole giuste ora potrei combattere io stessa il crimine, ma la verità è che non mi è mai interessato. Non che mi manchino il coraggio o le capacità, semplicemente non è nelle mie corde
Preferisco di gran lunga stare qui, nella mia caffetteria, badando al locale e servendo i clienti.
Amo questo lavoro. So, quasi per istinto, cosa ordinerà ciascuno di loro, anche quando si tratta di volti nuovi. Conosco tutti i loro preferiti. Conosco anche i Suoi.
So perfettamente cosa ordinerebbe se dovesse venire nel mio locale – ovviamente non verrà, anche se da qualche mese dicono sia tornato in città per insegnare in un istituto per giovani Eroi.
So cosa ordinerebbe, e so anche dove siederebbe lungo il bancone, e quale sarebbe il suo tavolo preferito all'interno della sala, e come farebbe squillare baldanzosamente la campanella sopra la porta al proprio ingresso, e come mi saluterebbe con un bacio proprio come faceva un tempo...
«Reiko, attenta!».
La voce di mia sorella mi strappa bruscamente dal flusso di pensieri, solo un istante prima che un dolore acuto e bruciante mi investa le dita di una mano.
Con un'esclamazione di dolore allontano il bricco con cui mi sono versata addosso il caffè bollente. Sul bancone si sta allargando una macchia bruna, un piccolo lago fumante color cioccolato bruciato, con al centro una desolata tazza bianca macchiata sul fianco.
«Stai bene?». Gli occhi scuri di Seika mi scrutano la mano ustionata, che sto tamponando con uno straccio. «Vai a mettere la mano sotto l'acqua fredda, qui ci penso io» mi rassicura, asciugando con prontezza il disastro che ho causato.
Non posso fare a meno di sorridere nel sentire il suo tono. Sono io la sorella maggiore, ma lei ha avuto due figlie – qualcosa che io non ho potuto avere – e talvolta usa la sua “voce da madre” anche con me.
Obbediente mi sposto sul retro, nella cucina, dove la radio continua a gracchiare e decantare la prodezza, il coraggio e la strabiliante prestanza del meraviglioso All Might.
Oh, così meraviglioso!
Tanto meraviglioso da essersi dimenticato della donna di cui aveva chiesto la mano.
Infilo le dita sotto il getto di acqua fredda del rubinetto, stringendo le labbra. Non gliene faccio davvero una colpa, dopotutto. Il suo lavoro da Eroe è molto più importante, le vite che salva ogni anno valgono bene un cuore spezzato, i progetti di una vita insieme gettati alle ortiche, un anello di fidanzamento lasciato sul tavolinetto all'ingresso insieme a un biglietto di addio.
Capisco perché non mi ha mai cercata dopo che me ne sono andata. E, ancora peggio, condivido le sue motivazioni.
La carriera dell'Eroe è raramente compatibile con la vita famigliare. Senza volerlo aveva già cominciato a trascurarmi, e più sarebbe salito in alto meno tempo avrebbe avuto da dedicare a chi aveva intorno. Me compresa.
Mi avvolgo la mano ustionata nel grembiule, chiudo il rubinetto e mi siedo su uno sgabello infarinato, accanto alla radio. Vorrei cambiare canale, ma in qualche modo non posso smettere di ascoltare mentre parlano di Lui.
È come strapparsi la crosta da una ferita che non si è rimarginata del tutto. È come pungersi di proposito con uno spillone. È come toccare volontariamente una rete elettrificata.
Sono una sciocca. Seika ha ragione, dovrei smettere di pensarci. Sono passati ventidue anni – ventidue anni di amore sprecato, di figli mai avuti, di momenti mai condivisi – ed è stupido da parte mia continuare in questo modo.
Ho bisogno di pensare ad altro, e il lavoro è la distrazione più efficace che conosca.
Così comincio a pulire, ordinare le scorte che sono arrivate questa mattina, riporre gli strumenti abbandonati sul tavolo. Poco a poco Lui torna confinato in un angolo della mia mente, sempre presente ma non più in primo piano, e infine sono pronta a tornare dietro al bancone per servire i clienti.
Sono stata lontana poco più di mezz'ora, durante la quale Seika se l'è cavata egregiamente. Mia sorella ci sa fare con i clienti, proprio come me, e mentre allunga distrattamente il resto a un'anziana signora azzimata accoglie il mio ritorno con un sorriso.
«Indovina chi è passato mentre eri sul retro» esordisce con fare divertito, muovendo le dita per far levitare una moneta che è scivolata sul pavimento ed evitare che la vecchia debba chinarsi a raccoglierla. Mi sento impallidire e per un folle istante penso che si tratti di Lui, ma poi mia sorella continua. «L'Insetto Stecco» mi sussurra complice, mentre la vecchia cliente si allontana, e io mi ritrovo a sospirare di sollievo.
“Insetto Stecco” è il soprannome, ben poco lusinghiero, che Seika ha dato a un cliente che negli ultimi mesi si è visto sempre più più spesso. Anche se forse sarebbe più corretto dire che è lei che lo vede spesso.
Si presenta sempre quando io non sono al banco, e così sono riuscita a sorprenderlo di sfuggita solo una manciata di volte, mentre usciva.
È alto – alto forse quanto Lui, anche se non è facile capirlo con quelle spalle incurvate – ma terribilmente magro, come se fosse reduce da una lunga malattia. È probabile che un tempo fosse più prestante, o almeno questo suggeriscono gli abiti cascanti, sempre di un qualche taglia troppo grandi, che gli pendono addosso come stracci su una gruccia.
Seika dice che ha un'aria familiare, anche se non ricorda dove lo ha già visto. Ordina sempre da asporto, non si ferma mai ai nostri tavoli, ma la cosa più curiosa è che ordina unicamente quello che prenderebbe Lui.
Me ne sono accorta controllando gli scontrini e parlando con mia sorella. Sono curiosa sul suo conto – a cinquantaquattro anni, senza altri svaghi e senza una famiglia mia, dovrò pur trovare un modo per distrarmi – ma anche se ho provato ad appostarmi per coglierlo di sorpresa, non sono mai riuscita a intercettarlo né a vederlo in volto. A volte ho quasi l'impressione che mi eviti di proposito, e che controlli il locale per essere certo di non incontrarmi.
«Non essere sciocca», mi dice sempre Seika, «sono sicura che sia solo un caso».
«O magari si è preso una cotta per te» ribatto ogni volta, ridendo insieme a lei.
Glielo dico anche questa volta e ancora scoppiamo a ridere, prendendoci sottobraccio e nascondendo le labbra sorridenti dietro le dita.
È in questo momento, mentre stringo mia sorella e rido con lei, che mi pare di cogliere qualcosa appena oltre la vetrina.
All'improvviso vengo colpita dall'immagine di un volto smunto, affilato, nel quale campeggiano due occhi scavati e stanchi che guardano nella nostra direzione. I nostri sguardi si incrociano per quella che potrebbe essere una frazione di secondo, e immediatamente sento lo stomaco stringersi.
“Sei tu!”, urla qualcosa dentro di me, in uno slancio di speranza disperata, ma è una follia. Non può essere Lui. Quello, lo riconosco in un secondo momento dagli abiti cascanti, è l'Insetto Stecco.
Si è ritratto nel momento stesso in cui i nostri sguardi si sono incrociati, un guizzo forse troppo veloce ed energico per un uomo all'apparenza così debilitato, e prima che potessi sbattere le palpebre era già scomparso.
Eppure, per un brevissimo istante, mi è parso quasi di vedere Lui in quei tratti scavati. La linea netta della mascella sembrava quella giusta, e così l'ampiezza delle spalle, anche in se quella posizione ricurva paiono essere larghe la metà. C'era qualcosa nella bocca, nell'espressione del viso, o forse sono stati gli occhi – occhi chiari, proprio come Lui – a darmi quell'impressione?
«Reiko?». Sento mia sorella che mi accarezza la schiena, preoccupata. Cerco di rassicurarla, ma lei scuote la testa. «Sei stanca», decreta con sicurezza, «prima rovesci il caffè, ora tremi... e stamattina hai fatto cadere un intero vassoio di dolci». Stamattina, sì. Quando alla radio hanno trasmesso un'intervista fatta proprio a Lui.
Cerco di protestare, di dire che sto benissimo – e sto bene, sul serio, ho solo bisogno di qualche minuto per riprendermi e togliermi Lui dalla testa – ma Seika non vuole sentire ragioni e mi spedisce nuovamente sul retro, dove posso fare danni senza disturbare la clientela.
Mi sento un po' sciocca a farmi trattare come una ragazzina assonnata, ma preferisco che mia sorella mi creda stanca piuttosto che rivelarle che sono ancora, come dice lei, “in lutto per la fine di una relazione”.
Così torno a sedermi sul mio sgabello infarinato, nel mio locale, accanto alla mia radio che gracchia notizie sul mio uomo. E da sola, senza nessuno a cui dover rendere conto delle mie lacrime, mi stringo tra le braccia e scoppio in un pianto amaro.




 
Ho sempre avuto difficoltà a scrivere in prima persona presente, per cui mi sono detta: perché non scriverci non una, ma ben due storie? Lost and found è il mio primo, più breve esperimento, e spero vi piaccia.

(Chi sta leggendo la storia di Ulvinne avrà notato una somiglianza tra i quirk di Reiko e di Aino, una nuova professoressa dei giovani protagonisti. Questa somiglianza è voluta, poiché sono entrambe miei personaggi. Dal momento che vivono e si muovono nello stesso mondo dei suoi, non sarà raro vederli affacciarsi o comparire gli uni nelle storie degli altri).
  
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