Ascian
una
cosa o una persona senza ombra
Gellert si reca a
casa Silente tutti i pomeriggi.
Non pensava che sarebbe mai successo: trovare un’anima affine, un
compagno del
suo stesso genio, un alleato. Il Destino, beffardo, gli ha servito su
un piatto
d’argento quel ragazzo dai capelli ramati e gli occhi freddi che
condivide il
suo sogno di grandezza – trovare i Doni, rovesciare la propria
vita,
costruire un impero sulle rovine di una società guastata dal marciume.
Gli è impossibile separarsi da lui e dal loro progetto – poco
importano gli
sguardi che il suo compagno gli lancia quando crede di non essere
osservato,
poco importano i brividi che gli increspano la pelle ogni volta in cui
lo
sfiora, Gellert sfoggia il suo sorriso metà lascivia metà tortura e gli
passa
le dita lungo il collo solo per vederlo sussultare.
A Gellert è sempre piaciuto giocare, e Albus è la perfezione – ma
il Destino
ha offerto allo straniero dagli occhi verdi una coppa avvelenata, e il
tarlo ha
uno sguardo spento e mani magre piene di fiori.
Non ha più visto la ragazzina da quel giorno sfolgorante di sole.
Ogni pomeriggio si guarda attorno, un po’ per caso, un po’ perché non
riesce a farne
a meno. La porta della veranda che affaccia sul giardino sul retro è
sempre
schiusa, ma ogni giorno Albus lo conduce al piano di sopra senza mai
voltarsi,
così Gellert lo segue, sufficientemente ammaliato dalla sua voce
candida da
lasciarsi distrarre. È facilissimo lasciarsi incantare dal nuovo
vicino, dai
suoi occhi azzurrissimi, penetranti come un fuso dietro gli occhiali a
mezzaluna, come dalla sua intelligenza che è quasi altrettanto pungente
– lo
straniero ride fino a sfinirsi ogni volta in cui lui gli tiene testa,
ogni volta
in cui le loro idee gemelle collidono e si fondono (dove sei stato per
tutto
questo tempo dove dove mai più ti nasconderai da me).
Ogni tanto incontrano Aberforth lungo le scale, con i suoi capelli
rossi sempre
arruffati e l’aria di sfida, e Gellert sfoggia il suo sorriso più
ambiguo,
tutto fossette e commiserazione. Disprezza quel ragazzino perennemente
imbronciato,
ma adora già suo fratello quel tanto che basta per lasciar correre –
non sarebbe
stato così anche soltanto qualche mese prima, quando a Durmstrang la
sua
antipatia si pagava a caro prezzo.
La casa è silenziosa, chiusa in un’eterna penombra. Qualche lama di
luce macula
il pavimento, evidenzia la polvere che volteggia nell’aria. Sembra di
stare dentro
un mausoleo, tant’è tombale l’atmosfera che si respira lì dentro.
La bambina spezzata sembra non esistere neanche. Non un lamento, non un
gemito.
Ma lui sa che lei è lì, la bambina senza macchia dal volto
inespressivo,
niente ombre nei suoi occhi color dei fiordalisi, e resistere è
estenuante,
estenuante (come lo è sognarla ogni notte).
È un giorno come tanti quando
Gellert scende le scale col
consueto brio e nemmeno s’avvicina alla porta d’ingresso, ma si lascia
scivolare lungo il salone e più in là, oltre l’uscio schiuso della
veranda.
Albus freme, la sua voce articola un mormorio indistinto che suona come
una
protesta – le rimostranze gli muoiono sulle labbra quando lo
straniero dagli
occhi verdi si volta e si lascia sfuggire una risata impenitente, lo
sguardo
perso nel suo.
Gellert sorride ad Albus e oltrepassa la porta che dà sul retro.
Sbuca nel
giardino e la bambina spezzata è lì. Senza ombre nel sole del tramonto,
i
riccioli luminosi, narcisi in rovina tutt’intorno a lei.
Quando
scorge lo straniero
dalla voce di miele, Ariana s’illumina, ride – il suo volto
inespressivo è
acceso da una gioia selvaggia, e sembra quasi vera, sembra quasi viva.
“Ciao, Ariana” mormora Gellert, lasciandosi cadere seduto vicino a
lei,
“Volevo farti un saluto. Ti ricordi di me?”
Lei lo fissa per attimi interminabili.
Tutto s’immobilizza, il mondo stesso pare torcersi e paralizzarsi:
Aberforth ha
smesso di dare da mangiare alla sua capra per osservare la scena; Albus
sosta
sul limitare della porta come se avesse paura di incespicare in un
cumulo di
rovi, e il sorriso di Gellert è sempre più ampio, sempre più luminoso,
doloroso
da guardare come il sole che si riflette in uno specchio.
Ma poi Ariana annuisce, bella d’una bellezza svaporata, sbiadita,
niente ombre
nei suoi occhi azzurri – e Albus freme, perché lei sembra quasi lì
con loro,
e Aberforth ringhia, folle di delusione e gelosia e dolore, e Gellert
ride
della sua risata irrefrenabile e, con uno schiocco di dita, fa
sbocciare cento
narcisi bianchi attorno a lei.
Ariana è felice. Sorride e inizia a massacrare i fiori, Gellert resta a
guardarla finché il sole non tramonta dietro le siepi.
Note dell’Autrice
Eccomi qui, come promesso, col secondo capitolo! Intanto voglio
ringraziare
tutti i lettori per il sostegno, sono davvero felice che la storia vi
piaccia.
Qualche precisazione: è una storia estremamente introspettiva,
soprattutto i
primi tre capitoli girano soprattutto intorno alle caratterizzazioni
dei
personaggi. È una scelta voluta, ma anche un po’ obbligata,
considerando il Canon
(sostanzialmente, in quell’estate Albus e Gellert si limitano a parlare
e progettare,
non succede molto di attivo, o almeno io l’ho sempre immaginata così).
In questo
capitolo, ho voluto introdurre il rapporto tra Albus e Gellert, e
mettere le
basi del rapporto tra Gellert e Ariana (che, lo preciso qua visto che
nel testo
non l’ho mai specificato, ha 14 anni, secondo la mia idea).
Bene, spero che la storia vi piaccia, fatemi sapere cosa ne pensate!
Mary