Prompt: Mnestic
(lista: Words)
Rating: giallo
Ciò che
non si dimentica e non si perdona
“Nous trouvons de tout dans notre mémoire; elle est une espèce de pharmacie, de laboratoire de chimie,
où
on met au hasard la main tantôt sur une drogue calmante, tantôt sur un poison dangereux.”
–– Marcel
Proust, La Prisonnière ––
Tōya non
dimentica e neppure perdona: che cosa fosse scoppiettare
d’orgoglio, bruciare
di gioia; il fuoco, allora rosso, sulle dita, la fiamma amica
che non lo
scottava; il viso di suo padre, non ancora segnato, né la sua
colpa più grande
–– quella d’averlo amato, e poi scartato. Tōya non dimentica
d’essere stato un
prodigio, poi un fallito; e, infine, lo sfortunato figlio di
sua madre, un
morto che nessuno ha seppellito.
E si
chiede, Tōya, se l’abbiano scordato o, peggio, se l’abbiano
ridotto a una
fotografia, a un vuoto dietro a un vetro e ad un riflesso; ma,
forse, del
resto, lo era già da prima, quando chi era stato, quello che
aveva senso, era
ormai andato perso, e a Tōya non restava che la rabbia col
ricordo ustionante
di sé stesso.
Di questi
tempi, Tōya srotola i giorni come una vecchia pellicola
consunta: a singhiozzi,
tracciando con le dita i ricordi degli altri e i propri
graffi, lungo un film
muto di cenere e di fumo, suture e cicatrici – le ha contate
tutte; ricorda il
perché, il dove, l’ora, come se avesse
importanza, come se
la data da non dimenticare non fosse una sola; come
se gli anni e i
fatti e le circostanze valessero davvero qualcosa
per fare i conti
con tutto il suo rancore.
È quel
rancore che salda i debiti tra la memoria e la dimenticanza,
il prezzo in cose
perse che si deve pagare –– questione di dettagli:
gli occhiali da
sole, sospesi sul taschino di un giaccone; che cosa abbia
mangiato a colazione;
la luce grigia negli occhi di sua madre quando, una volta,
ancora sorrideva, o la
certezza infantile
che avesse smesso per colpa di Tōya. Occhio per
occhio… è come
un’equazione.
E gli occhi
di suo padre lo guardano riflessi nello specchio, sfuggenti di
passaggio alle
finestre; lo scrutano nell’ombra di un bicchiere più spesso
che alla televisione,
comunque troppo spesso per dimenticare lo sguardo esatto del
suo disappunto,
della sua delusione. Che altri occhi potrebbe ricordare?
Quelli di Hawks ––
Takami, no: Keigo –– quando è sincero sempre
per errore; lo
ammette solo qualche volta, se si addormenta e non
può fare a meno
di sognare. È un segreto che si tiene in tasca, che stringe
nel pugno assieme
al proprio nome, entrambi una condanna e un anatema –– per
chi?; Tōya non ci
vuole pensare.
Ma la
memoria è subdola ed è stronza. Tōya ci ripensa – non che
faccia, d’altronde,
alcuna differenza. Ripensa a quella donna che s’è venduta un
figlio senza
opporre troppa resistenza. Ripensa al peso delle aspettative;
immagina,
s’illude, che non siano dolorose, quando non sono state
disattese. Si chiede
che cosa Hawks ricordi; che cosa avesse e che cosa gli sia
stato tolto; che
cosa abbia dimenticato, ed a che cosa abbia dovuto rinunciare.
Per un momento,
Tōya lo contempla come se fosse un riflesso capovolto –– lo
spettro redivivo di
chi Tōya sarebbe dovuto diventare, se avesse potuto ––, finché
la realtà, cogli
occhi di suo padre, non lo schiaffeggia in faccia dal primo
piano lucido di
turno. Allora, Tōya scaccia quei pensieri, oziose distrazioni,
assieme ai
krapfen che Keigo ha servito a colazione; alla contezza di
dove diavolo siano
finiti gli occhiali da sole; alla luce fuggevole negli occhi
sbagliati dei
bugiardi.
Il resto, però,
Tōya non lo dimentica; né a lui né a sé stesso, lo perdona.